- Pierino morì rapito dal colera, all’età di cinque anni, nella tarda estate del 1887 a Genova. Vuota rimase la cameretta e orfano restò il corredo da scolaro. L’alunno Beccari non rispose all’appello del maestro.
- Di lui rimase soltanto un ritratto marmoreo, scolpito da Lorenzo Orengo e voluto dalla madre Fanny, che andava ogni giorno a piangere sulla tomba del figlioletto. Una statua che ammonisce nei secoli: i bambini non devono morire.
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Ogni tanto, nel silenzio, crolla qualcosa. Il porticato si allunga in spettrale fuga, mentre la decadenza lo stringe a sé in mortale, inquerelabile abbraccio.
Il muschio insinuatosi nella fredde membra delle statue fa scoppiare le loro articolazioni, il salnitro ha sgretolato i cornicioni, gli architravi, gli aggetti, il bugnato fiorentino, una pioggia di gesso imbianca giorno dopo giorno i pavimenti luridi, macchiati da striature nere, talora verdastre; il tempo ha denudato i graticciati delle volte ormai ischeletrite, i piccioni vi nidificano indisturbati, protette da invisibili recessi polverosi si schiudono le uova in balia dei ratti, poderosi fasci di ragnatele liane adornano i sacelli, il bronzo dei serramenti, delle lettere dei nomi, delle croci latine si scioglie in lunghe bave lacrimose.
Qui la decadenza si consuma in sé stessa e ammonisce sulla caducità della vita umana chi venga nel porticato a cercare una tomba, qui sono tanti i morti ben più vivi, di tanti viventi.
Solo resiste alle ingiurie del tempo ormai fuggito lo scolaro Pierino Beccari classe 1882.
La fine
Sul finire dell’estate dell’anno iniziatosi con la battaglia di Dogali combattuta nella remota Africa orientale e della nascita di Le Corbusier nella graziosa casetta di Chaux de Fonds, dalle parti di Neuchatel, un tristo giorno ciondolava Pierino in preda alla gravezza di capo, fu questo il primo sintomo del morbo, il bimbo stranamente inappetente nell’inedito stranito ciondolare per casa disdegnò l’uovo sbattuto con il marsala che gli porgeva solerte la mamma, invece di arrampicarsi sull’albero suo usuale costume meridiano volle giacere nel letto, egli che non aveva un attimo di requie e giocava fino a sfinirsi, se non lanciava la palla fuori dalle mura del giardino si divertiva, armato di una bacchetta flessibile di nocciolo, a tormentare il gatto preferendo comunque attentare al pudore della cuoca a cui sollevava con malizia le vesti.
A Pierino doleva la fronte, le membra languide sparse sul lettino. La mamma, la tata e la cuoca distolte dalle loro abituali occupazioni pomeridiane si chinavano a turno su di lui per chiedere dove avesse male.
Egli non sapeva rispondere, smaniava storcendo il visetto. Sembrava a prima vista il bimbo colpito da una semplice diarrea, uno di quei banali disturbi infantili effetto di scorpacciate, penitenza di ingorda marachella, che tante volte aveva fatto sorridere nel bonario ma doveroso rimprovero i genitori e la tata, si credeva Pierino costipato da un’indigestione di fichi, sbocciati nell’angolo del giardino in una tale profusione da incurvare le esili braccia della pianta.
All’iniziale gravezza di capo ben presto si sovrappose un gran borbogliamento di visceri, un rosario di dolori al basso ventre, sufficienti a fermare la mano della tata che stava per procedere alla tradizionale peretta evacuativa, quando il piccino sembrava migliorare, quasi addormentato nel lettuccio dalle coltri spiegazzate, eccoti un’inedita profusione di materie acquose bianchicce, incalzate da un vomito violentissimo e impetuoso sempre delle incerte materie bianchicce.
Già a metà pomeriggio fu un precipitare di sintomi, crampi alle gambe sopratutto ai polpacci con spasmi intollerabili. Fu convocato il medico. Le membra si erano fatte di un freddo marmoreo, del quale Pierino non sembrava accorgersi.
Fanny la mamma si ingegnava a accarezzarlo sui piedini già cadaverici, il dottore ancora non si vedeva, la cuoca fu messa di vedetta al cancello, la tata si torceva le mani trattenendo i singhiozzi, soltanto Fanny sorrideva fiduciosa al suo bambino, si lagnava il piccolo malato di un gran dolore e bruciore più infiammazione che dolore alla regione precordiale, a fatica indicava con la manina cerea il petto, tenuissimi i polsi. Giunse finalmente il medico, avvolto da una scia di verbena, tosto allarmato dall’assenza di battito cardiaco percepibile si provò al calar della tenebra a incidere la piccola carotide da cui il sangue non sgorgava se non a stento, denso, viscido, nero. Solo allora Fanny si allontanò dal lettino e si nascose alla vista per singhiozzare.
Giaceva Pierino nel suo letto di bambino ormai freddo il visetto, fredda la lingua, il naso, l’alito gelido anch’esso e dal sentore di lievito. Freddo e profuso un sudore di ghiaccio copriva tutte le membra, si mutarono le lenzuola nella speranze che ciò riscaldasse il povero malatino, questi mostrava l’incarnato bluastro, plumbeo, terreo, era già cadavere, nell’amato visino il naso si era affilato, gli zigomi sporgevano aguzzi quasi a bucare la pelle fantolina, gli occhi bistrati di viola, infossati nelle orbite, la cornea appannata, le pupille dilatate, le unghie delle mani e dei piedi incurvate, illividite, la tenera pelle di bimbo divenne rugosa, vecchia e grigia di cenere.
Nel cuore della notte finalmente una vocetta stentata, sepolcrale riuscì a bisbigliare come da un altro tempo ai viventi precluso un balbettìo di mamma, mammina, indi un grido gli uscì dal centro del petto. Chiedeva bevande fredde il piccolo Pierino, era assetato di freddo.
Corse la cuoca impicciata dalle gonne in una luminosa alba genovese fino a Vico Neve dove si tenevano le scorte di ghiaccio, tutto fu vano. Ormai mezzo sordo, l’assetato di freddo Pierino si agitava nei teli del lenzuolo, a tratti una piccola bizzosa tosse lo percuoteva. Profetizzò il medico che se non fosse insorta la gran febbre liberatrice entro il dì seguente Pierino, ahimè sarebbe volato in cielo. Scoccarono ventitré ore senza alcun cambiamento, la febbre di guarigione non salì mai. Il sole salì alto nel cielo, si insinuò con le sue lame incandescenti nei tetri caruggi, la vita riprese il suo corso, ma non ci fu salvezza. Morì rapito dal colera Pierino Beccari all’età di cinque anni nella tarda estate del 1887 a Genova.
Bianco
Di colpo tutto nella sua cameretta divenne bianco: bianchi i veli, la zanzariera, bianche le candele, di legno bianco la cassa foderata di raso bianco, che quasi accecava, il prete con i paramenti bianchi, casula, pallio e stola, bianco il corteo delle suore, bianche le corone di gigli, giacinti bianchi e tuberose, bianchi i nastri su cui furono vergati a lettere d’oro gli addii al nostro adorato bambino.
Bianche le lacrime, più bianco fra tutti il nastro della corona della mamma che recitava: addio nostro fiore.
Restarono abbandonati il cavallo a dondolo, la palla, il cerchio, la fionda. Orfano restò il corredo dello scolaro: penna, pennino, calamaio, la bottiglina di inchiostro, la falsariga per scriver dritto, il nettapenne, il portapenne, la riga e la squadra, la penna a tre punte per fare le aste più grandi, il peduccio di volpe, lo zampetto peloso per spolverare il foglio, l’abbecedario, il pallottoliere, il quaderno, la cartella rigida, da tempo apparecchiato con gioiosa emozione dalla mamma Fanny per il primo giorno di scuola dell’alunno Beccari, che mai rispose all’appello del maestro, mai prese posto nel suo banco, mai fu chiamato alla lavagna a scrivere con il gesso, mai strinse fra le dita il cancellino, mai imparò una poesia a memoria, mai fece il riassunto, mai il componimento, mai si portò i compiti a casa, mai ebbe la pagella, mai fu bocciato, mai ebbe modo di macchiarsi le rosee dita con l’inchiostro, di lasciarlo colare dentro alla cartella, mai ebbe l’agio di lanciare palline di carta sulla testa dei compagnucci, mai rischiò di finire castigato dietro alla lavagna in ginocchio sui ceci, mai vestì l’infamante cappello di carta con le orecchie di asino, mai ricevette le dolorose bacchettate sulle mani, mai ebbe il diritto di imparare a leggere scrivere e far di conto, perché l’alunno Beccari in classe non ci è mai entrato, assente giustificato perché inumato e assiso sul catafalco invece che seduto composto nel banco.
Il monito
Grande fu la disperazione della giovane vezzosa mamma Fanny, che volle per lui un monumento a futura memoria e per ciò fu assoldato lo scultore di manufatti sepolcrali Lorenzo Orengo, che in capo a un anno scolpì la statua più inquietante sulla morte infantile, è questo di Pierino Beccari il marmoreo ritratto di un bimbo che ammonisce nei secoli: i bambini non devono morire.
Le gallerie sono sempre deserte, si scivola nell’ombra anche in piena estate, incerti passi si stampano sulla polvere, non c’è mai nessuno in questo cimitero, grappoli di ragnatele ondeggiano mezzo dentro e mezzo fuori dal porticato di mattoni, la decadenza riesce a dare un senso di alacrità al trascorrere del tempo in cui la memoria ritrova la naturalezza inerente al necessario disfacimento delle cose fatte dall’uomo.
Una volta installato il monumento Fanny raggiunge Staglieno ogni giorno, la statua di suo figlio condotto per mano dall’angelo rappresenta un ordine nel perenne caos che la striglia, le arruffa le chiome e le strapazza le vesti, ovvero la sfiducia in ogni ordine possibile nell’accettazione forzosa del lutto ovvero semplicemente un mancamento di forze di una mamma.
Fanny crede che vegliando il sepolcro avrebbe intravisto di nuovo le forme di quello che era stato suo figlio, l’unica ancora autentica verità del bimbo volato in cielo. Fanny trascorre tutto il giorno al cimitero, non mangia, non beve, sospira.
Davanti alla statua
La gente mormora come passa le sue giornate la madre inconsolabile e inconsolata, evidente che lo sanno ma è da lei che vogliono saperlo solo per malizia. Le bisbigliano: che destino povero angioletto. Una beghina, più di una beghina forse sparla, mormora senza pietà alcuna, dice che quella madre si nutre del pane degli angeli, quando gli angeli non mangiano e che i bambini sono sempre innocenti e quando muoiono è sempre colpa di qualcuno, che si è preoccupato eccessivamente per una nuova toeletta parigina, per certi nastri da cucire su un cappellino, ha partecipato a troppi balli fino a farsi venire i calli nei piedi, perché ci sono tante faccende che sembrano una cosa invece son dell’altro. Nella statua a grandezza naturale scolpita dall’Orengo Fanny giorno dopo giorno riconosce sempre più suo figlio ormai di marmo, la vede da lontano in mezzo alla ressa di altre statue e croci e angeli solo obbedendo alla forza del suo nome Pierino, che ripete fra sé e sé, anche se ormai di lui non resta che il ricordo.
Monta la guardia presso la statua, la fissa a lungo a volte trasalendo per squittii che sono topi o borbottii che sono il temporale.
Talora si addormenta, al risveglio crede che Pierino sia vivo, lo chiama e si illude solo a ripetere quel nome pronunciabile all’infinito, come se il rito potesse farlo tornare indietro. Lo invoca per tutto il tempo che il sole compie il suo giro quotidiano, sola nella galleria dove la sua vita può diventare tutto se il lettino del suo bimbo è diventato una bara bianca.
La colpa
L’incertezza di esistere è adesso in ciò che per definizione dovrebbe esserne pilastro. La mamma che non ha saputo proteggere il suo bambino.
Nel porticato Fanny vive nell’indugio della colpa grave da cui a volte scaturisce un gesto spontaneo, allora si rialza e abbraccia la statua di suo figlio. Se qui nel porticato in ombra non fosse soltanto un reciproco fissarsi che non fa vedere, lei sa che lui la spia, un silenzio che proibisce di cogliere anche un fruscio di ratto, un frullo di ali, sta Fanny la madre nell’immobilità di pietra della statua di Pierino, senza più misura nel contrasto di un movimento di vivente cieca che cerca la luce dove lui è. Fanny siede presso la tomba in ossequio all’indeclinabile richiamo del sangue, veglia la carne della sua carne destinata a putrefarsi sottoterra. Ogni tanto corre veloce un ratto.
Fanny si percuote il petto avvizzito anzitempo con i due rabbiosi pugnetti di dama, geme e inghiotte bocconate di saliva perché suo figlio non è più qui, è andato via di qui rapito dal morbo crudele, non si rassegna la madre orfana di prole che egli non sia più qui, se il qui è solo nel porticato che lei abita giorno dopo giorno. Pierino è qui anche lui e lei con lui come quando lo custodiva in grembo.
Nel silenzio teso della galleria dei morti sta Fanny la madre prosternata finché giunge il crepuscolo, quando qualcuno non la strappa da lì, il suo dolore di cuore intanto si è dilatato nel silenzio fino alla spalliera dei cipressi che glielo rimandano indietro, propagano il lutto della madre anche agli altri morti e allora sembra che la vita smarrita torni a sfiorare l’adesso, le cose che sono, la veste gualcita, gli stivaletti impolverati, l’acconciatura sfatta, le guance avvizzite e rigate di lacrime, la fame, la stanchezza, il sonno.
Accigliata e come offesa da ciò che le impongono di fare, volgendo di continuo il capo all’indietro per vedere ancora, Fanny si avvia accompagnata dalla cuoca o dalla tata verso l’altrove degli ancora vivi che è la sua casa, a passetti recapitola tutto quello che si lascia dietro, il suo bambino egualmente indifeso come quando era in vita, più avanti nel viale prima dell’uscita ode sempre il sogghigno della morte che in ogni angolo delle gallerie macina parole compilando l’inventario di quelli sta per andare a prendere.
Prima o poi questa soddisfazione la Morte la darà anche a lei.
La domanda
Nel monumento di Staglieno, Pierino tiene il capo reclinato sulla spalla destra, nella movenza di sottrarsi alla stretta dell’angelo che lo conduce per mano, sotto alla frangetta dell’acconciatura da paggio, gli occhi si indovinano chiari, occhi specializzati a vedere le lucertole, le labbra sono serrate con disappunto, il mento affonda nel fiocco della cravatta dello scolaro di estrazione alto borghese, indossa una giacchettina di serge doppiopetto, doppia la fila di bottoni, bottoni destinati a perdersi uno dopo l’altro nelle scalmane della ricreazione, i pantaloni sono al ginocchio, gran parte della gamba di cui si intravvede il tricot di un calzettone di cotone, è nascosta dalla cartella di materiale rigido con un cinturino di vacchetta per chiusura e la targhetta tonda di zinco su cui l’orafo avrebbe inciso il nome dello scolaro.
Le scarpe son francesine di cuoio allacciate da stringhe con fiocco sbuffante di raso.
L’angelo psicopompo guarda in direzione opposta alla vita terrena, verso una porta ormai dischiusa, non ha scarpe l’angelo, la sua mano sinistra tocca con delicata impazienza la spalla dello scolaro, avvolto nel mantello di penne della sua ala, che fa da schermo e mura di cinta.
L’espressione di Pierino è un misto di offese appena udite, intollerabile insolenza, il trionfo non contestabile di chi è più grande su chi è più piccolo, tutto è evidente e nulla è evidente su quel visino. Di un cuore che è capace di prendersi tutte le colpe, si poteva ancora aspettare, sono stato un fiore. Che cosa è stato l’amore?
Chiede Pierino, si può vivere? Gli risponde l’angelo che guarda altrove: si avresti potuto. Ti ha sopraffatto la morte, così sei caduto nel sonno più profondo.
Chiede ancora il bambino: perché ho dovuto abbandonare il gioco, i salti, la palla, la crostata, il giardino, le filastrocche, la mamma?
L’angelo: nella tua innocenza fosti avviato sulla strada sbagliata, questa è la vita, se ti mentissi su questo sarei disonesto, nient’altro.
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