Il racconto e le sofferenze di un telespettatore atipico del Festival di Sanremo che per quattro sere, per la prima volta nella vita, si è sottoposto al “supplizio” di guardare la manifestazione canora simbolo dell’ideologia nazional-popolare.
- Mi è stato chiesto di guardare il Festival e, per la prima volta nella mia vita, l’ho fatto.
- Alla fine, dopo quattro serate, mi sento impoverito. Come se un ladro mi avesse rubato qualcosa di prezioso.
- Tutta colpa di questa maledetta ideologia nazional-popolare che annulla ogni cosa.
Non possiedo un televisore da trent’anni ormai. Quel poco che guardo della televisione italiana lo vedo in rete, quando mi pare, per non scivolare nell’agguato quotidiano della sua trama narrativa. Qualche programma di approfondimento, se ne vale la pena, un po’ di satira, per poter riderci sopra, e naturalmente Blob, per capire quel che succede in quella trama che è pur sempre, per quanto convesso, lo specchio del paese. Di certo non mi viene in mente, mai, di spendere il mio tempo in qualsivoglia programma nazional-popolare, tanto meno Sanremo, la sua apoteosi.
Questa volta ho ricevuto un’esplicita richiesta, proprio da questo giornale, di scrivere un articolo sul Festival della canzone. Mi è stato detto che se non ne avessi avuto voglia non sarebbe stato un problema, ma non potevo negarmi. Ho intravisto, davanti a me, un magnifico esercizio di stile. E che esercizio sia.
Mi piacerebbe intitolare questo articolo citando un romanzo di quel genio di David Foster Wallace: Una cosa divertente che non farò mai più. Perché ho guardato il Festival, da martedì a venerdì, senza risparmio, nella speranza di poter scrivere qualcosa di stimolante e, come Wallace, mi sono ritrovato turista prigioniero di una crociera, dove tutto è luccicante, puoi mangiare quel che vuoi, andare al casinò, in piscina, al cinema o a teatro. Se stai al gioco è divertente, mai un solo minuto di tregua e tutto incluso ma... se ti stanchi... non puoi scendere.
Ma cosa vi è successo?
«Se mi guardo allo specchio io vedo te, prendo un bel respiro, per un po’ lo accetto, poi riascolto il suono del tuo cuore in petto, stringo negli occhi il ricordo in un mare di lacrime» (Gaudiano). «Ti odio (non è vero), forse un po’, forse no, non lo so, forse un po’, forse no, che ne so, guarda come perdo tempo, a pensarti ogni momento, quando molto probabilmente a te neanche passo per la mente» (Elena Faggi). «Quando la faremo finita di prenderci a pugni con le parole? Quando la faremo finita di prenderci a calci con le parole? Amore» (Avincola). «E senza te non c’è risveglio, questo cuore stava meglio» (Folkast). «A che serve truccarmi se nemmeno mi guardi, ero dentro i tuoi occhi ma tu non lo ricordi, noi di spalle nel letto più soli e bugiardi, ti addormenti vicino ti svegli lontano» (Arisa). «Se fosse un’orchestra a parlare per noi, sarebbe più facile cantarsi un addio» (Colapesce / Dimartino). «Mi sono perso nel silenzio delle mie paure, mi sono perso nella notte, non mi hai mai abbracciato» (Aiello). «Prima prosciughiamo il mare, poi versiamo lacrime, per poterlo ricolmare» (Michielin / Fedez). «Forse non te l’ho mai detto, forse lo sai già, che ho bisogno di quello che ho perso» (Annalisa). «Come sempre, mi dimentico di te, le mie gioie, inevitabilmente, le ritrovo tutte quante solo quando trovo te» (Renga). «Parlami, ti prego, guardami, sai che adoro quegli attimi in cui non litighiamo e siamo proprio come ci immagini» (Fasma). «Quando ti sto vicino sento che a volte perdo il baricentro, e ondeggio come fa una foglia, anzi come la California» (Coma_Cose). «Sembra ieri, sembra ieri che la sera ci stringeva quando tu stringevi me» (Noemi). «Ma torna da me, dove sei finita amore? Come non ci sei più, e ti dico che mi manchi» (Madame). «Camminami di fronte, così mi fai seguire le tue forme con lo sguardo, guarda, c’è una casa all’orizzonte, e noi ci urliamo in faccia alla stazione singhiozzando» (Davide Shorty).
Santo cielo. Ma che c’avete ragazzi? Che vi succede? Tutti e tutte con il cuore spezzato da un amore tradito? Ma com’è possibile che tutte e tutti vi lasciate abbandonare da colui o colei che vi è più caro?
Davvero non riuscite mai a consolidare un rapporto affettivo, a renderlo duraturo, magari trasformandolo in un’amicizia sincera, in una mano sempre tesa, in una vicinanza umana anche al di fuori del cortocircuito amoroso che tanto vi ferisce. O forse vi piace il tema, quello dell’abbandono, dell’incomprensione, dell’impossibilità dell’amore, vi piace così tanto che non riuscite a liberarvene, come se foste intrappolati nella sua tela di ragno (il patriarcato, cos’altro altrimenti? la gelosia, il dominio dell’uomo sulla donna, e viceversa, a quanto pare) in attesa di esserne divorati?
Una fiera commerciale
Ragazzi miei, aprite gli occhi, fate un respiro profondo, e riprendetevi. È Sanremo, il Festival della canzone italiana, che si sta nutrendo di voi. E non è una novità. Sanremo è da sempre una fiera commerciale. In questa fiera le buone intenzioni, le ambizioni artistiche, quel briciolo di autenticità autoriale, si trasformano inevitabilmente in ricerca del consenso, in ardente desiderio di piacere, piacere a tutti i costi, cosi come oggigiorno accade con i talent, che altro non sono che emulazioni della stessa. Il mercato esige concorrenza, senza concorrenza che mercato sarebbe?
Capisco. Siete giovani. I vostri cuori sono fragili, come fragili sono le vostre esistenze, in un paese e un mondo ormai senza futuro. Ma non c’è nient’altro che vi rammarichi, che vi faccia sentire a disagio in questo mondo, questo paese, questo momento storico?
Eppure di cose terribili e dolorose ne accadono in continuazione, senza sosta, un vero stillicidio. La mancanza di senso che proviamo nella vita è così spesso determinata dall’assenza di prospettive. La disoccupazione, l’emarginazione e l’esclusione, la sperequazione sociale, le prevaricazioni, le violenze, la guerra, il razzismo, e quella cosa intollerabile che chiamiamo indifferenza, non rappresentano forse degli ottimi argomenti per una canzone?
Ho appena finito di guardare e ascoltare la prima serata del Festival di Sanremo, e ho la sensazione di averne sentito una soltanto. Ed è una canzone insignificante, noiosa, monotona e importuna. C’è di che fare appello all’interezza delle proprie forze intellettuali per poterla sopportare.
Le sole eccezioni
Qualcosa mi sussurra che domani sarà lo stesso, così come dopodomani, e il giorno dopo ancora, e l’anno prossimo, e quello successivo, così, per sempre.
Soltanto due eccezioni, ho potuto udire.
I Måneskin, grossolani e dozzinali, sentiti anch’essi milioni volte. I Guns n’ Roses, o chi per essi, vi hanno fritto il cervello. Dovreste provare con i Gun Club, o i Birthday Party. Il rock è morto ragazzi, e ci credo. Resuscitarne il cadavere è un privilegio riservato a pochi sciamani. Ma che ne sapete voi del rock. Niente, e si sente.
L’altra eccezione, in questa prima noiosissima puntata di un serial ruminante, il buon Max Gazzé, che si distingue, lui sì, per intelligenza e ironia, incurante della gara canora in sé, della quale sembra infischiarsene bellamente. Bravo Max, così si fa.
Insomma, per ascoltare un po’ di buona musica durante questo esordio abbiamo dovuto attendere la banda della Polizia di stato, in alta uniforme. Pazienza.
Occhio allo sponsor
Tim, Suzuki, Seat, Skoda, Lavazza, Cubetti Cubicù, Prime video, Disney plus, Netflix, e chi più ne ha più ne metta, una scorpacciata di annunci pubblicitari, ridondanti e stucchevoli, ci viene servita ogni venti minuti, fino alla nausea. È il momento di cambiare il mondo, è il momento di cambiare auto.
A ben pensarci... spingendoci con il sospetto un po’ più in là... come non accorgersi che questo usare lo smartphone durante lo spettacolo (i conduttori ogni tanto si passano telefonate solo apparentemente casuali, certamente tutte previste), e quell’aria così intimamente confidenziale che si respira, fra una confessione di vita e l’altra (così tipiche dei social, dove mettiamo in bella mostra le nostre esperienze, anche le più personali), non siano funzionali allo sponsor? Lo sono, altroché.
Poi arriva lei, sguaiata e stupenda, Loredana Bertè. Il suo medley è strepitoso, non tanto per la voce, più ruvida che mai, ma perché ci ricorda che cos’è, in cosa diavolo consiste una canzone scritta con il cuore sì, ma anche con il cervello. Perché la canzone è una questione di sentimenti, questo è sicuro, ma anche strumenti culturali, e Fossati, c’è poco da fare, lo sapeva eccome.
Qualcosa succede
La seconda serata non tradisce le più inquietanti aspettative. Qualcosa però, finalmente, accade. Niente di avveniristico, non sia mai, dopo tutto Sanremo è il tempio della conservazione, non c’è spazio per la poesia, non foss’altro perché la poesia dice sempre il vero e, lo diceva Gramsci, la verità è rivoluzionaria. Ma qualcosa accade.
In mezzo a una molteplicità di canzoni, tanto per cambiare, d’amore, quell’amore lezioso in cui scivola il rapporto coniugale dal settimo anno in poi, e che trasforma la canzone popolare ineludibilmente in cretinata, qualche nota fuori dal coro è possibile ascoltarla. Bugo, Lo Stato Sociale, Willie Peyote, Fulminacci, hanno incredibilmente scelto di cantare d’altro. Il primo raccontando, con consueta ironia, l’estraneazione esistenziale, e va beh, i secondi mettendoci quel pizzico di politica (un pizzico soltanto, ché la pietanza deve piacere a tutti, anche ai bambini), il terzo prendendosi gioco del mercato discografico (e certo, farlo a Sanremo è fin troppo facile), mentre il quarto... Ebbene, il giovanissimo Fulminacci sembrerebbe conoscere De Gregori. Arriva persino, inaspettata e imprevista, una sorpresa niente male. Gli Extraliscio (featuring Davide Toffolo) che si prendono gioco del Festival. Bizzarri, eccentrici, stravaganti, con una canzone strepitosa, una di quelle che ti si infila in testa per non uscirne più, ti strappano un meritatissimo sorriso. Ma sono un miraggio nel deserto. Perché, me lo si lasci dire, la sensazione generale è di sconforto, di rinuncia, di resa. La canzone italiana ha alzato bandiera bianca. Quella rossa l’ha nascosta in un cassetto, in soffitta, a casa dei nonni.
L’amore spiegato bene
A proposito di nonni... Orietta Berti. Che bella che sei. Sei una certezza, Orietta. Ad ascoltarti sembra di sentire una madre antica e nobile che ti consiglia per il meglio, che ti invita alla prudenza, e ti ricorda che prima o poi l’amore fiorisce, che non devi aver paura. Ragazzi, arrivisti del terzo millennio, fate attenzione, se ci tenete tanto all’amore: Orietta Berti ve lo spiega, teste di legno. Può durare tutta la vita, ogni giorno, ogni minuto, e divenire senso, motivo, aspirazione, nell’interminabile fatica del vivere. Non scherzo: “Quando ti sei innamorato” l’ho ascoltata già mille volte, e a ogni ascolto mi accarezza e mi bacia, mentre mi commuovo dolcemente e penso alla mia mamma, che mi manca tanto. Canzone incantevole. Crooning perfetto. Profumo di Novecento, di tradizione, di semplicità contadina. Sono deliziato, finalmente.
Il Grande Nulla
Terza serata. E qui son dolori.
È la serata delle cover, che siano stramaledette. Perché proprio quella che alla vigilia sembrava suscitare più curiosità, è un precipizio nel burrone della banalità. Tutto è deludente in questa terza puntata del Grande Nulla, ma anche peggio.
Perché no, non si violenta una canzone come “Amandoti”, non la si trasforma in una sciocchezza americana, non la si getta nelle ortiche della più abietta cafoneria rock. Sono imbarazzato, e anche un po’ arrabbiato, lo ammetto. Mi passerà.
E dire che detesto Giovanni Lindo Ferretti, perché detesto i voltagabbana e i trasformisti d’ogni genere e risma, ma le sue canzoni gli sopravvivono, e sono stupende. Perché sfregiarle in questo modo? Urgono ripensamenti e rinsavimenti, urge un po’ di dignità intellettuale.
Lo sanno bene Gazzè e Silvestri, che almeno hanno portato il giusto riguardo nei confronti di una canzone bella e significativa come “Del Mondo”. E facciamola finita con la trasgressione per la trasgressione. Il rock è morto a Sanremo, settantunesima edizione, per la seconda volta. Sarebbe stato più dignitoso lasciarlo nella sua fumosa ubriaca strafatta e funerea cantina. È quello il suo posto.
Mentre scrivo arriva, di nuovo, puntuale come un esattore, Achille Lauro, «il politicamente inadeguato, il bambino con la cresta, l’estetica del rifiuto, il rifiuto dell’ideologia, e che Dio benedica chi se ne frega». Ha detto veramente così. E vai con l’inno d’Italia à la Hendrix. Un inno al vuoto. L’artista meno talentuoso di tutta la kermesse, il più fatuo, quello che si crede un grande pittore e non è che un graffitaro da autogrill, ci propone il suo quarto “quadro” (sono le 23 di venerdì 5, incomincio a cedere, scrivo per sfinimento), e questa volta resto sinceramente disgustato. Lo sapevo che andava a finire così.
Mentre si esibisce La Rappresentante di Lista (e come si intitola la sua canzone? Si intitola “Amare”! Ma dai!) spengo l’audio del computer e cerco di raccogliere le idee, perché sono frastornato, e non ne posso più.
Non ci sono figli di Loredana in questo Festival. Nessun attaccabrighe, solo bravi ragazzi, puliti e profumati, eleganti e gentili.
Un momento di follia
Giovedì, dopo aver rivisto nel pomeriggio, mentre stiravo camicie e pantaloni, la seconda serata, mi sono sentito invadere da una strana sensazione, e già incominciava la terza. Pensando «santiddio Pierpaolo, ma chi te lo fa fare?», ho iniziato a intristirmi. Elisa, la mia compagna, mi osservava preoccupata. Non stai bene? Qualcosa non va? È tutto ok tesoro, non ti preoccupare. Pochi minuti dopo scoppio a piangere. Mi sento devastato, mi sento solo, mi sento abbandonato dal mondo intero, mi sento tradito. Non è che un attimo. Elisa mi accarezza. Scoppio a ridere. Una risata fragorosa, assurda, immotivata.
Così ho chiamato Piero, il mio amico psichiatra, e gli ho chiesto cosa mi fosse accaduto. Gli ho spiegato che sì, non è la prima volta, ma che in questo caso ho avuto l’impressione di aver vissuto un momento di follia.
Piero è un basagliano, ama dirsi «psichiatra riluttante», ci conosciamo bene e siamo “fratelli in armi”, da tempo ormai combattiamo la stessa battaglia, insomma, mi fido di lui. Mi ha spiegato che si è trattato quasi certamente di un episodio ciclotimico. Cose che succedono, dovute allo stress. Nulla di preoccupante.
Il fatto è, mio caro amico, che mi sento impoverito. Mi sento come se un ladro, un professionista serio, scaltro e furtivo, nel silenzio felpato della notte, fosse entrato in casa mia, alla ricerca di ciò che di più prezioso possiedo, e senza che me ne accorgessi. Ecco, sì, mi sento più che impoverito, mi sento derubato.
Questa maledetta ideologia nazional-popolare, questa falsa coscienza a uso e consumo delle case discografiche e della televisione, si è rubata persino la gloriosa stagione delle Posse, ormai divenuta un ricordo lontano, sussumendone i tratti caratteristici e trasformandone i contenuti da politici a impolitici, da impegnati a disimpegnati, un po’ come Neffa, che suonava la batteria nei Negazione (per chi non lo sapesse il più noto gruppo punk italiano, attivo fra il 1983 e il 1992), poi con Isola Posse All Stars e Sangue Misto, alla fine ha ceduto alla canzonetta. Con grande stile, bisogna pur dire quel che è vero, ma tuttavia canzonetta. Da dove vengono altrimenti i Coma_Cose?
Va bene così, ma che peccato. Me ne farò una ragione.
Confessione d’impotenza
Raccolgo i pensieri. E mi rendo conto che questi quattro giorni di Festival della canzone mi hanno davvero portato via qualcosa. La prima serata mi ha divertito. Nella seconda ho provato un senso di smarrimento emotivo. La terza mi ha infastidito, e non poco. La quarta è un supplizio, una garrota stretta lentamente al collo, un waterboarding, mentre i miei torturatori, pardon, intrattenitori, mi intimano di confessare. E va bene, confesso. Confesso tutto ciò che volete. Che cos’è questo articolo se non una confessione di impotenza. Mi arrendo! Ma per favore, non fatemi mai più guardare Sanremo. Non vorrei mai fare la fine di Foster Wallace, che Dio l’abbia in gloria. Non voglio più vedere Avitabile deriso da due tizi che ogni cosa sfiorano diventa ridicola. Enzo, anche tu, che suonavi con James Brown e Tina Turner, in questa fiera delle vanità?
Il Festival della canzone italiana è peggiorato in queste ultime due edizioni. Ve ne sarete accorti. È diventato una crociera, o un villaggio turistico. Tutti al lavoro, senza pause, per ammazzare il tempo.
Non sono un tipo da crociera, io. E nemmeno da villaggio turistico. Io le vacanze me le faccio da solo, in santa pace, per le strade del mondo, alla ricerca di me stesso.
Adesso ho voglia di Claudio Lolli. Questa notte mi addormenterò ascoltando “Un uomo in crisi”. Un po’ di santa mestizia, disperata speranza, poesia, per disintossicarmi. E che la canzone italiana possa tornarsene indietro, indietro nel tempo, a investigare la sua ragion d’essere. Prima o poi lo farà, ma non a Sanremo, questo è sicuro.
Come diceva Fabrizio De André, imbeccato da Enzo Biagi (vado a memoria): Sanremo è una gara di ugole, qualcosa di simile una competizione sportiva, dopotutto le corde vocali sono dei muscoli. Io metto in gioco i miei sentimenti, e non c’è gara che tenga.
P.s. Me ne stavo dimenticando. E che dimenticanza! L’orchestra. L’orchestra dell’Ariston ha dato prova di una professionalità sublime. Mai niente fuori posto, arrangiamenti ineccepibili, forza e continuità, non una sbavatura, non un cedimento. Ma che pazienza hanno questi orchestrali?
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