Il più colorato movimento artistico del secolo scorso ha le sue origini con l’Independent Group in Regno Unito. A fondarlo è stato un eclettico artista scozzese nato cento anni fa, a cui Edimburgo ha dedicato una mostra
Questa è una storia di nebbie, di smog e di arte popolare. Il fumo e la bruma hanno infatti segnato la nascita, negli anni Cinquanta, del più importante e colorato movimento artistico della seconda metà del secolo scorso: la pop art.
Origini londinesi
Probabilmente i londinesi più âgé ricorderanno un inverno, quello del 1952, quando il Grande Smog aveva avvolto e avvelenato la città con una miscela letale di nebbia e inquinamento e all’Istituto di arti contemporanee era sorta la limpida alba dell’Independent Group, un collettivo di giovani artisti, architetti e critici che di lì a poco avrebbe sovvertito forme e contenuti dell’arte moderna.
Certamente rammenteranno che il primo evento, accaduto al principio di dicembre, aveva provocato diverse migliaia di morti in appena quattro giorni, e che ciò aveva spinto il parlamento ad approvare una legge che avrebbe segnato un punto di svolta nella storia dell’ambientalismo; e non avranno dimenticato, si suppone, i londinesi più attenti alle bizzarre trasformazioni del mondo, che il secondo aveva posto le fondamenta per la creazione di quella popular art che qualche anno più tardi avrebbe trovato negli Stati Uniti la sua massima espressione.
In realtà il “Gruppo Indipendente” non aveva goduto di vita lunga, solo quattro anni, dal 1952 al 1956, ma sufficienti per dare il via a una vera e propria rivoluzione fatta di studi, prese di posizione contro l’elitarismo accademico (a cui aveva democraticamente opposto la cultura popolare) e continui confronti su temi che i suoi membri avevano percepito come improrogabili in un’Inghilterra di nuovo in mano alle forze conservatrici e segnata dalle fratture inferte dalla guerra. Era un paese che, smarrito il proprio spirito creativo, viveva diviso tra lo sgomento per ciò che aveva subito e l’ottimismo per quanto sarebbe arrivato. Il loro interesse era concentrato in particolare su problemi legati al rapporto uomo-macchina, agli sviluppi della scienza, ai mass media e al consumismo che accompagnava la nascente produzione standardizzata di oggetti, desideri e immaginari.
L’artista precursore
A fondare il gruppo era stato un artista scozzese di origini italiane: Eduardo Paolozzi, personaggio eclettico, lontano dalle mode e affine all’oggettualità, convinto che ogni cosa dovesse e potesse essere riutilizzata e che ogni immagine od oggetto quotidiano fosse in grado di diventare un’opera d’arte “alta”.
Nato il 7 marzo di cento anni fa a Edimburgo da genitori immigrati dal Cassinate, alla sua figura umana e artistica le National Galleries of Scotland dedicano fino al 21 aprile la mostra Paolozzi 100 che ne racconta e celebra, attraverso l’esposizione di una sessantina di opere originali, la natura multiforme e la sorprendente capacità di prevedere le ansie e le preoccupazioni che attanagliavano l’uomo moderno dinnanzi all’inarrestabile avanzata della tecnologia.
Artista “ampio” e curiosissimo scomparso nel 2005 a 81 anni, insignito delle più importanti onorificenze britanniche (compreso il cavalierato ricevuto dalla regina Elisabetta), nel corso della lunga carriera ha sperimentato tecniche e discipline differenti – collage, stampa, tessile, scultura, grafica, ceramiche, disegno, incisione, cinema, fotografia – sposando i principi del Surrealismo con quelli dell’arte popolare.
È stato docente universitario, ha collaborato con griffe del lusso come Lanvin e ha realizzato su commissione opere gigantesche e complesse per spazi pubblici di molte città europee, tra cui Edimburgo e Londra. Per la capitale inglese, in particolare, ne ha progettate una decina, la più nota delle quali è forse il grande mosaico nella stazione della metro Tottenham Court Road.
I collage
Tuttavia, sir Eduardo Paolozzi è stato anche (e specialmente) il vero anticipatore della pop art: un posto fondamentale nella storia dell’arte moderna lo occupano infatti i 45 collage che compongono la serie Bunk, realizzata tra il 1947 e il 1952 in parte a Parigi e in parte a Londra. Composta di immagini e parole ritagliate dalle riviste americane fornite dai militari di stanza in Francia e in Gran Bretagna, al suo interno figura anche I Was A Rich Man’s Plaything, la prima opera in assoluto a contenere il termine “pop”. Quei ritagli, quelle pagine colorate strappate dalle riviste popolari, dai fumetti, dai libri di fantascienza e incollate tra loro per creare nuove configurazioni e nuovi messaggi rappresentavano non solo i primi vagiti di un movimento “sovversivo”, ma anche un cambio di paradigma culturale: il consumismo americano stava mutando per sempre la “Britannia” postbellica.
La mostra
Questa radicalità richiedeva un nuovo stato mentale, come avevano compreso anche gli altri membri dell’Independent Group, da Richard Hamilton a Victor Pasmore fino a Nigel Handerson e ai coniugi Smithson, i quali, nel 1956, avevano allestito con Paolozzi e altri una delle esposizioni d’arte più incredibili, innovative e spettacolari che il paese avesse mai visto: “This is Tomorrow”.
Il giorno della sua inaugurazione alla Whitechapel Art Gallery, la nebbia era ancora bassa a Londra. Sebbene fosse il 9 agosto, una pioggerellina fitta bagnava la città mentre una coltre di fumo, densa come un gomitolo di lana, rendeva l’aria pesante.
Sarebbe stata forse una giornata come le altre, opaca come tutte quelle che scandivano l’estate di quell’anno se non fosse stato per questo evento in cui 38 partecipanti tra pittori, scultori, architetti, designers, critici avevano realizzato una sorta di vivido “compendio” di quelle sperimentazioni che conducevano fin dall’inverno del Grande Smog tra l’Istituto di Arti Contemporanee di Londra e l’università di Newcastle, dove sia Hamilton che Pasmore insegnavano.
Era una mostra «strana, eccitante, provocatoria, esasperante: anche troppo per alcune persone da mandare giù. Ma a tutti offre qualcosa su cui riflettere», aveva sentenziato la British Pathè in un servizio del suo cinegiornale. Poco usuali, difatti, erano i concetti “messi in scena” per un intero mese: cultura del consumo, critica sociale, sconvolgimento dei tradizionali principi estetici dell’arte, fascinazione per l’immaginario visivo a tinte choc delle pubblicità e dei film americani. Erano, insomma, quegli stessi concetti di cui l’Independent Group si era sempre nutrito. Gli artisti e le artiste, suddivisi in dodici gruppi di lavoro, avevano allestito 12 “rooms” che costituivano una sorta di opera magna collaborativa e immersiva in cui, attraverso invenzioni artistiche e architettoniche, l’uso di nuovi materiali come la plastica e le fibre sintetiche e l’interrelazione tra le discipline, volevano rappresentare un’idea di vivere moderno e suggerire un’ipotesi di futuro dopo le tenebre della guerra e la stagione dei razionamenti.
Era un domani possibile (e non sempre ottimistico) che trovava nella tecnologia, nel potere dei mezzi di comunicazione, nella produzione di massa e, più in generale, nella cultura statunitense, la sua più definita identità.
Forse non per un caso, a sedurre e a spiazzare maggiormente critica e pubblico era stata la room progettata anche da Hamilton. Convinto che il “pop” dovesse essere «popolare, transitorio, consumabile, a basso costo, prodotto in serie, rivolto ai giovani, spiritoso, sexy, pieno di artifici, glamorous» e, in ultima analisi, «un grande affare», l’artista londinese aveva collocato nella sala, seguendo un preciso ordine funzionale, una serie di oggetti, tra cui il robot Robby, Marilyn Monroe, alcuni manifesti pubblicitari, un juke box, una grande bottiglia di Guinness che troneggiavano su un pavimento di schiuma profumata alla fragola.
La nuova geografia artistica
Per il catalogo della mostra, inoltre, aveva realizzato una locandina-collage super pop che illustrava e riassumeva i pensieri contenuti nella room, a partire da una vigorosa critica all’emergente civiltà dei consumi. Costituita da una serie di immagini prese dai magazine americani e caratterizzata da un titolo lunghissimo mutuato dallo slogan di una pubblicità – Just What is It That Makes Today’s Homes So Different, so Appealing? (Cos’è che rende le case di oggi così diverse, così accattivanti?) – questo collage è stata la prima opera pop a diventare un’icona globale. In quell’estate caliginosa e persino opprimente, This is Tomorrow aveva definitivamente tracciato i confini di un territorio nuovo nella geografia artistica e culturale del Novecento; aveva dato alla luce un’epoca, la “Pop Age”, o “Seconda Età della Macchina”, e un movimento, fatto di colori accesi, collage, serigrafie, che sarebbe esploso nei primi anni Sessanta sotto i cieli assolati degli Stati Uniti con le sfavillanti estetiche del consumo e le denunce delle vulnerabilità della società capitalistica (apparentemente ricca e felice) di Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg e molti altri.
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