- Call my Agent è un gioiello raro, che esce dagli schemi della serialità a cui siamo ormai abituati. Proprio in questi giorni è disponibile la quarta e ultima stagione che, come le precedenti, colpisce per il suo umorismo, la qualità della scrittura e delle interpretazioni.
- In ogni puntata compare almeno una star che non solo interpreta sé stessa, ma anche una versione di sé piena di fragilità e idiosincrasie. La serie ha il dono di portarci al cuore di una professione, di farcene cogliere le dinamiche e apprezzare l’intelligenza che la anima.
- Anche l’Italia avrà il suo Dieci percento. Sapranno i nostri attori prendersi in giro?
Negli ultimi anni, com’è noto, il numero di serie tv è aumentato a dismisura. Un effetto secondario di questa sbornia ha riguardato anche la richiesta di attori, oltre che di autori e registi. I più noti lavorano senza posa, ma non basta, anche quelli meno noti, o meno bravi, hanno un’agenda fittissima di impegni. Così ci troviamo sempre più spesso ad avere attori europei in grandi produzioni americane, che al solito sono quelle più ricche (tutti abbiamo recentemente notato Matilda De Angelis in The Undoing, Hbo). Un bel momento per essere attori, e un bel momento per essere gli agenti di questi attori.
Da qualche anno su France 2, la tv pubblica francese, va in onda una serie dedicata proprio a loro. Si intitola Dix percent, ed è diventata nota a livello internazionale con il titolo di Call my Agent grazie a Netflix, non nuova a questa forma di appropriazione e valorizzazione (Black Mirror, Better Call Saul, Skam Italia). Proprio in questi giorni è disponibile la quarta e ultima stagione della serie che, come le precedenti, colpisce per il suo umorismo, la qualità della scrittura e delle interpretazioni. Call my Agent è un gioiello raro, che esce dagli schemi della serialità a cui siamo ormai abituati sulle piattaforme e in televisione.
Prestige tv a basso costo
I protagonisti lavorano per Ask, talent agency parigina che opera nel mondo del cinema e della tv, entità sempre in crisi, costantemente a rischio di fallimento nonostante abbia a catalogo buona parte dello star system francese. E qui sta la prima caratteristica di Call my Agent: in ogni puntata compare almeno una star che non solo interpreta sé stessa, ma anche una versione di sé piena di fragilità e idiosincrasie. Sono proprio i nomi di battesimo degli ospiti che danno titolo agli episodi, eccone alcuni delle prime tre stagioni: Isabelle (Adjani), Isabelle (Huppert), Juliette (Binoche), Jean (Dujardin), Monica (Bellucci), Fabrice (Lucchini). Nella nuova ci sono anche Charlotte (Gainsburg), Sigourney (Weaver) e Jean (Reno).
Caratteristica comune delle guest star è quella di mettersi in gioco e molto spesso in ridicolo, accettando, sul piano della finzione, fallimenti di ogni tipo, manie e fragilità: Cecile De France è appena stata rifiutata da Tarantino; Juliette Binoche è in preda al panico per il discorso di apertura a Cannes; Monica Bellucci ha bisogno di essere consolata perché non riesce più a sedurre gli uomini; Sigourney Weaver vuole a tutti i costi un amore giovane; Mimie Mathy, attrice affetta da nanismo, molto famosa in patria per la serie Josephine, in un impeto di meschina rivalsa ruba la macchina del caffè (e le cialde) dell’agenzia, e via di questo passo.
Non c’è star che luccichi nel cielo di Parigi che non sia sporcata col fango della scrittura ironica e affilata degli autori. Mi pare di vedere Fanny Herrero, creatrice della serie, ancora senza esperienze significative nel curriculum, che racconta la sua idea di serie ai dirigenti di France 2 nell’ormai lontano 2014: «È la storia di un gruppo di agenti che mette in gioco tutto quello che ha per la propria agenzia. In ogni puntata comparirà almeno un attore famoso che interpreta una versione ironica di sé». Il massimo della prestige tv, la tv fatta di nomi altisonanti, e allo stesso tempo una sua gustosa parodia a basso costo per il pubblico ampio della televisione generalista.
Gli agenti
Una serie che nasce con queste premesse ha il problema di dare vita a personaggi a tutto tondo, capaci di non lasciarsi oscurare dalle celebrità ospiti. Ed è proprio quello che gli autori sono riusciti a fare, tanto che in primo piano ci sono proprio loro, gli agenti e la loro vita. Vale la pena citare ancora una volta il titolo originale, quel dieci per cento si riferisce alla commissione di agenzia sui guadagni degli assistiti. Tutto ruota intorno a quel guadagno: trovare ruoli agli attori, convincerli ad accettare una parte, rubare i clienti alla concorrenza, scoprire nuovi talenti.
Alla Ask non c’è distinzione tra vita personale e vita professionale, ed è su questo punto che la narrazione trova il suo sfogo. Dall’assenza di confini nascono le storie che si intrecciano a doppio filo con quelle degli attori; tutto viene vissuto in prima persona, come la figlia che in modo rocambolesco finisce per lavorare nell’agenzia con lo scopo di farsi riconoscere e accettare dal padre, Mathias Barneville, uno degli agenti più importanti e motore delle principali svolte narrative della serie. Per quel dieci per cento sono disposti a dare il cento per cento e oltre, ad accogliere e assecondare l’adorabile egocentrismo, le vanità e le fragilità degli attori, ingoiando di tutto ma senza mai rinunciare al proprio tornaconto professionale e al bene della Ask, una specie di madre da adorare.
Se in Mad Men tutti mentono, in Call my Agent tutti manipolano e vengono manipolati. Ma la nota dominante non è certo il cinismo, emerge una certa integrità, l’amore per il proprio lavoro e per i colleghi. In primo piano c’è proprio la capacità di mettersi in gioco per risolvere problemi professionali che sono al tempo stesso problemi di natura esistenziale degli assistiti.
Come nella storia di José Garcia, afflitto da un singhiozzo psicosomatico che gli impedisce di recitare, scatenato dall’incontro fortuito con la donna che un tempo ha amato. O come nella storia di Franck Dubosc, attore comico conosciuto per film di cassetta come Asteryx, I visitatori, Bis, che affronta una crisi di mezza età sul set di un film arthouse di una regista di colore dove recita al fianco di un giovane attore delle banlieu, fresco di premio César. L’uomo si sente a disagio in quel contesto, insicuro, vuole mollare tutto e sarà compito del suo agente, Gabriel Sarda, uno dei personaggi più riusciti, aiutarlo a trovare il coraggio per affrontare le sue paure e portare a casa il film.
L’adattamento italiano
Call my Agent ha il dono di portarci al cuore di una professione, di farcene cogliere le dinamiche e apprezzare l’intelligenza specifica che la anima. Nella nuova stagione una delle location è la sede di una vera casa di produzione cine-televisiva, Mediawan, gruppo francese da poco ingranditosi con l’ingresso del fondo americano Kkr e ormai potenza europea. Da questo punto di vista Call my Agent appartiene di diritto alle migliori serie corali ambientate sul luogo di lavoro: non tanto Entourage, quanto la già citata Mad Men, Unreal, la serie che mette in scena la produzione di un reality show ispirato a The Bachelor, Halt and Catch Fire, che racconta gli albori dell’industria dei pc e di Internet. Con tutte queste ha in comune la capacità di appassionarci a un mondo del lavoro intravisto solo dall’esterno, trovando un compromesso tra le esigenze drammaturgiche e il realismo. Se ne distingue, però, per una messa in scena in cui si ride parecchio.
Dix percent è giunta alla fine, ma sta cominciando a vivere una nuova vita all’estero. Sono già stati fatti adattamenti in Turchia e in Canada, e sono in corso di sviluppo quelli in Germania e in Inghilterra. Anche l’Italia avrà il suo Dieci percento, se l’è aggiudicato all’asta la casa di produzione Palomar, quella di Montalbano, che appartiene neanche a farlo apposta proprio a quella Mediawan rappresentata nella serie. Certo l’Italia non può vantare lo star system francese, ma la vera curiosità risiede altrove, nella capacità di mettersi in gioco dei nostri attori di primo piano. Sapranno prendersi in giro? Accetteranno parti dove dovranno apparire fragili, corrotti, senili, ridicoli? Qualche dubbio è lecito averlo.
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