- Il centenario della nascita del Pci rischia di essere un’occasione sprecata se prevalgono le consuete polemiche sulle scelte del passato e le tendenze fratricide consolidate nella storia della sinistra italiana.
- È necessario riflettere sul ruolo svolto dai grandi partiti popolari e di massa (Pci compreso) nella costruzione della democrazia e sulle indicazioni che si possono trarre da tali esperienze.
- Pur con tutti i suoi limiti, il Pci ha contribuito alla costruzione della democrazia italiana, per molti anni l’unico sistema democratico dell’Europa meridionale, e ha costituito parte della classe dirigente, soprattutto a livello locale.
Alcune polemiche scatenate dal centenario della nascita del Partito comunista italiano provocano scoramento. Nonostante anni di ricerche da parte della storiografia e delle scienze sociali, spesso la discussione si riduce a chiedersi se il Pci fosse riformista e quanto lo fosse davvero. Il tutto condito dalle dichiarazioni puntute dei protagonisti delle epoche trascorse, utili soprattutto a rinfocolare quella tendenza fratricida che rappresenta una delle tradizioni più radicate della sinistra italiana. Questo tipo di dibattito rischia di risultare del tutto sterile e, soprattutto, di non rendere giustizia a un partito che ha costituito, assieme alla Democrazia cristiana, un’ancora fondamentale per la democrazia italiana.
Cento anni dopo la scissione di Livorno e trenta dopo la fine del Pci sarebbe più utile cambiare i termini del confronto, ossia ragionare sull’esperienza dei grandi partiti popolari e di massa, Pci compreso, nella costruzione della democrazia in Italia e in Europa. Magari facendo tesoro di ricerche importanti, quali quelle condotte da Leonardo Morlino sulla nascita e sul consolidamento della democrazia nell’Europa meridionale (Democrazie tra consolidamento e crisi, il Mulino, 2008) in cui si rileva come alcuni partiti di sinistra, nati con obiettivi rivoluzionari e antisistema, abbiano finito per incanalare, congelare e integrare un potenziale di protesta che altrimenti sarebbe sfociato in manifestazioni di contestazione delle istituzioni democratiche.
A tal riguardo, nonostante abbia mantenuto a lungo nella propria cultura politica il riferimento a un modello alternativo di società, vivificato dal legame con l’Urss, nel secondo dopoguerra, il Pci ha contribuito alla difficile costruzione di quella che, per molti anni, è stata l’unica democrazia del Mediterraneo.
La scissione dai socialisti, di cui molto si discute in questi giorni, scaturisce dalla rivoluzione bolscevica e ha per oggetto l’egemonia sul movimento operaio. Essa non riguarda solo la politica italiana, ma, ovunque, contrappone i partiti socialisti, divenuti “leali” nei confronti delle regole del proprio sistema politico nazionale, ai partiti comunisti, allineati a Mosca sul piano internazionale, e ha conseguenze anche di politica interna, nella quale si delineano posizioni riformiste e gradualiste nelle fila dei socialisti e posizioni rivoluzionarie fra i comunisti. Non contestualizzare adeguatamente quelle scelte significa fare un torto alla storia e a decenni di fertile ricerca politologica e sociologica.
Nei diversi stati nazionali è una minoranza a seguire il richiamo rivoluzionario; tuttavia, nell’Italia repubblicana, la formazione numericamente più consistente della sinistra risulta il Partito comunista. La spiegazione è legata al radicamento che il Pci ottiene nella società italiana durante la Resistenza e la peculiare transizione dal fascismo all’Italia repubblicana che gli consente di “aderire alle pieghe della società” e, nell’Italia centrale, di costruire una “subcultura politica” particolarmente longeva.
A questo proposito ricordiamo un’altra ricerca fondamentale realizzata da Robert Putnam dagli anni Settanta ai Novanta del secolo scorso (La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, 1993), che evidenziava come una regione quale l’Emilia Romagna, storicamente egemonizzata dal Pci, si collocasse ai vertici come rendimento istituzionale e livello di soddisfazione dei cittadini. Evidentemente a livello locale non mancava una cultura politica riformista nelle file del Pci.
È a livello nazionale che le cose si complicano: a causa del suo legame con Mosca e della conseguente sua natura antisistema, al Pci rimaneva precluso l’ingresso nell’esecutivo e, pertanto, non poteva costituire un’alternativa praticabile alla lunga gestione governativa della Dc.
Il Pci e la contestazione
Neppure il Sessantotto riesce a risolvere la tormentata relazione del Pci con la propria matrice sovietica. Lungi dall’essere soltanto un movimento caratterizzante le classi privilegiate dell’occidente, come pure è stato in molte sedi descritto, nei paesi dell’Europa orientale il Sessantotto si traduce in una rivolta contro le dittature comuniste e, soprattutto durante la Primavera di Praga, diviene una lotta contro l’imperialismo sovietico, in grado di mobilitare segmenti eterogenei di società.
Sin dalle prime fasi della contestazione, in Italia gli studenti cercano di costruire connessioni con altri soggetti sociali, quali soprattutto i lavoratori, e il Pci è l’unico grande partito della sinistra europea a tentare di costruire un rapporto, sebbene difficile, con tali movimenti.
Si tratta di una giuntura storica molto delicata. Il comportamento dei comunisti italiani in questa fase influenzerà gli sviluppi successivi del nostro sistema politico: nell’agosto del 1968 il Pci condanna l’invasione sovietica di Praga e tale presa di posizione sembra preludere a una revisione della collocazione internazionale del partito, a una maggior collaborazione fra comunisti e socialisti e a una piena accettazione dei capisaldi della cultura politica liberale, lungo la strada indicata ai comunisti italiani con chiarezza sin dagli anni Cinquanta da Norberto Bobbio (Politica e cultura, Einaudi, 1955).
L’occasione mancata
È in questo frangente che affiora in parte rilevante del gruppo dirigente comunista la volontà di emanciparsi da Mosca (cfr. l’intervista a Massimo D’Alema in M. Almagisti, Una democrazia possibile, Carocci, 2016). Eppure, nella sinistra italiana, l’interlocutore del “dissenso” emergente nei paesi dell’Est non sarà il Pci, bensì il Psi: la classe dirigente comunista ritiene che la rimozione del divieto di accesso al governo nazionale dipenda soprattutto dalla “distensione”, ossia dal miglioramento dei rapporti fra Est e Ovest, più che da un allontanamento del Pci dai regimi dell’Est. In questo modo, il Pci – che pure a livello locale in vari territori gestiva il potere politico a pieno titolo e si apprestava a diventare il partito di governo in importanti regioni dell’Italia centrale – perde un’occasione decisiva per recidere il proprio legame con l’Urss e per condividere con il vasto mondo dei propri iscritti ed elettori un confronto sui capisaldi della propria cultura politica.
Dopo il crollo del muro di Berlino e la repentina revisione della cultura politica del mondo comunista quello fra socialisti e comunisti resta un incontro mancato: il Psi esce a pezzi da Tangentopoli e per gli ex comunisti l’approdo socialista pare costituire un tabù. Anche se aderisce all’Internazionale socialista, il Pds (Partito democratico della sinistra) non ne fa menzione nel proprio nome e, pur molto diversi fra loro, sia il progetto dell’Ulivo sia quello del Partito democratico puntano soprattutto al dialogo fra gli ex comunisti e il mondo cattolico.
La terza via
Quando avviene, l’incontro fra gli ex comunisti e la tradizione del socialismo europeo, si connota prevalentemente per l’adesione alla “terza via”, proposta da Tony Blair che, di fatto, significa un avvicinamento a posizioni neoliberiste, l’abbandono della critica agli aspetti più deteriori del capitalismo e un allontanamento dai riferimenti del socialismo.
Inoltre, la novità offerta da Blair perde rapidamente la sua spinta propulsiva con la crisi economica del 2008 e con le sue drammatiche conseguenze sociali, ed è proprio in quegli anni che si allarga la frattura tra i partiti tradizionali della sinistra e parte consistente della loro base sociale che comincia a guardare altrove, in cerca di nuovi referenti politici. Ossia quelle forze emergenti che sono state definite neopopuliste.
Allo stato attuale, nessuna formazione politica significativa si definisce “rivoluzionaria”. Tuttavia, se intendiamo la nozione di “rivoluzione” come un “cambiamento profondo”, allora diviene più facile ravvisare nel termine tutte le sue potenzialità e tutta la sua attualità: non parlano di “rivoluzione verde” le ragazze e i ragazzi del movimento Fridays for future?
Non parlano di “rivoluzione sociale” molti dei nuovi eletti al Congresso degli Stati Uniti? E non parlano di “rivoluzione politica” molti movimenti che nel mondo si stanno battendo per la democrazia? In altri termini, possiamo affermare che oggi è rivoluzionario chi propone riforme significative, volte a ridurre le disuguaglianze, a rivedere il fisco in senso equo e solidale e a riaffermare la centralità dei beni comuni, dell’inclusione sociale e dell’ambiente. Riportare al centro della discussione politica questi temi anche in Italia sarebbe… una rivoluzione.
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