L’impegno nuoce gravemente alla letteratura: si potrebbe riassumere così l’appassionato pamphlet di Walter Siti, da poco uscito per Rizzoli, che, già dal titolo, rifiutando edulcorazioni e perifrasi, recita dritto: Contro l’impegno. Un testo composito (raccoglie una serie di articoli usciti nel corso degli ultimi anni e rimaneggiati per l’occasione) che sceglie di giocare – consapevolmente – la carta retorica della reazione. A causa delle «troppo facili e scontate certezze» morali, il presente letterario è (più o meno) corrotto, tutto il buono ci sta alle spalle, ed è lì che dovremmo tornare: «Vedevo la letteratura (a cui ho dedicato la mia vita) impigliata in un ingranaggio che non si può fermare, simile al motore che strozzò attraverso una sciarpa di seta la povera Isadora Duncan».

La posizione di Siti è netta: l’impegno semplificante degli scrittori che vogliono curare, aggiustare il mondo – e cita, per l’Italia, Roberto Saviano, Michela Murgia, Gianrico Carofiglio – ha infettato le scritture più in voga oggi, che mirano a propagare buoni sentimenti a scapito della complessità formale e stilistica. Compito della letteratura, ammonisce però Siti, non è quello di “far del bene”: questa deve piuttosto portarci giù nel torbido delle nostre contraddizioni, al cuore dell’ambiguità costitutiva dell’umano.

La letteratura è una forma di conoscenza specifica, autonoma, e non uno strumento di conferma/diffusione per valori che già abbiamo chiaro di voler difendere. Immettere in essa convinzioni assiologiche univoche significa sacrificarla, svilirla, smettere di fare letteratura. Scrivi Siti nell’introduzione: «La versione oggi prevalente dell’engagement punta su un contenutismo tanto orientato sulla cronaca quanto angusto, con temi che non è difficile elencare: migranti, vari tipi di diversità, malattie rare, orgoglio femminile, olocausto, bambini in guerra, insegnanti eroici, giornalisti o avvocati in lotta col Potere, criminalità organizzata, minoranze etniche».

Contrapposizioni

Ora, il tema esiste eccome: il libro coglie un punto importante e attuale, anche e forse soprattutto per chi sente di essere al crocevia tra i due regni che Siti tenta di separare, l’invenzione linguistica e la vicinanza al mondo della vita pratica. Se un autore è sensibile agli effetti del potere sulle vite storicamente marginalizzate è di certo vero che può avvertire il rischio di restare imbrigliato in parole sempre uguali e ragionamenti fissi, in posture mentali subdolamente simili a gabbie. È quindi prezioso l’invito a non adagiarsi, a continuare a immaginare e sperimentare, ma in queste righe vorrei provare a riflettere sul fatto che da qui a contrapporre radicalmente letteratura e impegno il passo non è così scontato: la preoccupazione di Siti mi pare in buona parte infondata.

Il primo problema della direzione tracciata dall’autore arriva dall’accettare (e incentivare) un discorso per dicotomie, contrapposizioni pro/contro, discorso oggi pervasivo. Uno dei mali del momento che stiamo attraversando, che impedisce il confronto risolvendo tutto con l’opposizione senza rimedio, è proprio la tendenza, in occasione di ogni nuovo episodio o notizia, a portarsi sulla difensiva. Qualcosa che ha anche, come vediamo bene da ciò che scorre nelle nostre bacheche, connotati generazionali: i padri (anche progressisti) irridono l’impegno dei figli, suggeriscono loro di farsi una risata o, come nel caso di Siti, di scrivere bene al posto che scrivere per il bene, ponendo in antitesi le due dimensioni.

Una mossa che risulta piuttosto problematica del ragionamento di Contro l’impegno è data dal fatto che Siti fornisce la sua definizione di letteratura – «L’arte è un bastian contrario che spira sempre dal lato sbagliato; è ambivalente, dà ragione a chi ha torto e torto a chi ha ragione», fare letteratura significa «rovistare con tecniche sopraffine e subdole là dove abbiamo nascosto la nostra spazzatura più segreta; solo quando fa male, la letteratura può essere davvero utile» – e la usa per delegittimare libri che hanno anche altre vocazioni, o che mischiano varie vocazioni, che ibridano la letteratura con istanze non letterarie. Invertendo la formulazione classica del rasoio di Occam, verrebbe da rispondere: gli enti (in questo caso: i libri) non devono essere assimilati, ridotti, più del necessario. Ovvero: cerchiamo di non perdere il senso delle differenze, differenze che possono tracciare forse più uno spettro, una scala, che due schieramenti opposti e separati da un fossato inquietante.

L’impegno in letteratura

Prendendosela (a tratti, va detto, bonariamente) con Saviano, Murgia e Carofiglio, Siti si sceglie dei bersagli polemici sui generis, dato che si tratta di autori ibridi, nei quali l’esperienza letteraria si è unita ad altro, o è stata sostituita da altro. Quindi l’impressione è che Siti, con la scusa formale del “bene in letteratura”, intenda criticare in generale l’impegno per il bene che si avvale delle parole, ovvero la militanza, l’attivismo culturale e politico di alcune figure fortemente mediatiche. Prende di mira quelle e tralascia di osservare davvero la scena della narrativa contemporanea, là dove esistono invece molti romanzi che, narrando i margini, non “salvano” nessuno e anzi si accaniscono perfino sadicamente sui protagonisti o ne mettono in luce la natura oscura (e penso a Una vita come tante di Hanya Yanagihara o Le transizioni di Pajtim Statovci o, per venire all’Italia, a Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti e L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito, che mette in scena una giovane donna ai margini ma pervasa da impulsi distruttivi).

La letteratura può essere molte cose ma oggi più che mai mi pare diffusa una certa smania normativa, classificatoria – in risposta forse al complicarsi (qualcuno direbbe imbrattarsi) del territorio editoriale. Una pulsione normativa che non è presente, mi pare, in misura così intensa in altri ambienti culturali e creativi (penso alle arti visive, al cinema e alla musica mainstream) e che è forse frutto di una certa storica ossessione per il canone (degno/non degno), il quale peraltro ancora non ha fatto adeguatamente i conti con le sue iniquità (come racconta bene Luca Starita nel suo Canone ambiguo, in riferimento all’universo queer).

In questo Siti manifesta una vocazione per così dire “platonica”, e il suo tentativo di mantenere distinte – retino alla mano – le acque confuse della contemporaneità, suscita nel lettore reazioni diverse: a tratti emoziona per l’amore che rivela verso la letteratura, ma in più punti anche instilla un certo rammarico, perché sembra riporre scarsa fiducia nella capacità di sopravvivenza della narrativa stessa (a differenza di Alessandro Baricco, che Siti definisce “irenico” per il suo sguardo verso la mutazione antropologica generata dal digitale). La sensazione, al contrario, è che la letteratura contemporanea, anche tenendo buono il “purismo” di Siti, non se la passi affatto così male, e gli esordi italiani degli ultimi anni – penso ad Alessio Forgione, Andrea Donaera, Claudia Petrucci, Mattia Insolia, Alice Urciolo, Livia Franchini, Giovanni Bitteto, Valentina Maini, Graziano Gala e la lista può continuare a lungo – lo dimostrano. Walter Siti dice: la letteratura oggi è diventata questo e quest’altro, citando storture e derive, quando la letteratura oggi è semmai anche questo e quest’altro, è anche storytelling sociale, biografismo pedagogico, ma ciò che “c’era prima” continua a esistere, a essere letto e scritto.

Rispetto alla produzione che lui prende di mira – definita “neoimpegno” – io credo poi che questa abbia invece il suo senso e la sua dignità: in un paese ancora così conservatore e populista come il nostro servono anche libri, più o meno letterari, che provino a parlare a molti, ai lettori non fortissimi e ai più giovani (uno dei libri di Murgia che critica è un libro per ragazzi), per così dire sporcandosi le mani, scendendo in campo e operando fuori da tradizioni consolidate. Credo sia un bene che esista una letteratura interessata a coltivare l’impegno ibridandosi con altre forme comunicative (giornalismo, divulgazione, televisione), una letteratura popolare che si confonda con altro (attivismo, militanza) in grado di avvalersi anche degli strumenti della narrazione per rivendicare punti di vista che nella società sono ancora inascoltati, impotenti, sconfitti.

Parlare del male

Inutile dire, data la caratura della penna di Siti, che il libro presenta passaggi molto belli, e penso soprattutto alle parti sulla verità letteraria, tra le più felici della raccolta, o a quelle, esilaranti, sui talk politici e i reality show, nei quali l’autore rivela – a sorpresa – un certo moralismo di fondo. Toccanti sono anche le pagine dedicate al dissidio – reale o immaginario – dell’uomo Roberto Saviano rispetto all’autore/personaggio pubblico: «La mia paura è che Saviano, essendosi tirato indietro rispetto a quel che la letteratura gli chiedeva (l’abisso che pretendeva di guardare dentro di lui), se ne sia poi formato un simulacro di minori pretese, un surrogato pronto a fare l’attendente di cinema e tivù». Preziosi sono anche i vari passaggi autobiografici del saggio, come quello in cui Siti svela forse la vera radice dell’intero libro e che riprendo in chiusura di quest’articolo. Ma vorrei tornare per un momento alla definizione di letteratura che ricorre, variata, in tutto il saggio, ovvero all’idea che questa primariamente debba mostrare il cuore nero dell’essere umano, il pozzo miasmatico, lo schifo.

È un pensiero che emerge spesso da chi critica le nuove sensibilità in circolo oggi: la letteratura deve parlare del male. Punto. Questa predilezione mi pare non tenga conto di una serie di cose, tra cui la fisionomia del nostro tempo: oggi il male l’abbiamo sotto gli occhi di continuo attraverso i social, che sono (anche) il luogo del male gratuito, dell’accanimento impietoso, della furia linguistica. Di recente Claudia Durastanti in un tweet ha scritto: «Questa retorica di dover capire il male, approfondire il male, evitare la morale per stare dentro al male, sta diventando il costrutto più conservatore e moralista che io riesca a immaginare», aggiungendo che oggi è forse il bene a essere più ricco di possibilità immaginative, in quanto meno inflazionato (e aggiungerei io, mutuando il nucleo di certe pagine di Simone Weil, più innaturale). Il male accende, eccita gli animi, e la cronaca nera ce lo insegna. Quanto sarebbe rivoluzionario un romanzo che riuscisse a parlare in modo nuovo e affascinante, poniamo, della gioia o dell’interesse non strumentale per l’altro?

I romanzi riusciti, dice Siti, condensano opposte verità: vero, ma questa, verrebbe da dire, è una possibile definizione, una delle diverse possibili. Se penso ai libri che ho amato, ad esempio, non è sempre così: la letteratura può anche esplorare una condizione, può tentare di dire qualcosa della struttura eidetica di un’esperienza, come accade con il lutto ne L’anno del pensiero magico di Joan Didion, oppure un romanzo può provare ad ampliare l’immaginario comune, dedicandosi a figure o temi che nella visione condivisa dai più ricevono un certo trattamento, tentando di mettere in luce un volto diverso di quel fenomeno specifico. Insomma, che l’impegno, di per sé, renda cattiva la letteratura è un assunto soggettivo: Siti mostra la cattiva letteratura “buonista”, ma esiste anche la cattiva letteratura senza impegno, le brutte pagine che non possono vantare – in ragione della propria esistenza – nemmeno la vocazione politica. Così come la sinergia di afflato sociale e risultati estetici è qualcosa che di continuo accade (cito solo, per stare nei pressi dei nostri anni, i romanzi di Whitehead o Ho fatto la spia di Joyce Carol Oates o Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo).

Anche rispetto al presunto culto contemporaneo delle vittime, al pervasivo vittimismo, mi pare sia il caso di chiarire un poco lo scenario. Viviamo in un’epoca in cui le parole slittano di significato a causa del dibattito sclerotizzato: il termine “vittimismo”, dall’indicare l’atteggiamento di chi tenta di spacciarsi per vittima, è diventato un modo per stigmatizzare il racconto di chi vittima – in certe occasioni, per certi aspetti – lo è stato davvero. Le vittime esistono, i rapporti e gli abusi di potere, i bias cognitivi, la pigrizia morale, la chiusura mentale esistono, e qualcuno può voler raccontare gli effetti che un ordine valoriale e simbolico dominante ha avuto o ha su singole vite o gruppi. Certo, lo si può fare in molti modi, con gradiente letterario diverso, ma quelli che si schierano energicamente per il solo, esclusivo connubio male-letteratura spesso sembrano solo voler salvare gli apparati estetici e linguistici a cui sono abituati, e che pescano dagli stessi copioni di sempre.

Va da sé che i buoni libri sperimenteranno nuovi linguaggi, un nuovo immaginario per esplorare queste esperienze, ma nell’ossessione anti-vittimistica montante credo ci sia il pericolo di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Anche perché il problema di odio, misoginia, omofobia, razzismo – parlando di opere prodotte oggi – è dato dal fatto che sono posture mentali che conosciamo già e in modo approfondito. Non stupiscono più, sono facili, a portata di mano, non sono sintomo di particolare libertà né tantomeno genio, checché ne dicano i paladini del politicamente scorretto. Così anche questo pare uno pseudo-problema, un tema che parla più di resistenze personali che di contraddizioni oggettive.

La confessione

Insomma, il pamphlet di Siti è soprattutto il distillato di una tensione tra l’autore e il nostro tempo, di una diffidenza basata soprattutto sulle passioni e le antipatie poetiche dell’autore: lo si vede bene quando Siti pare rallegrarsi del ritrovato nichilismo di Franco Arminio, le cui parole, mentre cercano di curare, vengono raggiunte dall’ «obiezione del negativo» e dalla «forza del no» che risorge da ogni lato. Per Siti la letteratura è contatto con la contraddizione dolorosa, tuffo nel male, persino nello sfacelo, e questo ci porta al cuore dell’ordo amoris autorale, in quello che è il punto più interessante ed emozionante del saggio.

Verso la fine tutto viene investito di una luce nuova attraverso una (geniale) confessione di inadeguatezza: «Forse semplicemente sono obsoleto con la mia fiducia nella letteratura solo scritta. Ammetto di non essere particolarmente lucido quando si tratta di avere a che fare col Bene e col Male (…). Un lontano e insanabile senso di non appartenenza mi induce a una neutra e quasi compiaciuta contemplazione del disastro: sono sempre scettico nei confronti di chi agisce, costruisce, lotta, pur riconoscendolo migliore di me. Uso il fastidio verso la retorica come pretesto del mio disfattismo; so di essere vissuto in una bolla che mi ha preservato dalle ferite ma anche da una calda partecipazione alle emozioni comuni». Un explicit pieno di coraggio e radicale offerta di sé, due qualità che contraddistinguono, nella fiction come nella non fiction, nelle scritture che lottano così come in quelle che contemplano – spero Siti sarà d’accordo –, le grandi opere letterarie.

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