- Un’idea interessante quella di Platone nelle mentite spoglie di un re egizio, lo scritto uccide nel pensiero l’attività viva della memoria, una specie di aiuto che giunge all’anima dall’esterno e la disabitua allo sforzo interiore.
- Nascere in una cultura orale significa cibarsi di ascolto. L’identità culturale degli uomini vissuti nel periodo della Grecia arcaica era affidata ai poemi di Omero.
- Ammetto che Clubhouse, il nuovo social network solo audio, mi ha fatto sobbalzare. Non saprei dire se mi colpisce di più l’aura di esclusività oppure l’idea che sia arrivato il tempo di tornare ad ascoltare.
E se Platone avesse ragione? Lo sappiamo, il filosofo del IV secolo a.C. era un affascinante storyteller. I miti che costellano i suoi dialoghi sono prodigi di fantasia e profondità. Risvegliano l’immaginazione. Nel Fedro, un dialogo complesso dedicato all’amore, ci racconta che un giorno Theuth, dio egiziano e geniale inventore, chiese un incontro con il re dell’Egitto Thamus per presentargli tutte le sue invenzioni nella speranza di regalarle al popolo. Tra queste, Theuth presenta al re la scoperta dei numeri, della geometria, della matematica, dell’astronomia e, finalmente, dell’alfabeto e della scrittura. Questa scienza, dice Theuth, è una medicina per la sapienza e la memoria.
Il re, dopo aver ascoltato con ammirazione le parole di Teuth, decide di donare al suo popolo tutte le meraviglie presentate dall’inventore, ma sulla possibilità di scrivere manifesta tutte le sue paure. Il dono di Theuth in realtà costringerà a dimenticare di più, ottenendo il risultato opposto rispetto a quello dichiarato dal suo inventore. La scrittura non educa alla memoria ma al richiamo alla memoria attraverso dei segni.
Un’idea interessante quella di Platone nelle mentite spoglie di un re egizio, lo scritto uccide nel pensiero l’attività viva della memoria, una specie di aiuto che giunge all’anima dall’esterno e la disabitua allo sforzo interiore. Occorre ricordare che il contesto storico in cui Platone racconta questo mito è quello in cui la Grecia, tra il V e il IV secolo a.C., sta vivendo un momento di passaggio epocale tra la civiltà orale e la civiltà della scrittura. Passaggio pieno di paure e pregiudizi come ogni cambiamento epocale che si rispetti.
Nascere in una cultura orale significa cibarsi di ascolto. L’identità culturale degli uomini vissuti nel periodo della Grecia arcaica era affidata ai poemi di Omero. Valori, miti e modelli venivano cantati a un pubblico (limitato ai gruppi di persone che potevano essere fisicamente presenti all’esecuzione) la cui attenzione doveva essere catturata con molta perizia. E il poeta non solo imparava a memoria i suoi testi, il poeta era la memoria di un popolo senza archivi o registrazioni radiofoniche e televisive.
La trasmissione della cultura in Grecia restò orale sino alla fine dell’epoca classica (V secolo a.C.) per intenderci quella della grande stagione del teatro, dell’oratoria e della filosofia, momento in cui cominciarono a esserci testi scritti ma destinati comunque a essere raccontati e non ancora letti e meditati in quel rapporto intimo e personale con un libro che a noi è tanto caro. Per la meravigliosa abitudine fatta di carta, sottolineature e appunti dobbiamo aspettare il periodo successivo a quello classico, con il suo clima cosmopolita e internazionale come lo è stato quello ellenistico. Con un pubblico colto, variegato e che potrà permetterselo, il libro diventa lo strumento ideale.
È sempre difficile staccarsi dai modelli con cui siamo stati educati e trovo del tutto comprensibile l’iniziale senso di sgomento che la rivoluzione tecnologica della scrittura ha portato con sé e non ha risparmiato uomini come Platone. Da buon insegnante ama il dialogo diretto e vivo. Una parola scritta è per Platone muta, incapace di difendersi e di rispondere senza che noi possiamo più interrogarla. Anzi, possiamo farlo anche all’infinito, ma lei ci restituisce sempre la stessa risposta. Noi sappiamo bene che entrambi gli strumenti, parole e dialogo, si completano nella loro ricchezza e siamo grati al dono di Theut non fosse altro che per la quantità di libri antichi che ora possiamo leggere.
È pur vero però che spesso è la parola scritta a interrogare noi.
Siamo una generazione difficile da definire. Ci serviamo quotidianamente la scrittura attraverso mail e post di social, ma nel lessico e nella qualità della forma ci comportiamo come se usassimo una comunicazione orale e chilometri di conversazione accumulati sulle chat dei gruppi di whatsapp o sui post di Facebook sono lì a testimoniarlo. Non dovremmo mai dimenticare che scribere, da quando esiste il verbo latino da cui deriva il senso del nostro pigiare le dita su una tastiera, significa incidere, come anticamente si faceva con lo stilo sulle tavolette di cera per lasciare i segni delle lettere dell’alfabeto. La parola scritta è lì con il suo enorme potere graffiante. Può farci sognare innamorare, sorridere e consolare ma anche offendere e ferire.
Quando incidiamo un nostro pensiero, facciamolo con la cura di chi sa di lasciare segni. E riflettendo sulla scrittura ammetto che Clubhouse, il nuovo social network solo audio che permette di creare stanze in cui discutere a voce dei propri argomenti preferiti, mi ha fatto sobbalzare. Non saprei dire se mi colpisce di più l’aura di esclusività che questa piattaforma si è costruita, forse per attirare l’attenzione, ma anche per lanciare la sfida a un pubblico appassionato e non bulimico, oppure l’idea che sia arrivato il tempo di tornare ad ascoltare. Platone qualche ragione doveva pur averla!
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