Lunedì 25 novembre alle 20.30 Arianna Porcelli Safonov sarà alla Sala Umberto di Roma con il suo spettacolo “Picchiamoci”, scritto in occasione della Giornata Internazionale per l'Eliminazione della Violenza contro le Donne
Si avvicina il Natale e a me piacciono quelli alternativi.
Quest’anno, la proposta è di passarne uno ispirato alle popolazioni native del Sud America.
In Perù ogni 25 dicembre alcune migliaia di persone si riuniscono per assistere al Takanakuy, una cerimonia tradizionale in cui si tengono dei combattimenti a calci e pugni tra civili di ogni genere.
I combattimenti possono essere anche molto violenti, ma in ogni caso cominciano e si concludono sempre con un abbraccio o almeno una stretta di mano: per quanto possa sembrare un metodo insolito, l’idea è che il Takanakuy aiuti le persone a risolvere i loro conflitti e serva per cominciare l’anno nuovo in pace.
Non ci sono differenze di genere: uomini e donne si picchiano senza problemi, come possono.
La tradizione è tipica di Sant Tomás, una città di poche centinaia di abitanti nella remota provincia di Chumbivilcas, sulle Ande, nel sud del Perù ma negli ultimi anni ha riscosso così tanto successo che si è estesa anche ad altre città, tra cui Cuzco e persino Lima, la capitale.
In Quechua, che non è la tuta da ginnastica di Decathlon ma la lingua indigena parlata nelle Ande, questa parola, “Takanakuy” vuol dire “colpirsi a vicenda” ed è combattimento organizzato da almeno tre secoli quindi un metodo comprovato, garantito ed efficace per gestire e risolvere i conflitti emersi durante l’anno tra parenti o persone della stessa comunità.
Non ci parliamo, ti odio, mi hai ferito: picchiamoci.
Abbassiamo il livello di cortisolo, attenuiamo la gradazione della rabbia, spegniamo le fiamme negli occhi con un bel cappottone.
È stato ideato perché era raro che i villaggi rurali più remoti venissero presidiati con costanza dalle forze dell’ordine o che le contese potessero essere risolte per vie ufficiali e questo aspetto fa sentire con ancor più amarezza, quanto la nostra condizione di cittadini metropolitani e civili sia restrittiva, visto che dobbiamo passare attraverso l’avvocatura.
Le tempistiche vergognose con cui la legge cerca di far fronte ai nostri mille ricorsi e alle sue inadempienze, rende ancora più viva la necessità di introdurre anche qui il Takanakuy; noi occidentali andiamo in Perù per accalcarci davanti alle tende degli sciamani per fare i riti peace and love e l’Ayauashca, non comprendendo il grido delle nostre anime che resta un grido primordiale che chiede denti rotti.
Lo sanno bene gli adolescenti.
Coi miei fratelli ci si picchiava a morte, era una convenzione irrinunciabile per risolvere i rancori sopiti.
Si chiamava “Cappottone”, ci aiutava a regolare i conti e a non doverci poi trovare un giorno a dover discutere di testamenti e servizi di posate d’argento da dividere con un mediatore pagato.
Il nostro Takanakuy accadeva principalmente in due posti: uno era l’auto.
Spazio stretto, angusto, quello dei sedili posteriori della nostra Volvo Polar dove lottavamo con pratiche simili al Sumo in cui si mescolano tecniche di slow-motion, in cui uno dei lottatori saliva sopra al corpo dell’altro, rimanendo a pancia in su, in modo che la forza centripeta fosse tutta concentrata sulla nuca che premeva contro i connotati della vittima che, a quel punto, si ritrovava costretta contro il finestrino della macchina, con la guancia contro il vetro che diventava gialla, con l’occhio racchiuso fra le pieghe della pelle e la grande umiliazione di essere guardato dagli altri automobilisti.
La chiamavo “mossa fatale”.
Non considera importanti le differenze di corporatura e di peso: è una mossa che punta tutta sulla velocità del posizionamento sopra al corpo dell’altro e sulla capacità di trovare punti d’appiglio per mani e piedi, in modo da divenire forti e severi come ragni.
La Volvo si prestava perfettamente a questa mansione: c’erano i poggiatesta anche dietro ed il sedile del guidatore veniva agganciato con un piede in modo che il mio piccolo corpo potesse ottenere una presa da Hulk, in modo da mantenere bloccato mio fratello, nonostante mi superasse di peso.
Questo tipo di Takanakuy automobilistico doveva però svolgersi in assoluto silenzio, si lottava come serpenti altrimenti mio padre fermava l’auto e ci picchiava alla vecchia maniera, antecedente alle norme contro le percosse sui minori.
In alternativa c’era un corridoio in casa nostra.
Un corridoio di cotto inflessibile che ospitava le porte delle nostre tre camere da letto e che quindi, proprio come avviene alle Bocche di Bonifacio, quando si aprivano quelle porte lì, le tre tensioni divergenti si scontravano in un cappottone senza legge, a dimostrazione che la legge è bella e ci salva ma che a volte, ci serve ancora la boscaglia, ci serve la saliva, ci servono le unghie nello scalpo del nostro simile e che vinca il più forte.
Non possiamo prescindere dalla fortissima violenza che si sprigiona nei legami d’amore.
Possiamo solo accettarla e farla confluire verso corridoi virtuosi.
Il nostro corridoio però non era virtuoso per un cazzo.
Ci si attorcigliava senza regolamentazioni, era tutto uno sbattere di gomiti e ginocchia e la mossa fatale risultava difficile perché non c’erano appigli per mani e piedi, era una lotta libera, alla greca dove io, in quanto femmina, minore, perivo per forza di cose.
E oggi mi ritrovo qui, su questo palco, con un incisivo finto ma ancora convinta di una cosa: ci vogliamo davvero bene? Le nostre differenze smaniano per scontrarsi e partorire un accordo traballante ma definitivo?
Il nostro bisogno di determinarci tra gli affetti più cari ci occlude le vene e boicotta tutta la cazzo di mindfulness che pratichiamo da anni?
I grandi nodi del nostro albero genealogico, le matasse accumulate in anni di sfoghi repressi, si sono tutti coagulate dentro alle tubature del nostro rapporto che non riesce più a fluire libero ma barcolla, tutto incollato nel rancore?! Picchiamoci.
Poi parleremo.
Picchiamoci, cazzo.
Prendiamo la stanza più cara che abbiamo in casa, togliamo gli oggetti contundenti e riempiamola di cuscini, arrotondiamo gli angoli con bei cumuli di vestiti, strappiamo il bigliettino da visita dell’avvocato e picchiamoci come possiamo, come certe coreografie di danza contemporanea nordeuropea, come quando alle manifestazioni ci si picchiava tra fazioni opposte e non si veniva tutti picchiati dai celerini come adesso.
Picchiamoci.
Meglio farsi male tutto in una volta piuttosto che farsene un pochino, ogni giorno.
Picchiamoci come possiamo, secondo le nostre possibilità fisiche, certamente ma attenti a non sottovalutare mai l’astuzia e la rabbia che sono le dinamiti dell’essere umano.
Bruce Lee era alto 1,71 e pesava 61 kg ma non ha mai lottato per difendere la sua minoranza, la sua categoria di scriccioli del cazzo: si è semplicemente organizzato per fare un culo così a chi stava sotto tiro e lo ha organizzato talmente bene che si è fatto persino pagare per farlo.
Picchiamoci, è la cosa migliore da fare: è da secoli che uomini e donne lo vogliono.
Organizziamoci perbene e picchiamoci, non ha senso farlo con le sentenze.
Quando arriva la legge poi non si fa mai più pace.
Picchiamoci.
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