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La provincia è il luogo del miracolo o della sciagura, quello in cui la lentezza costringe alla riflessione, al riparo da quella febbre del fare che Verga diceva a Capuana utile al continuare incessantemente a procedere senza rannicchiarsi su di sé.
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Anche la religione in provincia sembra risemantizzarsi, mescolare alle raccomandazioni dei libri sacri dettami altri più preziosi del dogma perché più consoni al posto e alle leggi che si abitano.
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La nostra preghiera è il lavoro, suggeriva Atzeni e sopravvive solo chi riesce, completa Gaia Giovagnoli, che nel suo Cos’hai nel sangue (Nottetempo) e nella sua Coragrotta proietta un luogo capace di una religiosità e di regole altre.
A volte mi perdo nelle pubblicità televisive che promettono di unire l’Italia a colpi di lampi e motociclette tenendo insieme centro e bordi, scavando così tanta terra e impiantando così tanta fibra da permettere a nessuno di sentirsi solo, sistemando le cose come Garibaldi e, a cuore aperto, anche meglio.
Mi fa impazzire il pensiero che un abitante di Depressa, piccolissimo centro nel cuore delle Puglie, possa trovarsi disperso nel centro di Bologna grazie alle mappe visuali di un programma con Dalla in filodiffusione per la stanza e alberghi prenotabili a un batter di tastiera: sono questi i miracoli del cavo di rame, ché il cavo bello, quello ottico delle pubblicità, nel paesino non sempre ci arriva, e allora – ecco che finisce l’unità, che torna la disuguaglianza – ci vuole l’ausilio materiale di un suo vecchio cugino.
Tuttavia poi l’abitante di Depressa – che mi perdonerà, lo spero, se disturbato nella stanza in cui operava – dovrà uscire di casa, e alla porta, di Bologna, nemmeno la cartolina. Ci vorrà un pullman, poi un trenino, infine un aereo e tre ore, quattro ore, cinque ore, se le coincidenze non sono propizie: tutti momenti in cui pensare, tutti pensieri, per dirla con Benni, che ti si incastrano nella gola.
Miracolo o sciagura
Il rame ripara tante cose: nel mio paese i contadini lo usano per curare gli ulivi. Il tempo, però, non si aggiusta a colpi di rame, perché tutta quella gomma e tutte quelle rotaie e quelle attese e quel freddo segnano inevitabilmente distanze inarrivabili al cavo più volenteroso, ritardi che diventano epoche e trascinano luoghi in momenti altri, inconoscibili allo straniero. Marino Moretti, nelle stazioni, ci ha perso una sorella: qualcun altro ci ha smarrito la coscienza.
La provincia è il luogo del miracolo o della sciagura, quello in cui la lentezza costringe alla riflessione, al riparo da quella febbre del fare che Verga diceva a Capuana utile al continuare incessantemente a procedere senza rannicchiarsi su di sé.
Un morto – collettivamente percepito – a Milano può durare un blocco della metro. Un morto, nel mio paese, può scandire un anno intero, con tutti gli interrogativi del caso e con tutte le ombre lunghe di un ghénos fatto di famiglie che traballano, si scuciono e si perdono peggio dei Malavoglia alla casa del nespolo.
Le azioni del dolore
C’è tutta una letteratura che può venire in soccorso, a iniziare dalla fine del gioco, dalla salma e dal suo trattamento. Il cadavere, nei paesini, ha un altro peso, e non solo per la banda, il loculo cimiteriale – in basso, vi prego, ché chi resta ha difficoltà nel salire sulla scala – e la cerimonia: è la gestione del lutto, a fare la differenza.
Ce lo insegna, tra gli altri, Omar Di Monopoli, con le spoglie di un Livio Caraglia diviso in Brucia l’aria (Feltrinelli) tra il santo e l’impostore a seconda della bocca che ne pronunci il nome: in provincia, infatti, si muore cento volte per rivivere altrettante vite – ne parla Sergio Atzeni ne Il figlio di Bakunin (Sellerio), ne do umile testimonianza ricordando la dipartita di mio padre: devi fare come lui, diceva un condogliante, non devi mai prenderlo ad esempio, recitava un altro a tre strette di mano di distanza.
Il problema, al solito, è di chi resta, con le azioni del dolore da gestire in un modo non intimo ma sociale, perché il morto di paese è amico e conoscente di tutti prima che padre, figlio o marito di qualcuno. Figurarsi, poi, quando le bare si moltiplicano alla metà dell’anno: E muorte so’ assaie, recitava Eduardo, e allora il gioco si complica per diventare nascondino, nella speranza di non perdere nessuno, di dare a tutti la giusta gestazione, nella paura che poi il trapassato venga nei sogni della notte: la provincia non ha tempo né soldi per cure psicologiche e dello psicologo pure un poco si vergogna, in provincia il non elaborato si sconta in camera da letto.
Mi viene da pensare al Mengo rapiniano (Cronache dalle terre di Scarciafratta, minimum fax), un povero Cristo che si mette a disposizione di tanti Lazzari cercando di dare voce ai sommersi salvandoli: la casa di riposo diventa ufficio corrispondenze, il protagonista dattilografo, piccolo Bartleby chiamato a tenerne in vita il più possibile, dando giustizia a quelle piccole storie di fatti minimi troppo spesso cancellati nei testi ufficiali, ché nei paesini la vita dura foscolianamente finché è vivo il ricordo e per tenere in vita i cristiani, si dice da me, bisogna ‘mmantuarli, nominarli, perché la dimenticanza non condanni alla fine, quella vera: sono queste le monete sugli occhi che si usano nei luoghi lontani dal centro.
Questione di padri
A volte la questione diventa familiare o, peggio, capofamiliare: la provincia è stata sempre – purtroppo, tradisce chi scrive – questione di padri, muscolari e irrespirabili tantissime volte, schiacciati, loro per primi, da una mascolinità parafascista che non potesse tradire debolezze.
I buoni padri però ci sono, e ci sono stati, anche nelle retrovie, e il loro finire ha creato lacerazioni in quelli che, per richiesta sociale, avrebbero dovuto prenderne il posto: non posso non pensare alla figura paterna raccontata da Riccardo Frolloni (Corpo striato, Industria & Letteratura), essenza che colora prima e trascolora dopo le vie di un paesino, Sarnano, che al suo morire diventa inesplicabile, luogo di cimiteri con gli spazi occupati da riempire con azioni altre, di cambiamenti epocali caratterizzati dall’immediatezza di uno sbattere di porta: se papà è stanco / Dio è stanco, scrive l’autore, e raramente mi era capitato di trovare in un verso condensati almeno trent’anni di vita.
Se ne conviene, dunque, che la provincia sia il posto perfetto per fare i conti con Domeneddio, citando ancora Verga col suo Gesualdo, quali che siano i credo o le richieste del dio in questione: capita al protagonista de Quando le belve arriveranno (Wojtek) di Alfredo Palomba, uomo che strangola e gela le voci che si porta dentro esasperandole in un’allucinazione che non può non scatenarsi in un paesino di contorno, confessionale profano per un esame di coscienza definitivo, laboratorio per mettere in pratica le conseguenze di una famiglia deforme: radici storte danno rami secchi, e in questi casi il rame serve al massimo per forgiare i caratteri della lapide.
Sopravvive chi riesce
Anche la religione in provincia sembra risemantizzarsi, mescolare alle raccomandazioni dei libri sacri dettami altri più preziosi del dogma perché più consoni al posto e alle leggi che si abitano: la nostra preghiera è il lavoro, suggeriva Atzeni e sopravvive solo chi riesce, completa Gaia Giovagnoli, che nella sua Coragrotta proietta un luogo capace di una religiosità e di regole altre, utili a rovesciare dalle fondamenta la sopracitata società patriarcale minando alle origini l’idea di una possibile urbanità: il bosco, in Cos’hai nel sangue (Nottetempo), tutto prende e tutto involve, espellendo con violenza chiunque cerchi di applicare al suo interno parametri misurabili – è luogo per autoctoni, quello di Giovagnoli, selva dantesca, non campo di studio per l’antropologia.
Al parametro maschile resta un trascinarsi, con gli svarduni come misura di un ritardo bambinesco, a quello femminile il trascinare: i capelli, caduti o rimasti, sono il segno della forza, e non serve scomodare il Sansone biblico per sentirsi a proprio agio, giacché Coragrotta tira dentro e inabissa, diventando paradigma perfetto di una provincia che’ntender no la può chi no la prova, per restare nella lingua del poeta.
Viene quasi da credere che a tutto questo correre e unire, la provincia, cosciente delle sue diversità, possa rispondere solo con un incessante e anarchico camminare, simile a quello del Geppetto stassiano (Mastro Geppetto, Sellerio), pronto a portare ovunque il suo Pinocchio in nome di una fede cieca e non istituzionale, ché mia zia diceva che il dio del duomo capisce i problemi dei milanesi, ma i nostri fatica a comprenderli.
Una processione insensata, carnevalesca, da favola, che ricorda quella del Woody Grant di Nebraska, a capo di un pellegrinaggio scontato in nome di un biglietto di lotteria palesemente non vincitore: la regolarità, di fronte a così tanto disordine, a così tante istanze di un passato irrisolvibile, risulta inadeguata.
Insieme alla fibra che sutura, al rame che congiunge e a Bologna che sembra così vicina mentre resta così lontana, nelle retrovie, per respirare bene, ogni tanto, come accade al Belluca pirandelliano, bisogna semplicemente impazzire.
Gaia Giovagnoli è autrice del libro Cos’hai nel sangue, edito da nottetempo
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