Un’inchiesta corposa e piena di gusto. Particolare ed esemplare. Patrick Winn la racconta con il sorriso soddisfatto di chi ha realizzato con anni di lavoro da giornalista un racconto di oppio e metanfetamina, di foreste dove piovono fucili che si possono usare contro i comunisti, di uomini super e di altri così diversi.

Questa è una storia di montagna e dedicata alla gente che ci vive, perché Patrick è nato in North Carolina in una piccola città industriale – Eden – dove le famiglie venivano dagli Appalachi e «alla gente di montagna piace fare le cose a modo proprio. Ostinati, scettici verso l’autoritarismo, affatto ignoranti». Winn, con Roberto Saviano, ha presentato in Italia Narcotopia (Adelphi) a Più libri più liberi.

La sua inchiesta si svolge in Birmania e rivela la storia degli Wa, tribù di ex cacciatori di teste che gestisce il più potente narco-stato del mondo. Un cartello asiatico della droga che ha sconfitto la Cia. Perché suona così inedita?

Credo sia principalmente per la distanza che esiste molto grande tra Occidente e Oriente. Io vivo a Bangkok da 16 anni e mi rendo conto che quanto è difficile che gli occidentali capiscano, perché così diverso, insensato per la loro cultura, non esce dal mondo asiatico. Che preferisce vivere la propria vita in pace.

Un personaggio pieno di fascino apre il suo libro: un tempo lo chiamavano Superstar e c’era chi nella Dea lo definiva «un informatore idealista». Come ha fatto a trovarlo?

A quest’uomo, Saw Lu, sono stato dietro più di dieci anni. Volevo avere accesso al gruppo, all’organizzazione di narcotrafficanti più potenti al mondo, e ci ho lavorato a lungo. Finché l’incontro con lui è avvenuto in maniera quasi casuale, perché avevo conosciuto il genero. Mi sono stupito molto che fosse interessato a parlare con me, soprattutto è stato scioccante che mi abbia permesso di entrare in casa sua perché sono americano e il mio paese ha cercato di smantellare la sua organizzazione. Ma era disposto a raccontarmi perché credeva che l’America potesse diventare da nemica ad amica per il suo popolo, per questo si è fidato.

Lui le ha raccontato molto, lei ha fatto verifiche e da come scrivi emerge che lungo la strada si è dovuto confrontare anche con il senso della parola moralità. Sbaglio?

È vero: la guerra ai cartelli della droga dura da più di 50 anni e viene presentata come una guerra del bene contro il male. E però io non sono tipo da bianco o nero, vedo il mondo in grigio, e mia nonna Margie che oggi ha 99 anni mi ha cresciuto insegnandomi che non bisogna avere odio, discriminare, e anzi credere che se qualcuno non ti fa del male bisogna lasciarlo in pace. Non sono così sicuro che ci possa essere una nazione che abbia ogni tipo di diritto.

Ci sono di mezzo la Cia e la Dea, che in Narcotopia descrive come due tribù di burocrati «che si azzuffano tra loro non per collezionare teschi ma per accaparrarsi prestigio e potere». Al servizio dello stesso governo, ma diversi.

Sì, perché i dipendenti della Cia e della Dea provengono di solito da contesti sociali e familiari differenti, e negli anni Settanta e Ottanta, quando questa storia ha avuto luogo, questa diversità era ancora più pronunciata. Molti agenti della Dea sono ex poliziotti o ex militari, figli o figlie a volte della classe operaia. Gente onesta, che non ha mai neanche fumato erba al liceo. Con una visione manichea: noi siamo i buoni, gli spacciatori feccia. Vogliono salvare vite e la giustizia.

E quelli della Cia?

La loro missione è mantenere la supremazia globale degli Stati Uniti, con ogni mezzo necessario. I funzionari sono spesso reclutati nelle università di prestigio e sono addestrati facendo loro intendere che l’impero è sull’orlo del baratro e che devono salvarlo, con ogni mezzo, anche mentire. Se la Cia ritiene che aiuterebbe l’America fare amicizia con un cartello del narcotraffico, si farà amicizia. È il lavoro delle spie. Con un alito di caffeina e seduti magari dietro alla scrivania di un’ambasciata, gestiscono informatori e intercettano comunicazioni riservate.

Ci sono poi le persone che abitano quelle montagne, che hanno un altro obiettivo di vita.

All’interno di un’economia poco sviluppata, l’interesse di questa popolazione era difendere la propria patria. Produrre droga, un mezzo per raggiungere un fine. L’unica cosa che potessero fare, per ricavare denaro per comprare armi e nutrire i soldati. Creare uno stato.

Anche al prezzo di dare un figlio per ogni famiglia all’esercito?

Sì, ma seppure lo stato sia sostenuto dalla metanfetamina, questo non significa che si trattasse di una popolazione di spacciatori, ma più spesso di semplici contadini, spesso poveri.

E però Saw Lu era di altro parere…

Riteneva produrre droga fosse una cattiva idea, è un uomo che ha cercato di far cessare questa economia che lui riteneva di tenebra, perché di religione battista – cosa piuttosto rara in quelle zone – e convinto di avere uno scopo sacro e speciale, condurre il suo popolo verso una luce.

C’è un altro co-protagonista del racconto e si chiama Wei Xuegang. È l’antagonista?

La nemesi di Superstar, il numero uno, uno dei più grandi trafficanti di droga della storia. Perché il migliore è quello che conosciamo di meno, e sebbene Xuegang fosse noto alla Dea, non ci sono molte informazioni sulla sua vita personale. Sono riuscito a scoprire che oltre che molto intelligente è germofobo, cioè proprio terrorizzato dai germi e dallo sporco. È un uomo senza ideologie, se non quella di voler primeggiare, supervisionare il vasto impero di sostanze stupefacenti. Essere bravo nel gioco, e lo è stato. Dalle informazioni che ho, molto avaro, nonostante sia molto ricco.

Ma sopra le loro teste ci sono le superpotenze.

Per gli Stati Uniti questa vicenda è stata un gigantesco fallimento, perché l’unico modo possibile di agire a un certo punto si chiamava invasione e sarebbe stato come voler scatenare una guerra: non si era disposti a pagare questo prezzo. E poi c’è la Cina che guarda alla tribù degli Wa come a dei fratelli minori, ,nel senso che il rapporto con i trafficanti c’è, anche se è sconvolgente pensarlo. E ho scoperto che un accordo silenzioso con l’Onu garantisce che in Cina non venga inviata droga.

Rispetto agli anni Ottanta, qualcosa è cambiato nel traffico di droga dalla Birmania e dalle regioni circostanti?

Ora l’anfetamina la fa da regina, in Asia è un business che vale dai 30 ai 60 miliardi di dollari l’anno. L’eroina non è più di moda, l’oppio difficile da trovare.

Svolge il lavoro di giornalista da Bangkok, cosa hanno visto i suoi occhi di americano in queste settimane dopo le elezioni?

Oggi gli Usa sono coinvolti in Ucraina, Israele, Taiwan, e potrei continuare… Devono capire che non possono essere ovunque e i limiti del potere americano penso che si riveleranno molto presto al mondo. Molti paesi dell’area in cui vivo stanno cercando di capire cosa possa far loro andare d’accordo con Donald Trump, mantenere buoni rapporti. Questo perché l’unica cosa che non si desidera è che la Cina o gli Stati Uniti diventino troppo potenti, è un tentativo di bilanciamento per essere il più possibile indipendenti.


Narcotopia (Adelphi 2024, pp. 503, euro 30) è un libro di Patrick Winn

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