Qui racconterò un caso di abuso in un ambiente che non è il mio. È una storia che ho saputo direttamente dalla vittima. Inizia così: c’è un’impiegata stanca e confusa a bordo di un pullman che si arrampica su una valle alpina perché il capo l’ha invitata a una misteriosa “settimana di team building”.
Il capoufficio italiano è una figura ancora poco indagata.
Sono venuto a sapere che un vecchio amico è diventato uno di quei capi che urlano alle ragazze neoassunte. I colleghi le trovano in fila per il bagno mentre aspettano di sedersi sul coperchio del water a piangere. Eppure nessuno ha sollevato la questione pubblicamente: a me l’ha detto il fidanzato di una neoassunta abusata, che mi ha chiesto di tenere il segreto. Tempo un mese non ne ho sentito più parlare da nessuna delle persone che sapevo informate.
A casa di un amico, in campagna, ho trovato nella cesta di fianco al camino un giornale di quindici anni fa dove si scriveva di un capo che chiedeva alle dipendenti di chiamarlo “amore” e in pochi mesi ne aveva messe incinte tre. Negli ultimi anni sono stati accusati di sessismo e razzismo capi di altissimo profilo in tutto il mondo occidentale, si è inaugurata una stagione di pulizia dei valori di chi comanda, ma è rimasta inalterata la sostanza di quel caso di cronaca rosa e nera: comandare le persone è un’esperienza. Tinge la vita di una magia che sembra valere qualunque prezzo.
In Italia questo fatto rimane evidente perché non abbiamo imbiancato troppo la facciata. Ci sono ancora capi beneducati e psicanalizzati e rispettati che giocano ad accarezzare il seno alle dipendenti. Ne parlo in modo generico, come fosse una statistica e non un paio di casi specifici che ho in mente. Ma scrivendo vedo le facce dei capi e delle persone molestate. Frequento un mondo all’apparenza civile dove sono rimaste intatte una crudeltà e una voglia di dominare che di solito attribuiamo ai boss mafiosi o ai CEO delle multinazionali. E invece, per i capi normali che incontro nel mondo della cultura, far piangere la gente nei bagni è sempre stata una magia, così come umiliare uomini e donne di mezza età aggrappati allo stipendio.
Dalla prospettiva del capo, il mondo degli umani è un caos che qualcuno deve pur organizzare. Coperti dal pretesto della giusta battaglia, anche il presidente della ong e il direttore editoriale moralista si abbandonano ai loro istinti crudeli.
Quando mobbizzano una dipendente troppo brava non è per far quadrare i conti, ma perché godono a schiacciare le persone. Vi ho tutti in mente, vedo le vostre facce. Vivete dei vostri crimini invisibili, coperti dal vostro entusiasmo, dalla dedizione, dall’intuito, dall’arguzia, dalla preveggenza, dal carisma…
Il ritiro
Qui racconterò un caso di abuso in un ambiente che non è il mio. È una storia che ho saputo direttamente dalla vittima. Non ci sono state denunce, quindi è complicata da scrivere. Inizia così: c’è un’impiegata stanca e confusa a bordo di un pullman che si arrampica su una valle alpina perché il capo l’ha invitata a una misteriosa “settimana di team building”.
Gaia non sa cosa significhi nel concreto “team building”, non ne ha mai fatto uno, e ha intuito che c’era qualcosa di strano fin dal momento in cui il capo ha diramato l’invito privatamente, a voce, senza lasciare traccia scritta.
A Gaia è parso il solito giochetto per controllare il gruppo di lavoro, come anche l’idea di far partire lei da sola. Vista l’ambientazione soffocante della storia – un resort in montagna – mi viene da cominciare come una copia della copia di Agatha Christie – Il pullman solcava una valle alpina lunga e diritta... –, far planare l’occhio di chi legge sul plastico della valle – la ricostruzione del crimine, come in televisione, con al centro il lago e il complesso tirolese del resort – e infilare un pupazzetto a forma di Gaia dentro un pullman Playmobil tra alberi, casette e automobiline di plastica.
Ventotto anni, in giacca a vento, girocollo nera, un taglio di capelli da boyband coreana coccolato dal paraorecchie bianco di pelo sintetico, la tempia abbandonata contro il finestrino sotto il cielo coperto. Aveva mal di reni per l’ovulazione, sentiva caldo, continuava a infilarsi l’indice sotto il collo del lupetto per farsi aria.
Un’impiegata: cioè un pupazzetto di plastica spostato a piacere dal burattinaio su rotaie, strade o rotte aeree. I capi ci lanciano come fionde dove vogliono; se solo avessimo davvero corpi di plastica per tollerare l’atterraggio, pensava Gaia, dolorosamente fusa con il pullman, sognando un bagno e di cambiarsi le mutande.
Rispetto alla sua vita precedente, di tuttofare in un teatro femminista, i rituali del lavoro in Fondazione la facevano sentire spolpata della vita. Per questo misterioso team building l’avevano costretta a partire la mattina presto, lasciare la mano della fidanzata che voleva riportarla a letto e andare a piedi fino alla stazione. Il tutto senza avere una minima idea del calendario delle attività.
Si sentiva “costretta”, ma non era per il viaggio o per la sveglia presto, il senso di costrizione le veniva dall’aver dovuto nascondere ai colleghi di essere una delle prescelte, e anzi di aver ricevuto dal capo la promessa informale – non c’era traccia scritta nella posta e nei telefoni – di un avanzamento di carriera. Insomma, l’attesa umanissima di un aumento di stipendio e di responsabilità e di serotonina era vincolata a una serie di sotterfugi che le sembravano assurdi, visto che lei era la migliore delle persone a disposizione del capo o, detto in altre parole, era l’unica non raccomandata della squadra, la sola persona che il capo aveva scelto personalmente.
Il mezzo pubblico della regione a statuto speciale correva fra due crinali coperti di alberi e villaggi. Il fiume, largo e diritto, non aveva ghiacciato, le colline erano verdi e cupe sotto le nuvole. Si era detta che almeno avrebbe visto la neve e invece, nonostante fosse il 7 gennaio, ora dal vetro le si rivelavano gli anonimi tetti spioventi e gli incroci a raso dove un SUV lasciava la precedenza a un furgoncino.
Qua e là un trattore creava una fila di tre macchine, quattro, cinque – da lontano parevano davvero giocattoli. Sui social dello “spa resort” aveva visto alcuni ospiti e un paio di modesti influencer immersi in una vasca idromassaggio sotto le stelle, tra le cime innevate, affacciati sul lago e sulle lucine di un villaggio.
Per il momento non sembrava esserci neve e Gaia sentiva la mancanza di quel candore che copre gli strati di tecnologia per ricostruire un mondo ideale, prende ogni cosa e la armonizza con le altre accontentando lo spirito.
Hanno svoltato a destra per infilare una galleria che saliva curvando nel buio. Sono sbucati in una valle più stretta, dove la strada serpeggiava tra alberi attirati dall’abisso di un torrente tutto cascatelle. Le rocce erano ricoperte di muschio, ma finalmente si vedeva baluginare un po’ di bianco sui rami e lungo le rive. A un certo punto, le curve sono diventate tornanti e la valle si è fatta man mano più ripida, ma in un modo innaturale, che l’ha agitata misteriosamente.
La spa
Dopo quella serie di tornanti improvvisi la strada si è raddrizzata e sulla sinistra è comparso un lago. A pochi passi da un villaggio l’autista napoletano ha fermato e detto alla “signorina” di scendere. Gaia ha raccolto la valigia nella pancia dell’autobus, e mentre aggiustava il peso – non era a rotelle, non sopporta i trolley – ha cercato di individuare l’albergo. L’aveva studiato a lungo sul sito. C’era una spa naturista, fatto non casuale, conoscendo i gusti del capo, e un po’ problematico, infatti non glielo aveva anticipato.
In cima a una rampa, ai piedi della montagna, si stagliava l’edificio principale; alle sue spalle si arrampicavano due file di chalet lungo vialetti disegnati dalle luci bianche di tanti lampioncini incastonati ai lati del lastricato. In mezzo agli chalet, più grande e asimmetrica ma dello stesso legno dipinto di scuro, ecco la spa, da cui si è immaginata uscire il capo in accappatoio con una coda di impiegati selezionati, chissà chi, Gaia non ne aveva parlato con nessuno quindi non aveva idea di chi avrebbe trovato.
Arrivata davanti alla prima costruzione, si è voltata verso il lago. Lo specchio d’acqua si raccoglieva in una forma che faceva pensare a un’arena, aveva per tribune una corona di montagne innevate e uno spiazzo con un bar dalle finestre sbarrate con palanche di legno. Il lago le dava un senso di mistero, e le ci è voluto qualche momento per capire perché: era un lago artificiale.
Il suo peso era retto da una diga. Sembrava che la costruzione della diga avesse preso la strada di un tempo e l’avesse costretta ad ammucchiarsi in tante spire. Nel materiale promozionale non si indicava da nessuna parte che era un lago artificiale. Emanava una misteriosa energia, come dei seni finti. L’energia era reale, e anche il bosco in fondo era reale; la neve bianca, finalmente uniforme anche se solo sulla corona delle montagne, l’ha fatta commuovere. L’aria era fredda, la luce cominciava a indebolirsi. Si è chinata a toccare la neve su un cespuglio, ne ha raccolto un pugno, era dura.
Dentro, posata la valigia e tolti i paraorecchie, ha lanciato un’occhiata a sinistra e a destra e non ha visto colleghi. Il suo sguardo ha percorso di nuovo la larghezza dell’atrio, seguendo l’architrave oblungo che volava dalla parete di destra a quella di sinistra. Il capo aveva detto: «Vedrai, una cosa semplice semplice, di gran gusto», ma lo slancio astratto e internazionale che gli architetti avevano voluto imprimere al lezioso stile sudtirolese le è parso falso, pensato a tavolino per guadagnare le quattro stelle.
Il ricordo del capo che diceva “di gran gusto” le ha fatto sentire in corpo che il loro incontro era imminente. Durante le vacanze Gaia era andata in ufficio tra un giorno festivo e l’altro, ma il capo no. Siamo a gennaio del 2020, due mesi prima che chiudessero gli uffici di tutto il mondo: non esisteva lo smart working generalizzato, era normale aspettarsi di vedere i colleghi tutti i giorni.
I divani e le poltrone erano organizzati in diversi cerchi. Due famiglie con figli adolescenti, ciascuna per conto suo, spostavano le pedine di un gioco da tavola facendo oscillare le braccia come grano. La reception era sulla sinistra: una scrivania di legno chiaro dal taglio a semicerchio e alle spalle un arco che si apriva su una stanza dove si intravedevano due stampanti e da cui non stava uscendo nessuno per accoglierla.
Ha lasciato lo zaino e la giacca a vento sulla sedia della reception e si è avviata al bar, sul lato opposto. Era un quadrato con gli sgabelli intorno e le bottiglie sospese sui pensili; al centro, una piccola barista in dirndl, dall’aria non banale, versava bicchierini di grappa a tre coppie che scherzavano in tedesco con aria assorta, come si fa da ubriachi quando si comincia una risata con gli altri e la si finisce da soli. In mezzo alle teste castane e bionde non c’era nessun italiano, e quindi nessuno della Fondazione, e non c’erano i ricci del capo.
I fantasmi
Ora Gaia sentiva arrivare alle spalle i colleghi, sentiva quasi le loro pacche sulle spalle, ma le stava allucinando. Gaia, nel raccontarmi la storia, è riuscita a collegare piani diversi in un’unica sensazione di minaccia. Nelle sue parole emergono tre mondi cattivi, uno dentro l’altro, come una matrioska: quello del suo ufficio, con le microaggressioni e le manipolazioni; quello, sempre umano, che produce l’inganno del lago artificiale, l’architettura aspirazionale dell’albergo e quell’iperoggetto sgraziato che è il turismo nel suo complesso; e poi il mondo più vasto, l’esistenza, il cui mistero è connesso al mistero della mente e alla umana capacità, in quel caso particolare, di allucinare la presenza del capo e dei colleghi per provare a dare un senso alle cose nei momenti di smarrimento.
C’era insomma per lei, nel fatto di percepire di continuo che il capo o i colleghi la stessero per sorprendere con una pacca sulla schiena, una connessione con l’artificialità del lago e con i giochini del capo e di certi colleghi. Questo suo modo di sentire il mondo mi ha toccato nel profondo durante le conversazioni da cui nasce questo libro, e mi tocca anche ora che, dentro la mia pagina, la accompagno mentre ordina un bicchiere d’acqua e allucina un’altra pacca sulle spalle.
A quel punto si è stufata della sensazione di stare tra fantasmi, allora è scesa dallo sgabello ed è tornata alla reception per provare a capirci qualcosa. Nel breve tragitto, il cosmo le ha rivelato un altro elemento della sua architettura ostile: lo sguardo severo di una vecchina in gonna grigia e vestaglia di lana in piedi tra i divani, i capelli raccolti in una crocchia, una mano smunta posata sullo schienale di una poltrona.
A quello sguardo severo, evidentemente rivolto a lei, se n’è subito unito un altro, gli occhietti neri di un uomo che le veniva incontro, un casco Lego di capelli neri corti e le sopracciglia unite: «Sono il manager... Sì? Piacere?» ha detto quest’uomo, senza stringerle la mano. «Va tutto bene? Volentieri?»
Gaia ha reagito immobilizzandosi e guardandolo negli occhi: «Va tutto benissimo», con due b, alla romana. È una sua tecnica, rispondere agli uomini con una fissità dell’altro mondo, per evitare ogni empatia e quindi ogni guaio possibile.
Il manager è rimasto spiazzato dal suo saluto stentoreo e Gaia, ancora infastidita dallo sguardo della vecchina, si è voltata ed è tornata al bancone – seguita dal manager –, dove ha mandato giù lenta lenta il bicchiere d’acqua a temperatura ambiente offerto dalla barista, vedendo che il gesto creava una distanza con quell’uomo spaventato. Flirtando con gli occhi ha ordinato una grappa, che la donna le ha servito ricambiando il sorriso.
«Possiamo nel frattempo» ha detto il manager «avviare la documentazione, sì.»
Gaia ha svuotato il bicchierino e l’ha sbattuto sul bancone: «Mi dica tutto, carissimo».
Detesta parlare così, perdere la poesia, però le serve quando interagisce fuori dalla sua comunità. Gaia è una di quelle donne che ha deciso che non dev’esserci niente di naturale nel rapporto con gli uomini (si intendono gli uomini eterosessuali incontrati fuori dalla sua scena) e cerca di sabotare le dinamiche relazionali in modo pervasivo, con ogni trucco della voce e della prossemica.
Da Il capo, Mondadori, in uscita il 5 settembre
«Comandare le persone è un’esperienza. Per i capi far piangere la gente nei bagni è sempre stata una magia». Questa è la storia di Gaia, che ha subìto un abuso sul lavoro e, durante una lunga passeggiata notturna, racconta a Francesco come sono andate le cose.
Gaia lavorava da qualche anno per la Fondazione, una grossa istituzione culturale romana, quando è stata invitata dal suo capo a una misteriosa settimana di “team building”. E così una mattina di gennaio, dopo una levataccia e un saluto frettoloso alla fidanzata, è partita per il Sud Tirolo, dove pensava che ad attenderla ci fossero i colleghi, magari già a bagno nella spa incorniciata dalle montagne.
Ma quando arriva non trova traccia né di loro né del capo. E lo chalet vista lago che le viene assegnato sembra essere già occupato da un altro ospite, un uomo. Gaia non sa se pensare a un malinteso, a uno scherzo o a un’assurda performance artistica architettata dal capo. Perché le ha detto di non parlare di quel viaggio con gli altri dell’ufficio? Perché non le ha ancora confermato la “lead” sul nuovo progetto? Ma soprattutto, perché non è lì e non le risponde al telefono? I primi indizi arrivano poco dopo, quando decide di esplorare il resto dell’albergo, ma la situazione, nei giorni successivi, si rivelerà via via più articolata e surreale.
Sono molti anni che Francesco Pacifico lavora, attraverso la scrittura, alla decostruzione del proprio privilegio di classe e di genere. Il capo è una tappa cruciale di questo percorso, una riflessione sul potere, il desiderio e la manipolazione: quella intellettuale, quella economica e quella che si compie inevitabilmente raccontando una storia. Ma è prima di tutto un romanzo originalissimo – divertente e inquietante al tempo stesso – che, nell’epoca del “quiet quitting” e delle grandi dimissioni, indaga il modo in cui sta cambiando il nostro rapporto col lavoro.
© Riproduzione riservata