Questo brano è un estratto dall’ultimo volume di The Passenger, “Irlanda”, in uscita il 10 novembre per Iperborea. Traduzione di Marinella Magrì.

Ogni volta che torno nel mio paese d’origine ricomincio a capire la funzione della memoria. In questa terra, da figlio di una semplice periferia, ho imparato a riconoscere il peso della violenza. In questa terra la luce gioca con l’ombra, forse più che in qualsiasi altro luogo del mondo. Torbiere, caseggiati, stradine serpeggianti, ruscelli guizzanti, sguardi furtivi. Terra di santi, di studiosi, di schizofrenici.

Siamo costruiti sulle ferite e sulle benedizioni del passato: ovunque siamo, siamo già stati. E se c’è un paese capace di esprimere le contraddizioni del Ventunesimo secolo, per me è l’Irlanda che ho conosciuto e amato.

Appartenere a più luoghi

Ho lasciato l’Irlanda più di tre decenni fa. Quando torno a casa mi ritrovo la cassa toracica spalancata e il cuore strizzato come un vecchio strofinaccio. Il sentiero fangoso che portava alla mia vecchia scuola è sparito. Sul pezzo di terra dove i ragazzini facevano a botte hanno eretto una torre di vetro. Il vecchio campo da calcio è attraversato da un’autostrada. Cambiato, cambiato, tutto completamente cambiato. Ma la nostalgia è pericolosa.

Non credo che l’Irlanda dei miei ricordi sia idealizzata; di certo non è esclusivamente quello. Ci ho vissuto negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta. L’ho attraversata da costa a costa. Da nord a sud. Le montagne. I fiumi. I paesaggi marini. Le torbiere. Le acque increspate del Lough Neagh. Gli alberi di Powerscourt piegati dai rigori atmosferici. La valle di Glendalough, dove la luce era più intensa che in qualsiasi altro posto sulla Terra.

L’ho amata, ma l’ho anche detestata: le fantasticherie stucchevoli, il risentimento, la mentalità isolazionista della chiesa cattolica, i pettegolezzi incessanti.

Nel 1986 l’ho lasciata e sono partito per gli Stati Uniti. Doveva essere un viaggio breve ma ha finito per protrarsi, più o meno, tutta la vita.

Forse una delle ragioni per cui ho lasciato l’Irlanda è che non volevo dimenticarne l’insita bellezza. È nella natura dell’emigrante infliggersi una ferita per poter ricordare. È una specie di tatuaggio mentale. La conserviamo nelle profondità delle nostre sinapsi, svincolata dalla realtà del presente. James Joyce una volta disse che era rimasto così a lungo lontano dall’Irlanda che poteva «sentire la sua voce in ogni cosa».

A trent’anni vivevo a New York e cercavo di guadagnarmi da vivere muovendo i primi passi come scrittore. Tornavo a casa, a Dublino, una volta l’anno, solitamente per Natale. Ma ogni volta ripartivo.

Tigre celtica

Durante la mia assenza, l’Irlanda era cambiata. Era stato un cambiamento graduale, spesso in meglio. L’Europa ci aveva riempito le tasche. La povertà era diminuita. La mia era stata una generazione di emigranti, ma di colpo i miei coetanei decidevano di restare e mettere radici. L’Irlanda era un buon posto in cui stare. Non viveva più all’ombra della Gran Bretagna. Il mondo si interessava a noi. E abbiamo cominciato a prestare attenzione non solo al nostro paese, ma a noi stessi.

Per tutti gli anni Ottanta e Novanta mi piaceva andare a casa. Accarezzai perfino l’idea di ritornarci una volta per tutte, ma a New York avevo cominciato a costruirmi una vita. E poi, dall’inizio degli anni Novanta, e fino a metà dei Duemila, la Tigre celtica prese a fare le fusa e a ruggire.

Successe qualcosa di sorprendente: la Repubblica d’Irlanda divenne un paese così sfacciatamente sicuro di sé che pareva che nulla potesse andare storto. Re Mida aveva cominciato a parlare con accento irlandese.

Giunti al 2003, il Pil pro capite dell’Irlanda superava quello di ogni altro paese d’Europa, eccetto la Germania. Tornando a casa, mi sentivo un impostore. Le strade erano cambiate. Erano spuntate autostrade a più corsie, dall’aeroporto non riuscivo a imboccare quella giusta. La gente ridacchiava dell’accento americano dei miei figli. La festa era cominciata e io ero troppo vecchio e troppo straniero per essere invitato.

Sentivo svanire la mia voce irlandese. Mi ritrovai lacerato tra la rabbia per ciò che stava accadendo e un’analoga rabbia per quel mio così evidente sentimentalismo, e forse per il mio silenzio complice. Ogni volta che tornavo quel pianeta mi sembrava più distante. L’illuminata legislazione sociale era stata smantellata. I sorrisi dei politici erano vacui e alimentati dal denaro. C’era un istupidito asservimento all’avidità.

Processo di pace

La narrazione che nel corso della mia assenza dall’Irlanda correva a fianco di quella della Tigre celtica era legata al processo di pace. Da bambino avevo trascorso molte estati in Irlanda del Nord e avevo assistito alla devastazione che la guerra poteva infliggere a un paese: i crateri delle bombe, i funerali, gli scioperi della fame. Ma nei primi anni Novanta cominciò a succedere qualcosa di straordinario. Occorreva confrontarsi con ottocento anni di odio sclerotizzato. Incredibilmente nel 1998 fu negoziato e ratificato un accordo di pace. A volte vacillava, ma reggeva.

Nel nuovo secolo, la pace tinse l’Irlanda del Nord di un nuovo colore. Belfast sembrava una città appena uscita all’aria aperta. Si udivano note jazz provenire da un ristorante di tapas in fondo a Botanic avenue. Nelle campagne avevano tolto il filo spinato dai posti di blocco. Le torri radio militari erano state abbattute. Arrivarono gli immigrati. Nuovi volti, nuove prospettive. Nell’Irlanda del Nord resistono questioni di bandiera, di rivolte, di territorialismo. Ma la provincia, nel suo cuore, è notevolmente cambiata.

Questo paese cosa dispiega ai miei piedi? Quali altre possibilità può offrire? Un’altra forma di casa, forse?

La crisi finanziaria

La Tigre celtica diede un duro colpo alla mia visione dell’Irlanda. Il 2007 ficcò un coltello malevolo nel sistema finanziario. Città fantasma costellavano le campagne. In tutti i piccoli villaggi spuntavano cartelli con su scritto «Cessata attività». L’economia soffriva. La gente soffriva.

Ma ricomparve un certo senso di umiltà. Mi fu evidente quando ritornai. Mi sembrò un posto più reale. Non mi sentivo fuori luogo. Era appropriato chiamarlo ancora «casa». Fu allora che mi resi conto che anche se avevo lasciato l’Irlanda, lei non avrebbe lasciato me.

Dopo una tale batosta, il paese ha ricominciato ad alzare la testa. Il volto del paese cambiava. Sono arrivati gli immigrati e i rifugiati e hanno cambiato la nostra natura. E mentre l’economia si riprendeva sorgeva – almeno per me – il senso di un’Irlanda completamente nuova.

Adesso, più ritorno, più accetto. È un processo legato al mio invecchiare, ma resto enormemente sorpreso nello scoprirmi meno nostalgico. Torno, vado in giro, esploro. Nell’Irlanda del Nord la pace traballa, ma regge. La Brexit ha messo un grosso bastone tra le ruote, ma ci sono segni evidenti che le distanze si stanno riducendo, e che un giorno non ci saranno più Nord e Sud, solo una vera e propria Irlanda a cui tornare.

Raccontare una storia

Un paese è composto molto più dalla sua gente che dal suo paesaggio. Siamo tormentosamente poetici. Siamo goffamente comici. Siamo volutamente ambigui. Risponderemo a una domanda con un’altra domanda. Ti forniremo indicazioni per raggiungere il luogo esatto dove non vuoi andare. Siamo blasfemi. Bastian contrari. Le nostre canzoni di guerra sono allegre. Le nostre canzoni d’amore sono tristi. Ci prendiamo gioco della disperazione. E siamo bravissimi a sparare sciocchezze su noi stessi. Ma siamo anche aperti al cambiamento. Gli irlandesi hanno sempre avuto un grande senso dell’umorismo, ma mai quanto nel momento in cui si sono trovati con le spalle al muro. La sola cosa a cui nella psiche irlandese non si è mai rinunciato è la convinzione che ci sia sempre speranza – e anche, certo, la convinzione che ci sia sempre casa.

Joseph Brodsky dice che non puoi tornare nel paese che non esiste più. È vero. Ma in un certo senso ci torniamo attraverso le nostre storie e la nostra capacità di raccontarle.

C’è qualcosa di fondamentalmente irlandese nel mettersi seduti a raccontare una storia. Forse è la pioggia che ci induce a stare in casa. Forse è l’alcol. Forse è la natura del nostro carattere, sempre in cerca di una discussione – siamo notoriamente legati ai nostri rancori. Forse è perché una storia tesse la trama di come saremo ricordati, rendendoci parte dell’eternità.

Molto può esserci tolto, ma non i nostri ricordi o le nostre storie. E nemmeno quei luoghi in grado di riaccendere la nostra memoria. È questo che significa «casa».
©️ 2021, Colum McCann 


Il nuovo volume di The Passenger, “Irlanda”, è in uscita il 10 novembre per Iperborea.

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