- Perderai una persona cara. Ti mancherà moltissimo. Non è proprio della tua famiglia. È la profezia che mi ha fatto nel 2020 una medium torinese
- Sono tornata a casa distrutta e senza sapere cosa stavo facendo, ho iniziato a scrivere un romanzo proprio a partire da questa scena. La profezia è stata il primo seme
- La medium mi ha detto che la persona che avrei perso forse era già morta. Ho passato in rassegna i miei defunti e ho chiesto a mio padre di indicarmi dove fosse la tomba del nonno. Non l’ho mai trovata
Il 2020 è stato un anno mostruoso, nel senso di anomalo, eccezionale, deforme; per tutti penso.
Mi sono ammalata e sono guarita, la mia migliore amica stessa storia anzi peggio, mentre ai miei occhi il mondo intero iniziava a perdere senso. E non per ragioni private o contingenti.
Il misterioso virus, protagonista di quei mesi, per me ha avuto un senso anche “ontologico”; a un certo punto l’ho visto come un codice genetico che poteva colpire non solo il corpo (e annientarlo) ma anche lo sguardo.
Senza deciderlo, ho iniziato a dubitare di tutto, in modo radicale. E all’improvviso non mi sentivo più in grado di distinguere il vero dal falso ma soprattutto ciò che è vivo da ciò che non lo è più (o non lo è mai stato).
Non fiori ma opere di bene, il mio romanzo per Marsilio, è nato insieme a questa mia incapacità, a questa mancanza.
Da sempre, oltre alla morte (vivere sapendo di morire è una vera fregatura) temo maghi, medium, divinazioni e previsioni del futuro (non bisogna mai scavalcarlo), carte spiriti, fantasmi eccetera eccetera. La dimensione dell’inconsistenza va lasciata in pace, ma è cosa nota che più la ignori e più ti viene intorno.
Una profezia a Torino
Svariati anni fa un mio fidanzato mi parlò di Ada, “medium” torinese mitologica e mitica che aveva salvato la vita al suo migliore amico. Sarebbe morto di eroina, non fosse stato per lei, e invece ora campa con tre figli e la stessa moglie da sempre. Ma purtroppo essere ricevuti da Ada era ed è impresa quasi impossibile. A causa della mia rovinosa curiosità, dissi al mio fidanzato di parlare con l’amico per organizzarmi una visita, senza scopo, senza una domanda da farle. Tre anni dopo, nell’estate del 2020 appunto, l’amico riappare: Ada mi aspettava a Torino all’indirizzo x all’ora y.
Ho fatto di tutto per non andare. Mi pareva folle, e poi era una richiesta antica, non mi interessava più. Ho provato a non svegliarmi in tempo, ho inscenato malesseri e invocato ritardi e treni cancellati; ma dire di no alla vita è sbagliato, e quindi controvoglia ho preso il treno con il mio cane e con l’idea di chiederle quale era il nuovo libro che dovevo scrivere. Insomma, da lei volevo una storia.
Torino era vuota e inquietante, ma mi accoglieva a braccia aperte lasciandomi camminare nel centro spaccato delle sue strade. Tralascio qui le sembianze di Ada, la sua voce, la villetta liberty dove riceveva, l’età imperscrutabile, la dimensione delle carte rovinatissime con cui divinava.
Quando mi ha chiesto di farle una domanda, non ho avuto il coraggio di dirle la verità. Ho quindi aspettato con strafottenza che fosse lei a dirmi quello che volevo sapere. Se tutto sai, dimostrami che tutto sai.
A contare è l’epilogo, la sua frase bestiale, la profezia che ha scatenato questo romanzo: perderai una persona cara. Ti mancherà moltissimo. Non è proprio della tua famiglia.
Ho iniziato a piangere; pensavo si riferisse alla mia amica malata di linfoma. Lei si è innervosita, piangere è da donnette! E poi: ancora a piangere? La morte non esiste. E ancora: magari è già morta questa persona, dipende dal punto in cui stai guardando la storia. Se ti sposti nel tempo, come fosse un asse, presente?
E allora questo morto poteva anche essere già morto, se ogni tempo coesiste con ogni tempo.
Seconda morte
Torno a casa distrutta, non racconto niente a nessuno, inizio a scrivere un romanzo senza sapere di scrivere questo romanzo, proprio a partire dalla scena con Ada. Il primo seme, reale.
Ho subito ossessivamente in rassegna i morti della mia vita, in questa prospettiva insensata (che però via via assumeva senso) in cui anche un “già morto” potrebbe rimorire. E dopo qualche settimana di altre sparizioni e segni e segnali, ho pensato a mio nonno, il fantasma di tutti i fantasmi, il morto che poteva rimorire.
Cosa sapevo di lui? Niente, praticamente. Neanche il nome era certo: Raimond, Raimondas, Raimoundas, Raimondo. Sapevo però che era lituano, morto nel 1950 troppo giovane – quasi fosse una colpa – che era ebreo, ma che era diventato cattolico per salvarsi la vita nella Roma fine anni Trenta, e infine che non poteva fare il medico in quanto straniero e per questo lavorava di nascosto in un ospedale grazie a un amico.
Infine che era sepolto a Roma nella tomba di famiglia della moglie, lei invece campata oltre cent’anni e sepolta altrove con il secondo marito.
Chiamo mio padre e gli chiedo dove è la tomba di suo padre. E lui: era dell’ariete. Io ho insistito: dove sta? E ancora, lui: dove deve stare, al cimitero, al Verano. Volevo precisione e lui non era preciso. La domanda certo non era normale, ma mio padre sono anni che mi conosce e si aspetta di tutto da me (questo era niente, considerando che mi sono inventata una gemella a ventiquattro anni). Finché mi dice di contare x tombe a partire dall’ingresso principale, sta là.
E così il giorno dopo – che casualmente è anche il giorno della morte di mio nonno – decido per la prima volta nella mia vita di andare al Verano, il cimitero monumentale di Roma. Dopo un po’ di turismo e incontri con maratoneti, prostitute e occupanti di cappelle divelte, seguo le istruzioni di mio padre ma la tomba non c’è. Scelgo di non chiamarlo, non voglio angosciarlo e decido di scrivere questo romanzo.
Passa il tempo, mesi, anzi anni, e niente, la tomba non si trova. Tutti intorno a me sono pieni di idee e suggerimenti mentre io non so quale punto di vista sia quello giusto né di quale memoria fidarmi: se di quella emotiva di mio padre o di quella burocratica dei documenti pieni di vizi di forma, incongruenze, cognomi mal scritti e nomi mancanti. Alla fine ho preferito quella desiderata, di memoria, e così dare finalmente le spalle al passato e proprio per questo riuscire a guardarlo.
L’unica cosa che oggi vedo con chiarezza di questo periodo è il suo metodo.
Tra vivi e fantasmi
Tutto nasce da un fatto: la profezia di Ada. Ho iniziato a scriverne, ed è come se avessi piantato un seme in un altrove di invenzione. Scrivendo quel seme ha germogliato e la storia è andata avanti anche se l’albero, i suoi fiori e frutti sono nati ed esplosi nella realtà, nella vita… per poi ricadere misteriosamente anche dall’altra parte, nell’altro regno… In uno scambio permanente tra realtà e fiction, tra vivi e fantasmi, tra esperienza e sue ipotesi.
Proprio come la mia vicina di casa che mi chiama dal terrazzo: Elì ho preso un banco di fiori al Verano diventando così personaggio centrale della storia, e suo marito che improvvisamente abbandona l’ingrosso di intimo per fare la manutenzione delle lapidi (del Verano). O mio padre che riceve il passaporto lituano. E ancora quando il libro è andato in stampa e la vicina mi ha convocato alla finestra dicendomi che basta, troppa fatica, il banco l’ha affittato, meglio poco al mese che uscire di casa alle cinque di mattina. Il libro è finito sul serio, ho pensato.
Oggi mi sono svegliata con una nevralgia bestiale alla spalla. Sono andata da una fisioterapista che mi ha raccontato che in soli sei mesi ha perso la madre e ora il suo scopo è vivere bene. Le ho chiesto: che significa vivere bene? E lei: Mangiare le cose che mi piacciono, dormire bene, andare in montagna e imparare a sciare. Le ho fatto notare che è pericoloso e lei: vivere è pericoloso, in sé. Non so perché, ma ho la sensazione che quest’incontro c’entri con questo romanzo.
Poi mi ha chiesto che cosa faccio nella vita, le ho detto solo una parte: scrivo. Cosa? Romanzi. Ah, allora tu sei immaginante! Parola sua, nuova, bellissima.
Non fiori ma opere di bene è uscito l’11 ottobre e sono paralizzata dalla sua venuta al mondo, perché è pieno di storie dimenticate e fantasmi e oblio. E mi chiedo se è giusto mettere luce nell’ombra (e viceversa, certo) e se mio nonno sarà contento o mi perseguiterà.
Se questo modo di fare e di scrivere – dunque anche di vivere – è leale nei confronti della realtà o la perverte, una contraffazione infernale e indecente che alla fine dovrò scontare in questo o in un altro universo.
Consapevole del fatto che si può sentire tutto, nello stesso momento e ovunque, e che la storia che mi ha offerto Ada è sempre stata mia.
Non fiori ma opere di bene (ottobre 2022, pp. 400, euro 19) è l’ultimo romanzo di Elisa Fuksas
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