Se essere popstar donne come quelle inglesi o americane in Italia oggi è complicato, tra la fine degli anni Novanta e i primi del Duemila si è rivelato quasi impossibile. La reunion di Paola e Chiara nel 2023 per noi fan della prima ora, per noi giovani queer che le avevamo viste madrine al primo Pride nel 2001, ha rappresentato un risarcimento atteso e bellissimo
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Dal primo istante in cui le ho viste è successo qualcosa.
Era il 1997 e il mio cuore di preadolescente queer prese letteralmente fuoco davanti alla tv, mentre quelle due sorelle ventenni, vestite uguali – pantaloni di pelle, entrambe camicia rosa, poi camicia azzurra –, con una specie di ipnotico accanimento e due voci all’unisono, si urlavano addosso, tra cornamuse e chitarre folk, il racconto di una storia d’amore finita in un cumulo di scuse ridicole e ritrattazioni. Erano le mie teen idol, ma erano anomale: il loro aspetto poteva ingannare, credo abbia ingannato molti distratti. Eppure, da qualche parte, il dodicenne che ero deve aver capito.
Un posto nel mondo
Bamboline, eppure, sentivo, agguerrite. Spaesate ma ostinatissime: in loro esplodeva tutta la furia delle nostre camerette. La voglia di conquistare il proprio posto nel mondo, quando ancora, del mondo, non capisci quasi nulla. Occhi piromani, minute eppure insieme, tenendosi la mano, arrampicate sugli sgabelli, una di fronte all’altra, ciclopiche: per me fu una specie di rispecchiamento sotterraneo, un rito di affiliazione, l’inizio di un sodalizio amoroso.
Ero stato un bambino appassionato di figure femminili forti, non conformi: le streghe, le eroine della mitologia, Giovanna d’Arco. Credo sia per questo che le sorelle Iezzi mi colpirono all’istante, con una scarica elettrica che sento ancora oggi: sotto completi identici da gemelle in età scolare ho riconosciuto, ancora prima di saperlo dire a parole, qualcosa di valoroso, di epico. Irrefrenabile, e profondamente mio. Era il palco di Sanremo, e la canzone, com’è noto, Amici come prima. Da lì la mia adolescenza è trascorsa anche al ritmo degli album di Paola e Chiara: ho iniziato lasciandomi contagiare dal loro amore per l’Irlanda – mi feci portare a Dublino da mio padre, che mi prosciugò il libretto dei risparmi per trascorrere 24 ore nella terra dei celti, e progettai di tatuarmi anch’io il trifoglio sulla pancia – e ho seguito con trepidazione quella che venne definita “svolta sexy”, ovvero l’esplosione internazionale di Vamos a bailar, brano che tuttora mi esalta e commuove.
Il primo Pride
E poi Festival e Viva el amor!, inno del primo Pride milanese del 2001, nonché primo nazionale. Proprio quell’anno Paola e Chiara furono madrine alla parata LGBTQIA+ della mia (nostra) città: c’ero anch’io e ricordo quasi tutto di quell’iniziazione alla conquista collettiva dello spazio pubblico, di quella enorme “prima volta” condivisa di noi ragazzi e ragazze abituati alla vergogna e al silenzio. Si chiamava ancora Gay Pride, eravamo in pochi rispetto alle manifestazioni oceaniche e super inclusive di oggi, ma ero fiero che proprio loro, le mie preferite, avessero scelto di essere al fianco della comunità, quando ancora non era affatto scontato né strategico farlo.
Progetto tridimensionale
Da piccolo spesso i miei gusti non venivano capiti dalle persone che avevo attorno: anche con loro è andata così. Sin da subito ho notato anche la differenza tra la mia percezione di fan e certe reazioni diffuse nel mainstream mediatico. Era come se Paola e Chiara riunissero, in un solo progetto artistico, due elementi con cui il nostro Paese ha sempre fatto fatica: erano due ragazze giovani e belle, e manifestavano una vocazione squisitamente pop, nel senso più internazionale del termine. Credevano nella musica come progetto tridimensionale: suono, immagine, corpo, parola. Un territorio in cui far confluire linguaggi, istinti, tendenze. Una pratica di invenzione e libertà.
Se essere popstar donne, come quelle inglesi o americane, qui è complicato, allora, tra la fine degli anni Novanta e primi del Duemila, si rivelò quasi impossibile. Ovviamente ci sono stati i tormentoni e le hit, la fase aurea della loro carriera, ma quando le cose hanno iniziato ad andare un po’ meno bene, le due, di fatto, sono state lasciate sole. L’ambiente musicale ha smesso di investire su di loro troppo presto, prendendo quello che c’era da prendere dal loro talento finché la magia si replicava in automatico, ma senza costruire attorno al duo (come si è fatto in tanti altri casi) una rete di collaborazioni e professionisti in grado di supportarle, in un contesto culturale moralista, misogino e avvinghiato alle tradizioni come il nostro.
Anni hardcore
È iniziata a quel punto la fase dell’autonomia: i tanti anni in cui Paola e Chiara, fondando una loro etichetta, hanno preso a prodursi e organizzarsi da sole. In una diretta Instagram, un paio di anni fa, Paola ha raccontato le pene di quegli anni: «Non essere capite, essere rifiutate da tutte le radio sempre. Abbiamo fatto dieci anni da indipendenti che sono stati abbastanza hardcore, ogni singolo che portavamo in radio ci veniva letteralmente tirato in testa. Una volta portavamo un lento e non andava bene perché era lento, una volta uno veloce perché era veloce, e ci dicevano: “Non è quello che vogliamo in questo momento, dovete essere più così, anzi no, più colà”. Uno tiene duro ma poi molla: nel pop, o riesci a creare un minimo di riscontro da parte del mercato e del pubblico, oppure muori». La rottura – professionale e per un periodo anche personale –, che ha solleticato a lungo curiosità e pettegolezzi, ha origine in buona parte da qui, dal muro inscalfibile che a un certo punto si è parato davanti a loro. Ingiustamente, vorrei aggiungere, perché Paola e Chiara sono sempre state due cantautrici con una visione precisa e un intuito creativo intenso e poliedrico, capaci di creare inni dance insieme epici e liberatori, con uno stile sempre diverso eppure riconoscibile, pezzi che hanno preso dimora nella vite di tanti di noi, diventando sigilli di interi periodi, intimi e collettivi. I frutti di quelle intuizioni, comprese solo in parte all’epoca, oggi vivono in tutto quello che abbiamo visto e continuiamo a vedere sui palchi, sugli schermi, nelle grandi manifestazioni musicali.
Furore
La reunion arrivata nel 2023, per noi fan della prima ora come per i giovanissimi che le hanno scoperte di recente, rappresenta un risarcimento atteso e bellissimo. Mi commuove vedere l’affetto che c’è attorno a loro oggi: Paola e Chiara sono state due pioniere, due sopravvissute, avevano un sogno e l’hanno difeso finché hanno potuto, in un mondo spesso ottuso, feroce, che guardava al dito, mentre loro puntavano alla luna, alle stelle, alle galassie tutte.
Ci hanno provato, a lungo, poi non ce l’hanno fatta più: per un po’ sembrava che la loro storia fosse arrivata alla fine, che il sistema, con la sua grettezza, avesse avuto la meglio su quelle due piccole, ostinate ragazze di corso Sempione, ossessionate dalla musica e dal suo potere di creare mondi, donare strati d’anima in più, curare le ferite che tutti ci portiamo dietro. Ma i fatti hanno dimostrato che, proprio come il sottoscritto, la gente le ha amate anche clandestinamente, anche in segreto, a distanza. Nessuno le ha dimenticate: grazie al potere dei social, e all’intuito e alla passione del management con cui lavorano oggi, tutto è sembrato ricominciare esattamente da dove si era interrotto, e anzi con più forza di prima.
Mentre con Furore, all’Ariston, si riprendevano tutto, in un post sui social si leggeva: «Nove mesi fa in un piccolo bar milanese abbiamo siglato un sogno che presto è diventato un obiettivo: Paola&Chiara insieme a Sanremo. Sembrava un’utopia, in pochi ci credevano. (...) Poi è successo Max Pezzali, lo stadio, Jovanotti e le spiagge, l’affetto del pubblico, i social e la voglia di spaccare il mondo. È arrivata Furore. Poi la Sony e il miraggio reale di Sanremo. La voce di Amadeus che annuncia Paola&Chiara al TG1. Poi il palco, stanotte, unico, sacro, che ha materializzato per magia un sogno, un progetto ma soprattutto un’idea. Una di quelle che non muoiono mai, come il pop, vero, potente, totalizzante, liberatorio. Qui, oggi: Paola&Chiara per sempre».
Quello che è successo, da quel ritorno adrenalinico in poi, è sotto gli occhi di tutti: le persone adesso si stringono attorno a loro con euforia e tenerezza, finalmente senza remore, con una voglia di ballare che tiene dentro in realtà tanto altro. È struggente sentirle dire, nelle interviste: «Non ci siamo mai sentite amate come ora». E non è un caso, credo, che la loro reunion sia avvenuta adesso che il nostro mondo inizia a cambiare, ora che anche lo show business italiano, e il costume, si è almeno in parte aperto a una presenza femminile più libera, autonoma, padrona del proprio corpo e dei propri desideri. Ora che essere donne e pop non è (quasi) più una colpa da espiare a suon di battute e ridicolizzazioni, censure e impliciti boicottaggi. Ora che le icone queer sono amate anche dagli alleati della comunità. E la sinergia tra musica e impegno per le differenze, il rispetto dell’amore in tutte le sue forme, è qualcosa di ricorrente e fecondo.
Dolore e rinascita
Paola e Chiara sono una luce che, contro ogni aspettativa, si è riaccesa, e che oggi racconta una storia di dolore e rinascita, vocazione e alleanza. La storia di due artiste che, come si capisce bene dalle pagine di questo libro, da subito si sono mosse fuori delle piste prestabilite, con un miscuglio di fede nell’arte e voglia di rimettersi in gioco ogni volta. E che, non a caso, oggi si trovano così saldamente al fianco di tutti noi che ancora ci troviamo a dover faticare per potere abitare il mondo così come siamo, tutti interi, con le nostre presunte “anomalie”, la nostra identità bandita, i nostri amori che ancora qualcuno prova a definire sbagliati. «Tutti quanti abbiamo un fuoco dentro, il compito di tutti i nostri sogni è quello di non farlo spegnere mai» cantavano in Non puoi dire di no, brano contenuto nel loro secondo album, Giornata storica. E mi emoziona pensare a tutti questi anni, alla loro e alla nostra storia.
1997-2024: in mezzo molte conquiste e tempeste, molta resistenza. Molte energie spese per proteggere quel fuoco, e quei sogni. Eppure siamo ancora qua, sotto il cielo o nei club, pronti a cantare una nuova canzone, a sollevare le braccia e ballare, trovando nelle invocazioni con la cassa dritta di queste ragazze fragili e inarrestabili un rimedio in grado di sublimare, anche solo per tre minuti, la fatica di percorsi tortuosi e strade interrotte. Paola e Chiara mi hanno aiutato a diventare me stesso, a credere nelle cose che magari a qualcuno – o a molti – sembrano marginali, inferiori, compromettenti, sbagliate. Ma se sono le nostre cose, se quello è il nostro sogno, allora possiamo farlo. Non importa quante volte abbiamo barcollato, quanti momenti difficili abbiamo dovuto attraversare: i copioni possono essere riscritti e i pronostici smentiti. Una, dieci, tutte le volte che occorre. Fino a che, dal buio della solitudine, spunteranno non più fantasmi, ma sorrisi, occhi benevoli, facce amiche, a sovvertire i cattivi presagi. E tutto, attorno a noi, a un certo punto – come se avesse visto e capito ogni cosa –, ricomincerà di nuovo a brillare.
Da Paola & Chiara, Sisters. La nostra storia incredibile, Rizzoli (2024).
© Riproduzione riservata