Intervista al grande pedagogista francese: la scuola è il luogo in cui alunni con storie differenti condividono gli stessi saperi. È il luogo pre-politico in cui si forma la democrazia. Ma perseguire la vera equità, dando più risorse agli istituti con maggiori difficoltà sociali, sottraendole a quelli privilegiati, è una scelta politica che richiede coraggio
È professore di Scienze dell'educazione all'Università di Lione, ha insegnato in ogni ordine di scuola, operato nel campo della formazione, partecipato a importanti riforme. Philippe Meirieu, in questi giorni a Roma per un ciclo di incontri organizzati da Dopolavoro Matematico, e per presentare il suo ultimo libro Cosa può fare l'educazione per salvare la democrazia, è un pedagogista attento al tema della diseguaglianza educativa, che ha ribattezzato "la deriva dei continenti scolastici, tra scuole difficili e scuole rifugio". Una deriva purtroppo assai mobile nel nostro Paese, destinata ad assurgere agli onori delle cronache ad ogni nuova Caivano, per poi sparire senza lasciare tracce nell'agenda politica. In Italia, infatti, non esiste alcun dispositivo nazionale per sostenere la fondamentale azione educativa degli istituti scolastici dei contesti territoriali più fragili; al contrario i rapporti Ocse-Pisa ci ricordano che le scuole con maggiore incidenza di studenti svantaggiati possono in media fare affidamento su fondi minori rispetto alle scuole frequentate da un'utenza più favorita. In Francia le cose stanno in maniera diversa grazie alla politica delle "zone di educazione prioritaria" inaugurata quarant'anni fa da Mitterand e sostenuta da governi di diverso colore, con correttivi, messe a punto e anche qualche battuta di arresto.
Professor Meirieu, com’è nata e cosa ha portato questa esperienza?
«Nel 1981 la Francia ha avviato una politica di educazione prioritaria partendo da un principio fondamentale: “Dare di più a chi ha di meno”. Questa politica ha ottenuto sicuramente importanti risultati: fornendo ai professori incentivi e ore aggiuntive di progettazione si sono avviate dinamiche positive in tanti istituti, come testimoniano le formidabili iniziative descritte dal collettivo dei professori di periferia “Territoire vivants de le République”.
Oggi però possiamo osservare i limiti di questa politica per approfondirla e migliorarla. In primo luogo, le dotazioni supplementari per gli istituti fragili sono ben lontane dal ristabilire la giustizia: un bambino in educazione prioritaria costa decisamente meno di un allievo di un istituto prestigioso. In effetti, negli istituti di educazione prioritaria si trovano molti più insegnanti a contratto e supplenti, a inizio carriera e meno pagati, che restano due o tre anni per poi scegliere istituti meno complicati. Per tenere fede alle promesse iniziali bisognerebbe proporzionare i budget delle scuole, salari compresi, alle difficoltà sociali delle famiglie degli alunni, il che vorrebbe dire sottrarre risorse agli istituti privilegiati. Una scelta politica che richiede molto coraggio».
In Italia, va detto, non è solo venuto meno il coraggio di promuovere politiche di “discriminazione positiva”, ma anche il buon senso rispetto all’ordinaria amministrazione come evidenzia il divario tra la nostra spesa pubblica in istruzione (4,1%) e quella francese (5,2%).
«In secondo luogo bisogna interrogarsi su cosa significhi dare di più e domandarsi se non sia più corretto impegnarsi a dare di più e meglio a chi ha di meno. Meglio significa strumentazioni di qualità, proposte culturali e interlocutori di alto livello, e, per quanto riguarda il personale tutto, corsi di formazione continua di qualità. I ragazzi più svantaggiati non hanno solo bisogno di avere di più della stessa cosa ma hanno anche bisogno di altre cose di cui non dispongono nel loro ambiente familiare. D’altronde l'educazione prioritaria può poco contro i ghetti urbani, generati dalla concentrazione di alunni svantaggiati negli istituti più fragili, se non è accompagnata da una riflessione sui criteri che guidano la pianificazione dei bacini scolastici. Di fatto la Francia vive una vera e propria frattura scolastica, e in certi istituti la quasi totalità degli alunni viene da famiglie al di sotto della soglia di povertà. Fondamentale sarebbe introdurre una mixité sociale: alcuni esperimenti in tal senso hanno dato risultati molto positivi, ma sfortunatamente questo cantiere non è più all'ordine del giorno.
Detto ciò, neanche la mixité sociale è sufficiente. Come evidenziato dallo psicologo sociale Eliott Aronson negli anni ‘70 in America, la coabitazione di bambini di origini sociali e culturali diverse, se lasciata a sé, non solo non funziona, ma tende a incrementare la violenza. Aronson ha per questo elaborato il protocollo della classe puzzle: un dispositivo che favorisce la cooperazione tra tutti gli alunni, rendendo la riuscita individuale indispensabile alla riuscita di tutti, e viceversa, con ottimi risultati verificati anche sul fronte degli apprendimenti. La politica di educazione prioritaria necessita anche di un vero e proprio impegno pedagogico».
Nel suo ultimo libro, omaggio ai grandi maestri che si sono battuti in nome del principio dell'educabilità di tutti, lei sostiene che nell'era della “scelta continua” la sfida educativa si è fatta sempre più difficile, ma che la scuola può fare ancora qualcosa per la democrazia. In che modo?
«La scuola è un luogo privilegiato in cui alunni con storie differenti condividono gli stessi saperi, uno spazio-tempo con regole proprie dove la ragione non è di chi grida più forte. A scuola, ciò che struttura la comunicazione è la ricerca della precisione e dell’accuratezza; il rifiuto dell'approssimazione, degli stereotipi, delle false evidenze. Ciò avviene ad alcune condizioni: la prima riguarda la relazione del maestro con il suo stesso sapere: se questi trasmette dei saperi fossili - utilizzando quella che Freire chiamava pedagogia bancaria - se non li fa rivivere, se non sente l’urgenza di trasmetterli, allora non incarna il progetto profondo della scuola. In secondo luogo bisogna che il maestro organizzi contesti di apprendimento in cui ciascun alunno sia posto davanti ad ostacoli che egli possa e desideri superare, che gli impongano di mettersi alla ricerca di nuovi saperi, i quali potranno essere da lui reinvestiti per il raggiungimento del suo progetto personale. E infine bisogna che, per preparare gli allievi alla democrazia, la classe sia un luogo dove si scopre che il bene comune non è la semplice somma degli interessi individuali: per questo il consiglio degli studenti promosso dalla pedagogia cooperativa, nel quale si dibattono proposte e temi preventivamente condivisi, con precise regole da rispettare, è cosi importante».
Oltre ai segnali di crisi, nel libro lei individua anche qualche elemento di speranza, quale la presenza nei territori di associazioni e realtà di base che costituiscono spazi di solidarietà ma anche ambienti educativi preziosi, veri e propri anticorpi nei quartieri più poveri di servizi. Diverse strategie di intervento proposte negli ultimi anni - patti educativi, scuole aperte, educatori in classe - cercano di mettere in relazione questi anticorpi con le "scuole difficili". Come valuta queste esperienze?
«Se, come abbiamo detto, la scuola è il luogo pre-politico in cui gli alunni si formano alla democrazia, essa non può ignorare l'ambiente esterno, lasciando fuori i genitori e gli "anticorpi" territoriali. È per questo che raccomando agli insegnanti di far fare agli alunni delle “incursioni” all’esterno, perché osservino autonomamente ciò che li circonda. È un'attività che si vede molto bene nel magnifico film di Vittorio De Seta “Diario di un Maestro”, e che ci spiega John Dewey quando dice che la ricerca è il cuore, al contempo, della democrazia e della pedagogia. Considerazione tanto più importante in un'epoca di motori di ricerca che dispensano informazioni bell'e pronte e si fanno vanto di liberarci del tempo dell’indagine che pure è tanto essenziale. Il pericolo maggiore sta nel rapporto che queste intelligenze artificiali promuovono nei confronti della conoscenza, invertendo del tutto il senso della relazione pedagogica: soddisfacendo cioè il desiderio di sapere e uccidendo quello di apprendere attraverso risposte immediate, oggettive che aboliscono la dinamica del domandare e atrofizzano il pensiero... Tutto il contrario di quanto i nostri studenti possono invece incontrare quando li si mette in situazioni di ricerca autonoma.
Allo stesso tempo è bene che la scuola si apra agli adulti: nelle esperienze che ho condotto, le visite dei genitori in classe, che hanno previsto scambi tra piccoli gruppi di visitatori e studenti, hanno permesso di conoscersi e di conoscere le specificità e le regole della scuola. Quando ciò accade, la relazione educativa scuola-famiglia cambia radicalmente».
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