I napoletani più che essere, si mostrano tali: nell’invettiva come nella recita, nella ricerca come nell’esplicitazione. Da tutto questo, ecco la favola di Parthenope, nella quale convergono tutte le diverse Napoli del regista premio Oscar, gli scrittori che l’hanno raccontata o l’hanno influenzata. Guida antropologico-letteraria (con spoiler).
Parthenope ragazza-mito: nome da sirena e cognome del principe di Sansevero – suo fratello poi, si chiama proprio come il principe, Raimondo di Sangro – tiene tutto, perché a Napoli c’è posto per tutto: bellezza, sconcezze, vita, morte, magia, dolori e tempo, miracoli riusciti e mancati. La felicità, invece, è un fatto complicato come l’amore. Paolo Sorrentino parla di sé per interposta Napoli e quindi Parthenope, e ci dice che la vita è tentativo, che dal non sapere proviene la libertà e, soprattutto, ricalcando, riscrivendo, evocando Raffaele La Capria fa capire a tutti che essere napoletani non solo non è una evidenza, ma significa non aver concluso la propria sorte.
Perché vanno tutti a Capri
I napoletani più che essere, si dimostrano napoletani, nell’invettiva come nella recita, nella ricerca come nell’esplicitazione, e da tutto questo ecco la favola antropologica di Parthenope, dove convergono tutte le Napoli di Sorrentino e forse ne verranno anche altre, perché per il regista sembra che la vita sia un eterno andare a Capri: per salvarsi, perdersi, fare un bagno o uccidersi.
Capri è la sua meta fin dal primo film – napoletano – che veniva mancata dai due Pisapia. Aleggerà nelle elucubrazioni romanzesche di Tony Pagoda, appendice letteraria del cinema di Sorrentino in due libri. Poi ci andrà Fabietto Schisa col contrabbandiere, in È stata la mano di dio, trovandola vuota, un paradiso disabitato. Infine ci va Parthenope con il fratello e il primo amore Sandrino: a lasciarsi andare.
La linea del cinema di Sorrentino, la sua prospettiva e la sua ferita cinematografica: vanno da Posillipo a Capri. A Posillipo nel 1984 fa il bagno Cheyenne – Sean Penn – di This Must Be the Place compiendo un gesto che John Cheever – scrittore del dualismo – aveva raccontato nel 1967 in apertura della sua intervista a Sophia Loren per il Saturday Evening Post: «Naples is a city where you can, on a principal street, change into your bathing trunks and dive into the sea».
Cheever, interpretato da uno sfatto Gary Oldman, è uno dei cardini del film, Parthenope, che un giro all’Oscar lo meritava, anche se la pellicola ha una poetica più da Updike: «Uno non si chiede, mentre pattina su un laghetto ghiacciato, come faccia il cielo nero a sostenere il suo carico di stelle», scrive Cheever scorticando il suo scrittore rivale.
La Capria, Malaparte e dintorni
Ma tutte le Napoli di Sorrentino che convergono in Parthenope sono piene di scrittori che hanno raccontato la città o l’hanno influenzata. Su tutti c’è La Capria. Ora c’è chi sta con La Capria e chi no, tra quelli che stanno con La Capria ci sono tanti che non l’hanno capito ma lo amano, e tra quelli che stanno contro ci sono tantissimi che l’hanno capito e per questo lo rifiutano, e poi c’è Sorrentino che è una reincarnazione di La Capria, che non si accontenta di scrivere, ma filma pure.
E se Parthenope ha dentro di sé Giambattista Basile, dalla carrozza che diventerà la camera da letto della ragazza-mito, interpretata da Celeste Dalla Porta, fino al soffio del fratello Raimondo che evoca Soffiarello da Lo cunto de li cunti: «soffiò dapprima dolcemente dolcemente, sembrava il vento che soffia a Posillipo verso sera e, voltatosi all'improvviso verso alcuni alberi, soffiò un tale vento furioso che sradicò tutto un filare di querce» e tra quelle querce c’è Parthenope; e se «la grande fusione» è una riscrittura da La pelle di Curzio Malaparte; e se il Colera incarnato da un mostro-autobotte ricorda la peste di Eschilo, come l’amore incestuoso tra fratelli e la Flora Malva interpretata da una mascherata Isabella Ferrari è la Medusa; e se il professor Marotta, Silvio Orlando, è un Benedetto Croce che ha le risposte solo a qualcuna delle domande che la città gli pone di continuo chiedendo a sua volta agli sprovveduti studenti: «Cosa sa lei che io non so?»; e se a Capri c’è un giovane Gianni Agnelli – il grande romanzo italiano mancato – che discende dall’elicottero conquistando Jacqueline Kennedy ma non Parthenope; e se Criscuolo è un guappo tra Viviani e Luigi Giuliano che attraversa una Napoli da Anna Maria Ortese; e se Greta Cool è una Filumena Marturano «degli amori poveri» che parla dei napoletani come ne parlarono Alberto Arbasino e Giorgio Bocca e oggi ne parla Vittorio Feltri, cogliendo sicuramente degli aspetti che gli abitanti de «la città più bella del mondo» tendono a nascondersi; e se il cardinal Tesorone interpretato da un Peppe Lanzetta che ha finalmente quello che doveva avere dai tempi di Salvatore Piscicelli: uno schermo largo dove agire e dei primi piani leoneschi, sembra saltato fuori dalle pagine di Giuseppe Patroni Griffi che tira per la tonaca Goethe; e se trova spazio anche la Napoli di Angelo Manna e dell’inferno napoletano; e se tutti questi personaggi letterari prima che cinematografici convergono in Parthenope per farne un film-summa su una ragazza-mito che poi è l’anima della città, rimangono eppure solo una sottotraccia, un lunapark sorrentiniano rispetto alla vera linea narrativa che è assolutamente lacapriana.
La poetica di Dudù
Tutto il film è rapportabile alla poetica di Dudù La Capria: La Bella Giornata, L’Armonia Perduta, La Grande Occasione Mancata. Tre parti che dicono della vita di Parthenope. Con tre frasi guida: «a che pensi?», «si è lasciato andare» e «tutto il resto»; e tre cardini: il Comandante – un Achille Lauro, re-agente, poi re disarcionato ma che incarna l’istinto per la vita, non a caso è quello che regala il tatuaggio della forza della ragazza-mito: «Tu sì ‘na furbacchiona» che sembra anche un verso di Totò, una frase che avrebbe potuto dire il principe; il professor Marotta che non la giudica e non vuole essere giudicato; e Tesorone: un demone, che non scioglie il sangue di San Gennaro, ma la scioglie dalla città, lasciandola partire per Trento.
I tre la amano in modo diverso: solo il comandante un po’ per gioco un po’ per attrazione la chiede in sposa; solo Tesorone la farà sua restituendola a sé; e solo Marotta la capirà fino in fondo. Sono tre unicità. Tre modi di intendere la ragazza-mito poi città infine film. Tre padri che suppliscono a un padre e una madre assenti, fantasmi che abitano una casa-museo con macerie. Parthenope è una ferita a morte, che amoreggia la notte di capodanno come Massimo De Luca e Carla, personaggi del romanzo di La Capria, avvolta dai dubbi e dal chiacchiericcio napoletano, per poi andarsene. Lei passa, e guarda, unendo Ernesto De Martino e Billy Wilder, che vanno ad aggiungersi alla bibliografia della sceneggiatura.
Il dolore e il sorriso finale
Parthenope ragazza-mito passa e guarda e viene guardata. Bellezza ammirata, minacciata, sporcata – c’è il tempo per un aborto clandestino che non sempre è consapevole del suo potere e che finisce anche per subire. Sorrentino ci dice che la bellezza di Napoli viene sconsacrata ogni giorno, e Parthenope la risacralizza, attraverso un nuovo patto con le cose: quello con i suoi tre grandi corteggiatori, tre anime di Napoli. Anche tre grandi mali. Il comandante è l’ingordigia generosa. Marotta la Napoli cartesiana che accetta tutto in nome della ragione. E quella di Tesorone lo spiritualismo ricondotto alla carnalità. È una sorte inconclusa la sua, che non genera figli, non trova un amore, ma resta bellissima e distante a sorridere con il viso di Stefania Sandrelli che rifà Robert De Niro nel finale di C’era una volta in America guardando un miracolo che si compie e festeggia proprio col suo ritorno lo scudetto, come il non compiersi del miracolo coincideva col suo partire.
Parthenope ragazza-mito sa che il dolore non è la destinazione finale come diceva un’altra ragazza che pure aveva «gli occhi spenti», la Mary di This Must Be the Place, e che non basta l’amore per provare a sopravvivere e che la misura dei fallimenti dipende dagli stati d’animo e dal tempo che passa. Parthenope è la linea del conflitto sorrentiniana, dove convergono le sue Napoli – a prevalenza lacapriana – e dove Sorrentino si scinde e lotta. Mentre non è a Napoli prova a fare altro da sé ricordando, evocando Napoli. E quando torna a Napoli – in tre film – prova a risolvere il conflitto con il suo dolore che sta radicatissimo nel triangolo: Vomero, dove viveva; Posillipo, dove voleva vivere; e Capri, dove immagina che tutto si crei o si risolva.
© Riproduzione riservata