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Nell’ultimo quarto di secolo il nome di Giorgio Agamben ha indicato non soltanto uno dei filosofi italiani più letti al mondo, non soltanto un punto di riferimento per una certa sinistra libertaria, ma anche una delle esperienze intellettuali più esaltanti della contemporaneità.
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Gli autori che il filosofo ha contribuito a promuovere fanno oggi parte del bagaglio culturale di un’intera generazione, quella stessa generazione che oggi si scopre imbarazzata di fronte alle sue esternazioni sulla pandemia di Covid-19 — secondo lui, niente meno che un’invenzione.
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Le sue dichiarazioni sono la dimostrazione di un declino intellettuale e filosofico iniziato da tempo, in cui tutto viene ridotto a paragoni sproporzionati e a una frattura epocale nella storia dell’occidente.
Nell’ultimo quarto di secolo il nome di Giorgio Agamben ha indicato non soltanto uno dei filosofi italiani più letti al mondo, non soltanto un punto di riferimento per una certa sinistra libertaria, ma anche una delle esperienze intellettuali più esaltanti della contemporaneità. La prosa di Agamben si legge come un feuilleton, con le sue invenzioni, i suoi effetti, i suoi colpi di scena, e naturalmente anche i suoi cliché, i suoi manierismi e le sue scorciatoie (per una disamina severa, si veda il breve saggio che gli ha dedicato l’italianista Claudio Giunta). Gli autori che il filosofo ha contribuito a promuovere fanno oggi parte del bagaglio culturale di un’intera generazione, quella stessa generazione che oggi si scopre imbarazzata di fronte alle sue esternazioni sulla pandemia di Covid-19 — secondo lui, niente meno che un’invenzione.
Si fosse limitato a scrivere che è stata mal gestita o strumentalizzata, magari esagerata, sarebbe stato più vicino al vero, ma di certo non avrebbe fatto tanto scalpore. Nel deserto di altre autorevoli voci critiche, tanto è bastato a fare del filosofo un punto di riferimento per aperturisti e antivaccinisti, in misura eguale e contraria allo scandalo del suo lettorato progressista. La fama del filosofo presso un pubblico più ampio, forse mal udente, è testimoniata dai suggerimenti di ricerca di Google, tra i quali qualche tempo fa primeggiava la chiave “Giorgio Gambe”. Ma sarebbe un errore attribuire le sue posizioni sulla pandemia a una svolta tardiva o a una doppia personalità, dottor Giorgio e mister Gambe.
Al contrario esse sono del tutto coerenti con l’impianto teorico sviluppato nel corso degli anni, all’insegna di una critica radicale della modernità nella sua triplice veste statuale, capitalistica e scientifica. Il lettorato progressista, per stupirsene con tanto ritardo, deve essere anche molto disattento.
Scintille di nazismo
In un post di pochi giorni fa, Agamben ha paragonato il pass vaccinale alla stella gialla portata dagli ebrei durante il nazismo. Immagine tristemente scontata che nel frattempo era già stata messa in scena in varie manifestazioni di piazza in tutta Europa. Non era la prima volta che il filosofo ricorreva a un paragone storico del tutto sproporzionato e vagamente osceno, avendo già sostenuto un anno fa che i professori che si prestano alla didattica a distanza sono della stessa pasta di quelli che si erano piegati al fascismo. Eppure questo genere di paragoni non sono una novità per Agamben, che ricorre spesso e volentieri alla “reductio ad Hitlerum” — anzi questa è la sua vera cifra poetica, la sua firma, la carta che già più volte ha tirato fuori per descrivere la contemporaneità. Lettore attento di Hannah Arendt, il filosofo sembra impegnato da vent’anni in una radicalizzazione della sua teoria del totalitarismo al fine d’includervi dentro l’intera modernità. Con esiti ultimamente sempre più paradossali, che mostrano i limiti di questo approccio antistorico, che riesce nella duplice impresa di confondere il presente e falsificare il passato.
Se la figura del campo di concentramento era già centrale in un suo saggio del 1998, è con la sua celebrata analisi dello “Stato di eccezione” come paradigma utile a capire gli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 che Agamben realizza la sua più apprezzata reductio. Ma scintille di nazismo Agamben le vede in ogni forma di uso e abuso del principio di necessità, le trova persino nella Repubblica di Weimar affermando che «la Germania aveva già smesso d’essere una democrazia parlamentare ancor prima del 1933» — così diluendo il nazismo in una lunga notte in cui tutti sono bruni, sia prima che dopo, in quanto la “vera democrazia” non esiste. Ma l’esercizio è periglioso, perché considerare Auschwitz come espressione di una catastrofe più generale chiamata modernità avvicina Agamben alla lettura revisionista che del nazismo avevano dato i suoi stessi attori, a partire da Carl Schmitt e Martin Heidegger.
Fascisti non fascisti
In effetti a rendere ancora più stridente questa reductio universale c’è un fatto ulteriore: per Agamben sono tutti fascisti… tranne i fascisti. Sulla temporanea adesione al nazionalsocialismo di Heidegger esiste una letteratura sterminata, che divide gli storici e apre infinite questioni: tuttavia la scoperta recente dei suoi quaderni inediti, detti Quaderni neri, dovrebbe ormai lasciare pochi dubbi sul suo antisemitismo. Stupisce quindi che Agamben, tanto attento alle tracce di fascismo nella didattica a distanza, abbia potuto dichiarare che quei quaderni non hanno nulla di scandaloso in quanto Heidegger «vede nel giudaismo l’elemento dello sradicamento della cultura» (registrazione del 5 aprile 2019 presso l’Istituto italiano di cultura di Parigi). Ulteriori espressioni di questa medesima forza che sradica i popoli, precisava in quell’occasione Agamben parafrasando il filosofo tedesco, erano l’americanismo e il socialismo sovietico.
Ma questo è appunto un classico argomento revisionista, che non assolve Heidegger ma semmai segnala che non si trattava di un sanguinario razzista biologico bensì di un esponente di un “antisemitismo spirituale” alla Julius Evola. Nulla di cui andare granché fieri, ad ogni modo.
Discorso simile vale per Ezra Pound, il grande poeta americano che abbracciò con fervore il fascismo proprio in virtù delle proprie idee politiche, culturali ed economiche: cioè non per caso, non per distrazione, non per opportunismo.
Il posto di Pound nella storia della letteratura del Novecento è fuori discussione e possiamo essere grati a Giorgio Agamben di aver curato nel 2016, per Neri Pozza, la pubblicazione di un’antologia di suoi scritti — per quanto controversi (alle teorie di Pound si ispira, come noto, una delle più vivaci realtà dell’estrema destra italiana). Tuttavia appare un poco stridente, sulla quarta di copertina del libro, affermare che «nessuno come lui ha attraversato con assoluta lucidità» l’Europa del suo tempo. Agamben, serio: davvero non possiamo trovare nessuno di più lucido di un poeta folgorato da Mussolini?
La prefazione agambeniana dell’antologia è vaga e allusiva, piena di sottintesi, come a suggerire che preoccuparsi dell’ideologia politica di Pound (e delle sue “illusioni sui popoli latini e sul fascismo”) sarebbe una volgarità non degna di un intellettuale che, come il poeta e come Heidegger dopo di lui, è capace di misurare la “catastrofe della cultura occidentale”.
Ma qual è di preciso questa catastrofe di fronte alla quale persino il fascismo viene derubricato a dettaglio? Questo è concesso saperlo soltanto agli iniziati. Qualche indizio: si tratta di «una frattura senza precedenti nella tradizione dell’occidente» in quanto «il nesso tra passato e presente si era spezzato».
Come, quando, perché? La prefazione ci lascerà nell’ignoranza, anche se la lettura dei recenti interventi sul Covid-19 ci fa capire che il nuovo mondo che si prepara non è altro che la realizzazione di quell’antica catastrofe. Possiamo supporre che Agamben evochi dei temi nicciani della rivoluzione conservatrice d’inizio Novecento, e con ciò rinvii alla catastrofe costituita dalla rivoluzione francese o dal trionfo della ragione calcolante; ma al filosofo forse conviene starsene sul vago per non scandalizzare la sua fan-base di sinistra.
Forte del suo bottino di capitale reputazionale, in quelle pagine Agamben poteva ancora permettersi il lusso di appoggiare la denuncia contro “avarizia”, “usura” e “denarolatria” di un antisemita notorio poiché, citando il poeta, «gli artisti sono le antenne della razza».
Termini tutto fuorché neutri, visto il contesto; non a caso questa stessa identica citazione, sulla quarta di copertina degli Scritti di Pound, diventerà un più inoffensivo «antenne della specie». Non sia mai che a qualcuno venga il sospetto che per Agamben la più alta forma di lucidità intellettuale negli anni Trenta fosse il fascismo, ovvero l’ideologia variamente espressa dai suoi amati Pound, Heidegger e Schmitt; anche perché il vero fascismo, ormai lo sappiamo, sono la didattica a distanza e il pass vaccinale, estreme conseguenze di quella catastrofe dalla quale gli intellettuali fascisti, che però non sono davvero fascisti, volevano metterci in guardia. Lo avevamo detto che l’arte di Giorgio Agamben sta tutta nei colpi di scena.
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