Negli Usa hanno tolto l’Odissea dalle letture scolastiche, perché ritenuto un testo fondativo della mascolinità tossica. Quando apriamo un libro non siamo più in grado di goderci la festa, perché tutto risente del nostro “codice morale”
- È di questi giorni la notizia che negli Stati Uniti hanno censurato Omero e messo al bando delle letture scolastiche l’Odissea, in quanto testo fondativo della mascolinità tossica occidentale.
- In questi giorni nella bolla si è visto molto girare un pezzo di Claudia Durastanti, uscito su Internazionale, intitolato Far esplodere i miti, cambiare idea, immaginare l’inimmaginabile, una dichiarazione di intenti che non può che trovarci tutti d’accordo.
- Ed è davvero un peccato che questi grandi artisti, autori di meravigliosi capolavori, non seguissero il giusto codice morale e costringano noi, oggi, a sentirci a disagio o offenderci.
È di questi giorni la notizia che negli Stati Uniti hanno censurato Omero e messo al bando delle letture scolastiche l’Odissea, in quanto testo fondativo della mascolinità tossica occidentale. Al netto di esagerazioni giornalistiche e strumentalizzazioni varie, pare che da quelle parti in molti ci credano davvero: i testi del passato risentono del clima culturale e morale dell’epoca in cui sono stati scritti e non possono, di conseguenza, essere proposti alla lettura di giovani che vanno educati a quei principi morali molto più avanzati a cui nel frattempo siamo giunti. E Omero? E Dante? E Shakespeare? Eccetera?
Queste diatribe sulla moralità dell’arte e sul politically correct sono sempre state noiosissime, diciamoci la verità. Conoscete veramente qualcuno che sarebbe d’accordo nel limitare la lettura dell’Odissea a scuola perché Ulisse è un fallocrate? Una volta avrei detto di no, ma negli ultimi anni (mesi), la situazione mi pare cambiata, quantomeno nella mia bolla editorial-intellettual-culturale.
Difficilmente, in Italia, troverai qualcuno che arriva alla caricaturale inverosimiglianza di certe prese di posizione “made in Usa”, ma anche qui le cose si muovono.
Far esplodere i miti
Facciamo un esempio. In questi giorni nella bolla si è visto molto girare un pezzo di Claudia Durastanti, uscito su Internazionale, intitolato Far esplodere i miti, cambiare idea, immaginare l’inimmaginabile, una dichiarazione di intenti che non può che trovarci tutti d’accordo. Non c’è nulla di stupido e caricaturale in questo pezzo e quindi mi ha aiutato a capire la direzione in cui si sta andando, con un movimento di cui mi accorgo con notevole ritardo e con una certa incredulità.
Devo, infatti, confessare che rispetto a questi temi, molto spesso, mi sono comportato come uno di quei borghesucci filistei dei romanzi dell’Ottocento: contenti di due o tre nozioni orecchiate in gioventù, convinti che esse bastino e avanzino per affrontare qualunque discussione, inclini a considerare i giovani e le loro idee nuove poco più che molesti insetti ronzanti, i quali fanno un gran baccano, ma non durano più di un mattino d’estate. Ma posso, possiamo, continuare così? Certamente no.
Leggiamo allora cosa dice un’intellettuale aggiornata: «Nel mutare la propria idea su un film del passato considerato un capolavoro e oggi ritenuto inguardabile, conta molto l’istinto, una risposta quasi fisica e sensoriale (…). Qualcuno che abbiamo amato inizia a farci schifo. Succede nelle migliori storie d’amore, perché non può succedere con i romanzi?».
Sacrosanto. I gusti cambiano, le sensibilità si affinano, certi presunti capolavori non reggono al passaggio di pochissime generazioni. Su questo, siamo tutti d’accordo.
Ma non si tratta di questo.
Si tratta, invece, di questo: «Quand’è che pure lo spettatore più disinteressato a certe idee di giustizia sociale, di correttezza verso gli altri e a un’equa rappresentazione di una vasta gamma di persone nelle opere di fiction, comincia a sentirsi distante da alcune visioni patriarcali o razziste?».
Si tratta del fatto che in Mad Men si beve, si fuma e si vive nel patriarcato più bieco e che lo spettatore che apprezza la serie (molto, moltissimo, come è giusto, giustissimo) non può non trovarcisi a disagio.
Si tratta del fatto che Lolita letto da giovanissima è un conto, ma letto da quarantenne, quando ne sai molto di più su patriarcato e compagnia bella, è un altro conto.
È così, secondo Durastanti, che un film può passare da capolavoro a pellicola inguardabile: mostrando cose che non sono (più) accettabili per le nostre idee di giustizia sociale, di correttezza e di equità.
Un capolavoro può diventare inguardabile proprio come «la visione di una grossa bistecca semicruda mangiata con gusto all’interno di una pubblicità [può] mettere in difficoltà anche chi non è vegano e chi non ha ridotto particolarmente il proprio consumo di carne».
Noi, in quanto spettatori, siamo ora capaci di leggere altre cose in quella bistecca (crudeltà degli allevamenti intensivi, modello di sviluppo sbagliato, ecocidio) e, di conseguenza, la nostra nuova lettura muta il vecchio giudizio di valore – al limite lo ribalta.
Il trauma della finzione
Mi pare un ragionamento applicabile, con un minimo di sforzo interpretativo, anche all’orrenda considerazione delle donne e degli schiavi che si può trovare nei versi omerici. Ed è davvero un peccato che questi grandi artisti, autori di meravigliosi capolavori, non seguissero il giusto codice morale e costringano noi, oggi, a sentirci a disagio o offenderci. Da dove viene questa postura intellettuale?
Io, senza piagnistei contro la cancel culture e volendo fermamente restare sinceri democratici, un’idea ce l’avrei. Non sarà certamente l’unica spiegazione, e non è nemmeno un’idea mia. Ma mi pare sensata.
Viene da un bel post pubblicato su Facebook da Tommaso Pincio, scrittore, artista e intellettuale.
Tagliando brutalmente un ragionamento che parte da altre premesse, entriamo in medias res, dalla grande fortuna attuale di quel genere di narrativa in cui l’autore compare da protagonista nel libro che scrive: «Quando compriamo un romanzo di Simenon compriamo comunque un romanzo, (…) in tanti fra noi lo comprano pur non sapendo niente di lui ovvero soltanto perché scrive bene. Se invece compriamo Carrère, per fare l'esempio cui tutti voi pensate, lo so, prendiamo l'intero pacchetto, il libro di Carrère e la persona Carrère». Risparmiamoci i caveat e facciamo un secondo passo: cosa fa Carrère che non fa Simenon? Ci mette al riparo dal “trauma della finzione”.
«Dico trauma perché, nel suo piccolo, la finzione romanzesca ci obbliga a sradicarci dal mondo in cui siamo abituati a vivere per entrare in uno nuovo, magari non così diverso dal nostro, ma nuovo; come andare a una festa in cui non si conosce nessuno. Lo scrittore che si degrada a persona si offre appunto di accompagnarci alla festa e presentarci agli altri invitati. Che poi tra questi vi siano feroci assassini non ci preoccupa, anzi ci tranquillizza, perché per quanto difficile sia lo spettacolo che ci aspetta, non ci dimenticheremo mai che noi siamo noi e l’assassino è l’assassino (…). Ben altra faccenda è quando lo scrittore non si degrada e ci parla per bocca di Meursault, dicendoci: «Oggi mamma è morta. O forse ieri, non so».
Pincio, lo precisa subito, non intende stabilire una gerarchia di valore tra queste due possibilità di scrittura (da lui ribattezzate “gli avversari”, da un titolo di Carrère, contro “gli stranieri” dal libro di Camus da cui è tratta la citazione precedente).
Nemmeno io intendo farlo. Ma mettiamoci nei panni di una lettrice sinceramente preoccupata di sostenere i diritti delle donne, delle minoranze, di tutti quanti, per carità. Diciamo che ha comprato un romanzo “avversario”: lo scrittore l’ha accolta con grandi feste e se ne sta lì con lei tutto il tempo a conversare amabilmente, quando, improvvisamente, tira fuori una barzelletta razzista. Oppure la pronuncia un altro invitato, ma lo scrittore lascia correre, non controbatte, magari addirittura sghignazza. Che fare? Beh, voi vi divertite alle feste dei razzisti? La lettrice abbandonerà in tutta fretta la festa, per mai più frequentare quell’autore.
Ma se la nostra lettrice ha in mano uno “straniero”, la cosa cambia. È più come se fosse capitata in piazza tra un po’ di gente sconosciuta, radunata da chissà chi per motivi non del tutto chiari. Un tizio strano dichiara preliminarmente che gli è morta la madre, uno di questi giorni, e a lui, tutto sommato, non importa granché.
La lettrice è a disagio; chi non lo sarebbe? Costui pare un sociopatico, fa quasi paura (si vocifera, peraltro, che abbia ammazzato un arabo). Se solo qualcuno (l’autore, magari, che non si vede da nessuna parte) le dicesse chiaramente cosa pensare di questa situazione!
Feste in casa
Ecco, mi pare che a noi, ormai, piacciano solo le feste in casa, in cui siamo tutti amici e tutti d’accordo. E, se non siamo d’accordo con l’anfitrione, con gli invitati, con il soggetto dei quadri appesi alle pareti, possiamo sempre andarcene e parlarne male con i nostri amici. Invece trovarsi in una piazza piena di sconosciuti, oltretutto in tempi di Covid (incredibile come la realtà forzi fin troppo la metafora, in questo caso), ci spaventa addirittura. Anche se è per finta. Noi non pensiamo (più) che un libro debba fare (debba farci) questo, nemmeno un libro di finzione. Noi vogliamo “avversari”, non “stranieri”.
Il che potrebbe pure andare bene (ognuno fa quello che vuole nel silenzio della sua biblioteca), finché garantiamo piena cittadinanza anche ai poveri “stranieri”, magari provenienti da terre lontane nel tempo, oltre che nello spazio. E resta pure un dubbio ulteriore: che tutti questi “avversari” siano in realtà degli “stranieri”; e che siamo noi, ingenui, che ci siamo fatti fregare e crediamo che lo scrittore sia quella persona così brillante ed educata che non lascia il nostro fianco per tutta la festa, mentre il vero autore, in compagnia del vero lettore, se ne sta perfidamente comodo su un sofà ottocentesco a sbellicarsi dal ridere ascoltando le nostre chiacchiere da cocktail party.
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