- Nel suo nuovo libro il pittore e disegnatore marchigiano ha ”riscritto” uno degli ultimi racconti pubblicati in vita dallo scrittore. A guidarlo un’intuizione notturna. «La visione di un’ombra che ho riconosciuto all’istante: Giacometti»
- Chi lo avrà tra le mani non ci metterà molto a giudicarlo come uno dei libri più eminentemente e principescamente adelphiani che siano stati pubblicati. E anche per questo è un’amarezza ancora più dolorosa che sia il primo libro di Pericoli che Roberto Calasso non leggerà.
- Con questo suo nuovo libro Pericoli ci propone una sequenza di rodovetri, verrebbe da dire, quei particolari fogli trasparenti in acetato utilizzati in successione per realizzare un cartone animato, e sui quali il disegno viene prima stampato e dopo dipinto. Pericoli è solo una coppia delle sei mani che disegnano, stavolta.
L’aveva già fatto. Allora si era scelto un racconto di Robert Louis Stevenson e lo aveva riscritto con i suoi disegni. La casa ideale, quel racconto che inizia dicendo che «qualunque sia il luogo nel quale ci proponiamo di vivere l’esistenza, due sono le condizioni imprescindibili: la solitudine e la presenza vivificante dell’acqua». Quel racconto che suggeriva di avere tanti tavoli quante sono le mansioni in cui la giornata si divide. E allora un tavolo è destinato al lavoro del momento, un altro ai libri che si stanno leggendo o consultando in quella stagione, uno per le bozze, un altro ancora andrebbe tenuto sgombro per qualsiasi faccenda che arrivasse imprevista, e l’ultimo tavolo sarà sommerso da carte geografiche.
Anche lo studio di Tullio Pericoli, sulla scia magica del racconto del romanziere scozzese, va dunque immaginato così. Un tavolo per ciascuna incombenza. Uno per gli acquerelli, uno per leggere i classici e uno per poggiare le novità editoriali, uno per sbrigare la posta e per il computer, e uno per le matite. C’è però un altro tavolo ancora, in questo studio forse immaginario di Pericoli, è un tavolo che lui si fece portare e montare chissà quanti anni fa e che però fino ad adesso non era stato utilizzato. O meglio, lo usava per accogliere gli amici, per posarci le bollette o il bicchiere con l’acqua, ma ancora non si era rivelato per quello che sarebbe stato il suo reale utilizzo. È su questo tavolo, un tavolo inedito, che Tullio Pericoli ha realizzato il suo nuovo libro, Un digiunatore di Franz Kafka.
«Ho fatto un sogno in cui Giacometti e Kafka si incontravano», scrive l’autore in esergo al libro appena pubblicato da Adelphi. Un mago che stupisce persino sé stesso: ecco come potrebbe essere definito ciò che è accaduto nell’istante in cui Pericoli, che in quei giorni stava leggendo per l’ennesima volta il racconto di Kafka, è stato sorpreso da quell’intuizione notturna. Forse non ha neppure avuto il tempo di ringraziare il sogno che gli stava consentendo la scoperta che già prendeva corpo «la visione di una forma, di un’ombra che ho riconosciuto all’istante: Giacometti».
E non soltanto le sculture e le incisioni dell’artista svizzero, ma anche il suo aspetto fisico. E poi, tra le fenditure della letteratura e dell’arte, Pericoli ha visto balenare un’altra scintilla e allora una sottile vena di luce ha illuminato anche «le tante figure nere, erette, magre, isolate» che Kafka disegnò ripetutamente. È così che potrebbe essere nato Un digiunatore di Franz Kafka, la riscrittura che Tullio Pericoli ha dedicato a uno degli ultimi racconti pubblicati in vita dallo scrittore praghese.
Un libro a tre teste
Chi lo avrà tra le mani non ci metterà molto a giudicarlo come uno dei libri più eminentemente e principescamente adelphiani che siano stati pubblicati. E anche per questo è un’amarezza ancora più dolorosa che sia il primo libro di Pericoli che Roberto Calasso non leggerà.
Al cospetto dei suoi ritratti e dei suoi colli marchigiani, immagino solitamente Pericoli disegnare su un enorme petalo di narciso, su una betulla nana, e soltanto dopo copiare l’immagine su un foglio di carta. Mi aspetto, di solito, che i suoi paesaggi mettano le foglie, o che il suo tavolo sia cosparso di foglie ramate. Sono certo che lavori sotto un lucernario o in un giardino d’inverno. Avevo scritto così lo scorso anno quando Adelphi aveva appena pubblicato Arte a parte. È così infatti che mi capita quasi sempre di pensare davanti a un disegno di Tullio Pericoli, ma non è quello che mi è successo questa volta. Non è quello che mi è successo quando ho aperto questo libro. E forse perché questo è un libro a tre teste, un arabesco a sei mani.
Il primo dei trentatré disegni che lo compongono ha la forza primigenia dei graffiti nelle grotte di Lescaux, il quarto sembra una locandina cinematografica illustrata da Saul Bass, e soprattutto per ogni illustrazione Tullio Pericoli ha invitato gli altri due, Kafka e Giacometti, a partecipare a questa singolare seduta spiritica in cui non ci si può tenere per mano come si ritiene succeda di solito alle sedute spiritiche, perché le mani stavolta servono libere, altro che tenerle sopra il tavolo e stringersele per tenere chiuso il cerchio, stavolta quelle sei mani devono disegnare insieme.
Pericoli, come sua abitudine, e sia con i volti sia con i paesaggi, non traduce ma riscrive. Non imita, ma crea. Stimolare l’immaginazione per lui significa «quasi strofinarla, scaldarla, sino a che affiorino delle figure», come se la matita che tiene in mano da una vita fosse una lampada magica. Vladimir Nabokov nelle sue Lezioni di letteratura ha scritto che «un narratore può essere considerato sotto tre punti di vista: affabulatore, maestro, incantatore. Il grande scrittore riunisce tutte e tre queste qualità, ma è l’incantatore quello che prevale e ne fa un grande scrittore». In questo libro Pericoli, quella terza qualità, quella dell’incantatore, l’ha affinata e resa persino più seducente del suo solito.
I sogni di Kafka
Detto che è un libro che sarebbe scaturito da un sogno di uno dei suoi tre autori, vale allora la pena chiedersi cosa sognasse Kafka, che con il suo racconto ha ispirato Pericoli. Stando a quanto appuntò sui suoi taccuini aveva un’attività onirica di tutto rispetto: sognò una ballerina con la cintura abbellita da molti fiori; sognò di attraversare Berlino in tranvai con il padre; sognò il corpo «coperto di serrature come a un ballo in maschera»; sognò di osservare New York da un molo; di ricevere dal portalettere due raccomandate dall’amata e di scoprire che sono lettere magiche in quanto «potevo estrarre quanti scritti volevo senza che le buste si svuotassero»; sognò i suoi denti; una cena di fidanzamento e la grande arrabbiatura che lo sorprese quando scorge la domestica rimettere nella ministra lo stesso cucchiaio con cui l’aveva assaggiata; sognò un cavallo bianco e Matilde Serao; sognò di viaggiare in Lapponia con la madre; e di aver ammazzato un parente che aveva nominato ironicamente Milena.
Ma il digiunatore non è un sogno. È un uomo pallido, coricato sulla paglia, che indossa una maglietta nera sotto cui si vedono le costole marcate dalla sua arte. Ed è in una gabbia. Ogni giorno tre vigilanti si danno il cambio per sorvegliarlo, per assicurarsi che non mangi nulla. La sua esibizione prevede infatti che non tocchi cibo per tutto il tempo che trascorrerà in quella gabbia.
Non dorme mai di notte, ma fa un pisolino a qualsiasi ora del giorno e con qualsiasi luce, naturale o artificiale che sia. Molti di quelli che vanno a vederlo considerano il digiunatore un ciarlatano o, nella migliore delle ipotesi, un miserabile avido di pubblicità. Intanto la tavoletta che indica il numero di giorni di digiuno compiuti viene quotidianamente aggiornata. Il suo impresario, quello che gli trova i contratti in giro per il mondo, lo vuole in scena ogni volta per un massimo di quaranta giorni.
E non perché si preoccupi della salute del suo assistito, ma perché l’arguzia cinica che negli anni la professione ha affinato gli dice che dopo quaranta giorni la curiosità del pubblico scema fino a scomparire. Il digiunatore, così, al quarantesimo giorno veniva fatto uscire dalla gabbia. Si apre la porta incorniciata da una ghirlanda di fiori, una banda suona per l’occasione festosa, i medici misurano i battiti e il peso del suo corpo macilento e un megafono annuncia al pubblico le misurazioni, e due giovani donne sorteggiate tra gli astanti cingono il digiunatore per aiutarlo a fare quei due gradini che separano la gabbia dal tavolo in cui è stato ammannito per lui un pranzo da convalescente.
Lui, però, avrebbe voluto stare ancora nella sua gabbia: «Perché cessare mentre era sul più bello del digiuno, anzi neppure c’era arrivato?» Perché ora vogliono derubarlo della gloria di digiunare? Perché tutte le volte, ovunque si esibisca, gli viene impedito di superare sé stesso oltre che di frantumare ogni altro record mondiale? È l’unico artista della fame che esista, eppure perché nessuno lo prende sul serio? Nessun inganno verso il mondo da parte del digiunatore, semmai è il mondo che «frodava lui della giusta mercede». Della giusta riconoscenza, del giusto premio.
Una sequenza di rodovetri
Con questo suo nuovo libro Pericoli ci propone una sequenza di rodovetri, verrebbe da dire, quei particolari fogli trasparenti in acetato utilizzati in successione per realizzare un cartone animato, e sui quali il disegno viene prima stampato e dopo dipinto. Pericoli è solo una coppia delle sei mani che disegnano, stavolta. Si passa la matita con Franz Kafka e Alberto Giacometti. Qualcosa disegnano loro, soprattutto loro, e qualcosa mette lui. Ci sono i timbri e le firme, le impronte digitali di tutti e tre.
Leonardo Sciascia sulle pagine dell’Ora nel marzo del 1961 raccontava che Georges Simenon esordì con il nome di Georges Sim in un modo decisamente singolare. Si fece chiudere in una gabbia di vetro piazzata nell’atrio del Petit Parisien, scommettendo che proprio lì, davanti al continuo via vai degli ospiti dell’albergo, avrebbe completato la stesura del suo primo romanzo.
Pare che alla curiosità dei primi giorni seguì presto la tipica indifferenza, «come accade ai fachiri», dopodiché Simenon mollò la gabbia di vetro e si trasferì a scrivere su un battello fluviale preso a nolo. È questo che si propone il digiunatore di Kafka? Di ostentare davanti a un pubblico di sconosciuti una sua eccezionale dote? La sua è una mostra di abilità straordinariamente rara e ammirevole? Sembrerebbe di sì, o almeno è una delle intuizioni sbagliate verso cui Kafka ci conduce per buona parte del racconto. Ma non è così. Il digiunatore non è un artista che si esibisce. Non si tratta probabilmente di questo.
Nella storia a fumetti Uno spuntino per colazione l’illustratore Maurice Sendak disegnò in venticinque vignette la mattina rocambolesca di una famigliola sconvolta dall’appetito del loro bambino spaparacchiato sul seggiolone. In quelle due pagine prima vediamo il bambino mangiarsi un fiore in un vaso di coccio; poi mandar giù il gatto di casa; dopo tenta di inghiottire una cicogna con il becco, le zampe e tutto il bianco piumaggio, ma questa riesce a liberarsi in tempo e afferrandone la bocca famelica lo trascina in volo sulla città per poi gettarlo in mare.
Qui il bambino diventa preda di un pesce affamato almeno quanto era lui all’ora della colazione. I giovani genitori si trovano così a dover abbracciare un pesce che ha preso la forma del figlio appena inghiottito. O forse no, perché dopo poco il bambino evade della bocca del pesce e si getta tra le braccia della madre. Affetto? No, le si avvinghia perché ha ancora fame e, sotto lo sguardo esterrefatto del padre, il piccolo, come un boa, inghiotte la donna. Anche il padre avrà lo stesso destino: giù nello stomaco di questo bambolotto insaziabile.
Storia infelice, sembrerebbe. Ma a Sendak manca una vignetta, l’ultima prima di congedarsi da questa storia, la venticinquesima. E si scopre così che si è trattato di un sogno, il vaso, il gatto in un boccone, la cicogna vendicativa, il pesce dalla bocca larga, ogni cosa. Per l’appetito il bambino aveva sognato di diventare il più famelico degli esseri umani, l’onnivoro per eccellenza, capace di inghiottire un fiore e la propria madre. È l’esatto contrario del Digiunatore, il quale invece non ha ancora trovato nulla in vita sua che gli faccia venire l’acquolina in bocca, nessun cibo che lo attragga al punto da preferirlo all’astinenza.
Nulla che gli piaccia
Ed è il digiunatore in persona che lo ammette. Non mangia perché non ha mai trovato nulla che gli piaccia. È il tocco di Kafka. «Perché io non ho mai potuto trovare il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato, credilo, non avrei fatto tante storie e mi sarei rimpinzato come te e tutti gli altri».
Se l’avessero lasciato lì per più di quaranta giorni, come lui ha sempre chiesto e come ha sempre ambito, il digiunatore avrebbe finalmente trovato quel che cercava, un cibo di suo piacimento? Il digiunatore avrebbe scoperto, nella solitudine e nella fame, dopo un periodo più lungo degli abituali quaranta giorni, quale cibo desiderasse per sé? La poetessa argentina Sara Gallardo scrisse che l’animale troppo solitario finisce con il mangiare sé stesso.
Gli ci sarebbero voluti settanta, ottanta giorni per scoprire che solo la carne umana, la sua carne era ciò che da sempre avrebbe potuto soddisfare il suo appetito? Il digiunatore, un cannibale? Molto probabilmente ho torto a proporre questa lettura del racconto, ma chi avrebbe dato ragione a un lettore che, prima che lo dicesse Kafka, avesse sostenuto che il digiunatore se ne stava in gabbia perché non aveva ancora trovato qualcosa che lo aggradasse davvero, chi? Chi l’avrebbe considerata la lettura più corretta? Lo scrittore praghese ci smentisce sempre, e sempre senza raggiro scredita e vanifica tutte le nostre certezze.
Quando ricevette dall’editore tedesco le prime bozze del racconto di Jean Giono L’uomo che piantava gli alberi – nella cui la doppia pagina centrale Pericoli aveva deciso di concludere con un disegno alla Saul Steinberg una immaginifica storia dell’arte per come è stato rappresentato l’albero da Giotto in poi – la prima cosa che fece fu di spedire proprio a Saul Steinberg quella doppia pagina. I due si conoscevano e Pericoli sapeva da Aldo Buzzi, un loro comune amico, che Steinberg non stava bene in quel periodo.
La risposta arrivò con una cartolina, la grafia traballante: «Caro Pericoli va bene per l’albero Saluti e Auguri Saul Steinberg Nov 20 97». Si potrebbe ora immaginare nella buca delle lettere del suo studio milanese una cartolina del tutto simile a quella: «Caro Pericoli va bene per il Digiunatore. Post Scriptum: Vada a rivedersi il mio autoritratto. Ho disegnato la mia faccia come lei, ma prima di lei, Saluti».
E sì perché Pericoli e Kafka hanno entrambi disegnato il volto di Kafka in un modo magicamente, meravigliosamente simile. Ma questa sarebbe un’altra storia e ora devo chiudere la recensione di Un digiunatore di Franz Kafka. Franz Kafka, un pomeriggio in cui a casa di Max Brod trovò il padre dell’amico che dormicchiava sul divano del salone, e non volendolo svegliare, quando gli passò accanto gli sussurrò appena: «Per favore, mi consideri solo un sogno». Ora verrebbe da bisbigliare, per non rischiare di svegliarci, Tullio Pericoli, possiamo per favore considerare i suoi disegni come un unico, lunghissimo sogno che dura da tutta la nostra vita, possiamo?
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