Ricca di precisione, definizione e attenzione alla parola, la scrittura di Herzog è potente e profonda. Così i suoi film, nel tentativo di cogliere il vero e portarci vicino ai nostri sogni più febbrili, al cuore dell’esistenza. Il brano inedito “Stelle, il mare” è tratto dal libro del regista, Ognuno per sé, Dio contro tutti, in prossima uscita per la casa editrice Feltrinelli nell’autunno 2022.

Verso mezzogiorno il pianto delle donne cessò. Alcune avevano gridato e si erano strappate i capelli. Quando se ne furono andate, mi avvicinai. Era una piccola costruzione di pietra accanto al cimitero, nella contrada Chora Sfakion sulla costa meridionale di Creta, soltanto poche case sparse sulle rocce ripide. Avevo sedici anni.

La minuscola sala per le funzioni funebri non aveva porta. Nella semioscurità vidi al suo interno due morti affiancati, così vicini da toccarsi. Erano due uomini. Più tardi venni a sapere che si erano uccisi a vicenda; in quella zona remota e arcaica esisteva ancora la vendetta di sangue. Mi ricordo solo il volto del morto che stava a destra. Era bluastro come il lillà, in parte anche giallo. Nelle narici aveva due batuffoli di cotone molto grandi, imbevuti di sangue vecchio. Una scarica di pallini lo aveva raggiunto al petto.

Al calare della notte uscii in mare. Da qualche notte lavoravo su un peschereccio; dovevano essere le poche notti intorno al novilunio, perché non c’era la luna. Una barca trainava sei chiatte, lampades, in mare aperto, ciascuna con un solo uomo d’equipaggio. Là ci sganciarono, distribuendoci nello spazio di un chilometro, e ci lasciarono soli. Il mare era uno specchio, niente onde, l’acqua come l’olio. E un silenzio immenso. Ogni chiatta aveva una grande lampada a carburo la cui luce penetrava le profondità del mare.  [...]

Le prime ore della notte trascorsero in un’attesa immobile, finché la luna artificiale della lampada non fece il suo effetto. Sopra di me la volta dell’universo, stelle che pareva di poter afferrare, tutto mi faceva oscillare dolcemente in una culla di infinità. E sotto di me, rischiarate dalla lampada a carburo, le profondità dell’oceano, come se la cupola del firmamento si unisse a loro formando una sfera. In luogo delle stelle c’erano laggiù, ovunque, pesciolini che splendevano argentei. Accolto, sopra, sotto, ovunque, in un universo senza eguali, in cui a ogni rumore era stato mozzato il respiro, ritrovai me stesso, d’improvviso, con inconcepibile stupore. Ebbi la certezza, lì e allora, di sapere tutto. Il mio destino mi era chiaro. E seppi anche che dopo una notte come quella non sarebbe più stato possibile invecchiare. Ebbi la certezza che non avrei raggiunto il mio diciottesimo anno di vita, perché, illuminato da una simile grazia, non ci sarebbe mai più stato per me il tempo consueto.

Questo è un bellissimo passo in cui mostri grande attenzione alla parola. Ci sono espressioni che colpiscono per la loro qualità poetica e allo stesso tempo per la precisione e definizione. Per esempio la descrizione del volto del morto, bluastro come il lillà, in parte anche giallo, o dei pesciolini che splendevano al posto delle stelle del cielo. Come nascono queste espressioni? Sono il frutto di una ricerca oppure vengono da sé?

Mi vengono spontanee perché sono una persona curiosa e osservo tutto quello che mi circonda. In quel passo descrivo qualcosa di inaspettato. Mi vidi avvolto in una sfera fatta di stelle e, sotto di me, le stelle si duplicavano nei puntini d’argento prodotti dai pesci. C’era un silenzio assoluto, neanche un’onda, niente vento. Era come quando ti colpisce un fulmine, un momento di illuminazione totale. Sono questi momenti di illuminazione assoluta che cerco di rendere accessibili ai miei lettori e anche di esprimere nei miei film.

Quand’è nato questo tuo amore per la parola poetica?

Mi sono sempre considerato un poeta. Ho sempre saputo di essere poeta così come sapevo di dover fare film e creare una forma cinematografica che non era ancora abbastanza diffusa, che avesse più profondità, che cogliesse il vero e ci portasse vicino ai nostri sogni più febbrili, al cuore dell’esistenza.

Erano accadute due cose nella mia vita. La prima avvenne quando avevo circa quindici anni e, naturalmente, allora nessuno voleva produrre i miei film. Perciò decisi di diventare il produttore di me stesso. E poi, quando avevo qualche anno di più, inviai due chili e mezzo di manoscritti a una prestigiosa casa editrice tedesca. Tre settimane dopo tornarono indietro con la consueta lettera di rifiuto. Mi dissi: «Non mi metterò certo a spedirli alle prossime venticinque case editrici» e dunque fondai io una casa editrice, con la quale pubblicai i miei primi tre libri.

Più avanti, quando iniziarono a vendere bene, tirai 5mila copie per ciascun volume. Erano libri fuori mercato che non si vendevano in libreria. Ogni volta in cui un mio film veniva proiettato in una certa città, ci andavo in automobile e mi portavo dietro 300/400 copie di uno di questi libri. Erano molto belli, con magnifiche copertine cartonate.

Leggendo questo passo mi è venuto in mente un tuo personaggio del tuo film Cuore di vetro (1976), un profeta che vede cose distanti e invisibili, e si esprime in modi analoghi a quelli di questo tuo testo letterario.

Si tratta di un chiaroveggente realmente esistito in Baviera, alla fine del Diciottesimo secolo, famoso per avere predetto la fine del mondo, un po’ come Nostradamus. Quando ne conobbi la storia fu per me una specie di rivelazione. Perciò dovevo guardare con i suoi occhi, dovevo narrare una storia, la vicenda di un villaggio che cade preda di una follia collettiva, come in trance. Personaggi come quel bovaro e profeta bavarese mi sono molto cari, naturalmente. Non dico di possedere doti profetiche. Ma talvolta vedo molto chiaramente cose all’orizzonte che altri non percepiscono e che io sento di dover esprimere.

L’immaginario è molto presente in Cuore di vetro, così come in altri tuoi film. Al contempo quel chiaroveggente è molto loquace. Seduto fra le sue mucche egli ripete le parole «io vedo, io vedo». E questa ripetizione verbale fa presagire le cose fantastiche che poi vedremo sullo schermo. Quanto importante è per te la potenza illusoria delle parole?

In quel film c’è una sorta di discorso ipnotico che quasi induce una trance. Nel mio nuovo libro che sta per uscire, Jeder für sich und Gott gegen alle (Ognuno per sé e Dio contro tutti, Feltrinelli), e da cui è tratto il passo che stiamo commentando, c’è un capitolo intitolato “Ipnosi”, in cui spiego come tutti gli attori di Cuore di vetro recitassero sotto ipnosi. Erano caduti in una trance così profonda che potevano aprire gli occhi senza uscire da quella condizione estatica. L’unico personaggio che non recitava sotto ipnosi era proprio Hias, il profeta, perché lui è un chiaroveggente, colui che vede le cose con chiarezza.

Anche quando recito i commenti ai miei film-documentari conservo un po’ di questa qualità ipnotica del discorso. In Ognuno per sé e Dio contro tutti e anche in altri libri, come Das Dämmern der Welt (Il crepuscolo del mondo, Feltrinelli, 2021), le parole vogliono evocare una strana profondità ipnotica. Alla fine del Crepuscolo ci sono delle immagini ma allo stesso tempo si entra in una dimensione in cui quelle stesse immagini svaniscono, ed è come se il mondo si dissolvesse nelle parole, per così dire.

Il titolo di questo tuo ultimo libro era già stato quello di un tuo film del 1974, su Kaspar Hauser.

Sì, anche se non si tratta di un riferimento diretto al film. All’inizio del libro spiego in premessa il senso di questo titolo, che già avevo provato a usare appunto nel film su Kaspar Hauser ma che allora non era stato capito. Ora cerco di dare a quel titolo, che ritengo meraviglioso, una seconda possibilità di essere compreso davvero. Il titolo vuole anche alludere a una profonda solitudine, di cui ho fatto esperienza. Anche se sono circondato da molte persone, dalla mia famiglia, dai collaboratori, dagli amici, proprio dentro a questa moltitudine la solitudine talvolta può essere ancor più radicale.

È la solitudine tipica di personaggi come Kaspar Hauser: persone che hanno una logica tutta loro, una logica perfetta che tuttavia li mette ai margini della società o del senso comune. Si tratta anche di una tua caratteristica personale?

Non farei dei confronti espliciti fra i miei personaggi e la mia persona; c’è sempre una distanza tra loro e me. Diciamo che fanno parte della mia famiglia ma non mi rappresentano direttamente.

Torniamo ancora alla potenza del linguaggio sopra evocata. Qual è il tuo rapporto con la lingua della poesia?

Per me la poesia possiede diverse sfaccettature. Esiste un lato attivo, per così dire, della poesia. Per esempio, quando scrivo una sceneggiatura, leggo poesie per ottenere una condizione di parossismo. Leggo le Georgiche di Virgilio, o poesie cinesi, o la saga islandese Edda, o Hölderlin, finché non divento quasi paonazzo a causa dell’energia accumulata. Questa è una parte del mio amore per la poesia. La poesia ha inoltre un significato molto profondo per la mia vita. Leggo anche testi in prosa, naturalmente, ma la poesia in particolare è profondamente radicata nella lingua. Non è qualcosa che si possa imparare né insegnare.

Nessuno ti legittima a comporre poesia: lo fai da te se ti riesce. Ebbene, scrivere è proprio ciò che ho sempre fatto e di conseguenza ho pubblicato libri molto presto, per esempio Vom Gehen im Eis (Sentieri nel ghiaccio, 1978). Tutto quello che ho scritto è derivato da un’esperienza fisica reale. Non sono il tipo di scrittore alla Proust che per anni giace a lettone detta alla governante i suoi capolavori, che nascono dalla sua memoria. Al contrario, vivo nel mondo là fuori e ne faccio un’esperienza fisica. Parte di questa esperienza è viaggiare a piedi, che è il mio modo più profondo di esperire il mondo. Sentieri nel ghiaccio è il frutto di un mio viaggio a piedi da Monaco di Baviera e Parigi nel 1974, quando andai a far visita alla scrittrice e studiosa di cinema Lotte Eisner, che era gravemente malata.

Tra i poeti che hai menzionato c'è il Virgilio delle Georgiche, il che è sorprendente perché non si tratta a prima vista di una composizione tipicamente visionaria o tale da indurre un parossismo estatico.

Mi sono avvicinato alle Georgiche dopo aver letto l’Eneide negli anni di scuola. Ho sempre avuto la sensazione che l’Eneide sia certamente un grande poema epico ma che dipenda da un programma, l’esaltazione dell’imminente impero romano e del suo ordine, sostenuto dall’ordine degli dei e delle potenze celesti. Anche nelle Georgiche gli dei sono benigni e presiedono all’agricoltura, alla coltivazione, eccetera, ma in quel poema all’improvviso appaiono degli squarci profondi sulla realtà, in cui Virgilio è vicinissimo all’essenza della verità, senza mai essere veramente bucolico o romantico.

Quando per esempio descrive la peste che penetra nelle stalle, l’orrore è puro. Anzi, Virgilio non la descrive bensì la nomina. Così come nomina la magnificenza del frutteto durante la potatura dei meli; così nomina la gloria dell’alveare. È questo suo nominare la realtà ciò che mi colpisce delle Georgiche.

Anche nel citato Crepuscolo del mondo, che è un testo in prosa, usi una lingua poetica e, al contempo, precisa e persino tecnica. La vicenda narrata è insieme strana, singolare e universale. Il suo protagonista, il soldato Hiroo Onoda, è un personaggio tipico di tante tue opere, un uomo che sparisce dal mondo in base alla decisione di non arrendersi al mondo, un uomo che vede dentro e oltre le cose e allo stesso tempo non riesce a capire il senso e il corso della storia.

Hiroo Onoda è stato l’ultimo soldato giapponese ad arrendersi, ventinove anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ma la sua condotta non derivava da una decisione privata, perché aveva ricevuto ordini ben precisi di tenere quell’avamposto in una piccola isola delle Filippine conquistata dai giapponesi. Aveva ricevuto un ordine solenne e gli era rimasto fedele, ma in un modo per nulla servile.

L’aspetto straordinario della sua vicenda e della sua persona è che Onoda combattè una guerra fittizia. La guerra non esisteva più nella realtà eppure ogni dettaglio che egli osservava mentre era nascosto nella giungla divenne per lui prova del fatto che la guerra stava continuando. Per esempio, controllava attentamente i volantini lanciati dagli aerei che invitavano i soldati ad arrendersi perché la guerra era finita e, dopo aver scoperto un errore di scrittura in un ideogramma, si convinse che i volantini erano dei falsi creati dalla Cia.

La vita di Onoda sembra basata sul rifiuto: il rifiuto di arrendersi, di dubitare di quegli indizi che lo confermavano nei suoi convincimenti e di venire a patti con il mondo che andava avanti senza di lui, fino poi al riconoscimento finale del suo errore, che ribaltò completamente tutte le sue credenze. Il libro stesso sembra poi ispirarsi al tema del rifiuto. E ha la sua origine in un tuo personale rifiuto.

Si tratta di una circostanza imbarazzante ma che devo spiegare. Nel 1997 avevo messo in scena, a Tokyo, una nuova opera di un compositore giapponese contemporaneo, Shigeaki Saegusa, ottenendo un ampio riconoscimento sui media. Un giorno Saegusa si presentò trafelato alla tavola a cui stavo cenando assieme a una decina di collaboratori, per dirmi che l’imperatore mi aveva fatto mandare un invito a parlargli in udienza privata.

Senza nemmeno pensarci su, dissi che non avrei potuto parlare con l’imperatore se non attraverso frasi fatte e formali e questo non era il modo in cui desideravo conversare con qualcuno. Commisi un passo falso, il più grave che si possa fare in Giappone. Mi resi subito conto che mai avrei dovuto dire quelle parole, perché tutti i commensali restarono a bocca aperta, sbigottiti. Ad un certo punto qualcuno esclamò: «Ma allora Lei chi vorrebbe incontrare?». Risposi: «Hiroo Onoda». Una settimana dopo incontrai Onoda.

Si potrebbe dire che è come se quell’imperdonabile passo falso avesse subito prodotto un desiderio di espiazione? In altre parole, è come se poi tu avessi accettato quell’invito ma in senso ampio, spostando tua attenzione su un uomo, Onoda, che ti sembrava rappresentativo di tutta la cultura giapponese?

In un certo senso, sì. Dopo che Onoda si era finalmente arreso, quando egli atterrò in Giappone il cuore di una nazione intera si fermò per un minuto intero. Per un istante un intero paese fu come congiunto con quell’uomo. Così mi venne riferito, e credo a quanto mi è stato detto. Talvolta esistono situazioni e momenti che uniscono tutti in questo modo.

Che cosa ti colpì di più di Onoda?

Direi la sua dignità, una dignità assoluta. Mi colpì il modo in cui egli ammise che per ventinove anni aveva continuato a combattere invano, che per così tanto tempo aveva vissuto un’esistenza inventata, una sorta di sogno febbrile che si era costruito da sé. La dignità con cui aveva riconosciuto tutto questo faceva davvero impressione. Onoda aveva riconosciuto le sue fantasie ma anche affrontato la realtà, che era una realtà pericolosa se pensiamo che Onoda era sopravvissuto a ben 111 imboscate e che, due anni prima di arrendersi, aveva perso i due compagni che si erano aggregati a lui, uccisi uno dopo l’altro. Per quasi due anni aveva vissuto in totale solitudine.

Che tipo di dignità era quella di Onoda, la dignità del perdente, del combattente? Che tipo di personalità emerge dalla sua vicenda?

Non parlerei di vincitori o perdenti, termini che avrebbero senso se Onoda avesse combattuto in una guerra reale. Invece Onoda aveva partecipato a una guerra fittizia che naturalmente non aveva vinto, ma nemmeno perso. Aveva attraversato quella guerra fittizia con grande senso del dovere, che egli capiva perfettamente. E poiché questo dovere non poteva applicarsi a battaglie che mai avvennerro, riguardò la sua vita: la vita nient’altro che la vita. È questo tipo di decisione che io racconto nei miei testi e nei miei film.

Dunque che cos’è la dignità per te?

Non sono in grado di darne una definizione precisa. Posso dire che quando ho incontrato Onoda, un omino magro e tutt’altro che appariscente, già da molto lontano si poteva capire che possedeva qualcosa di speciale, che emanava una luce fatta di grande dignità.

Talvolta ci sono dei personaggi nei miei film che posseggono questa qualità irradiare la propria dignità, come Kaspar Hauser, per esempio, il quale possiede una profonda, assoluta, radicale dignità umana che si percepisce immediatamente. Ecco, incontrare una persona come Onoda e poter rappresentare la sua dignità con le mie parole è stato un grande privilegio, scaturito da un monumentale passo falso.


L’intervista a Werner Herzog si basa sulla conversazione che si è svolta al festival letterario "Incroci di civiltà” il 28 maggio 2022 fra il regista e Flavio Gregori, direttore del festival. È stata rivista dall’intervistatore e concordata con Herzog.

Il brano “Stelle, il mare” è tratto dal libro di Herzog, “Ognuno per sé, Dio contro tutti”, in prossima uscita per la casa editrice Feltrinelli nell’autunno 2022. La traduzione, per gentile concessione dell'autore, è a cura dello staff di Incroci di civiltà ©

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