- Tradurre è come tradire, come noto, ma cara posso spiegare tutto.
- Nel saggio La vita intensa di Tristan Garcia (edito da Nottetempo), si trattava di restituire l’intensità originale della scrittura, ma anche risolverne le asperità.
- Ogni tanto le asperità devono essere conservate, perché sono la particolarità della lingua filosofica.
Un secolo fa, Walter Benjamin si chiedeva quale fosse il compito del traduttore e ne faceva una responsabilità messianica, quella di ricomporre la lingua perduta di Adamo, infranta dalla storia in tanti minuscoli frammenti disseminati nelle diverse lingue nazionali.
Da traduttore, oggi, confesso di sentire una responsabilità più limitata: quella di mettere in contatto un testo e un lettore, dando al testo la miglior possibilità di essere letto, capito e apprezzato; pazienza per Adamo.
L’ho fatto tre volte negli ultimi anni, con un trattato di sociologia, un’antologia di scritti politici e un saggio filosofico, in italiano dalla mia lingua madre, il francese. E ho così dovuto anche fare i conti con tutte le inevitabili infedeltà – “Cara, posso spiegare tutto” – che siamo costretti a commettere per ottenere il risultato migliore. Se è vero che nessuna traduzione conserva integralmente il senso dell’originale, se nel processo alchemico qualcosa scompare (e qualcos’altro appare), allora il traduttore è forse il colpevole e sicuramente il testimone privilegiato di questa sparizione.
La vita intensa
Il mio ultimo crimine si chiama La vita intensa, edito da Nottetempo, e l’ha scritto Tristan Garcia, raro esempio di romanziere e filosofo francese, un mix che ha un illustre precursore in Jean-Paul Sartre.
L’autore risale fino ad Aristotele per raccontare la storia di come l’umanità si è poco a poco vincolata a un imperativo fondamentalmente irrealizzabile, quello di vivere la propria vita con intensità sempre maggiore: un imperativo che sorge dalla scienza, dalla letteratura, dalla filosofia, e oggi si manifesta persino nella propaganda pubblicitaria; un imperativo che ci rende irrequieti e ci lascia insoddisfatti, alla ricerca di continue esplosioni o perlomeno di un Nirvana in cui rifugiarci. E per restituire questa parabola Garcia imprime intensità alla sua stessa scrittura, che pare lanciata all’inseguimento del suo oggetto come un flusso di coscienza inarrestabile.
Ecco quindi la prima difficoltà per il traduttore. Come restituire contemporaneamente la chiarezza del ragionamento e lo stile letterario? L’autore dedica molte pagine alla descrizione suggestiva della “scoperta” dell’intensità nella scienza sei-settecentesca, mettendo in scena esperimenti elettrizzanti che sembrano usciti da The Prestige, e al traduttore spetta conservare l’atmosfera di quelle scene.
Ma c’era un’altra difficoltà più precisamente filosofica: Garcia segmenta la storia delle mentalità ricorrendo a categorie storiografiche francesi, che situano la modernità dopo la Rivoluzione francese e talvolta addirittura dopo le avanguardie novecentesche, identificando modernità e modernismo, e parlano invece di “età classica” per evocare il lungo Seicento, che a noi pare più barocco che classico, più irrequieto che ieratico.
L’età classica era già l’oggetto della ricerca di Michel Foucault nel suo capolavoro Le parole e le cose, ma per noi si tratta semplicemente del primo segmento dell'età moderna, non certo un compartimento stagno dotato addirittura di una mentalità unitaria. La presunta classicità di quella fetta di tempo, in effetti, non è altro che una proiezione retrospettiva.
Così nella mia traduzione ho preferito parlare di "prima modernità", dissolvendo quella che per Garcia era una categoria più rigida. Ho fatto una scelta: d’altronde si dice che la metafisica sia nata perché il verbo Essere svolge una duplice funzione predicativa ed esistenziale, in fondo la traduzione è il momento di verità in cui vanno a morire le nostre auto-suggestioni linguistiche.
Rinunciando a parlare di “età classica”, poiché il lettore italiano non avrebbe compreso, ho decostruito una finzione storiografica radicata nella tradizione intellettuale francese; ma ha anche inevitabilmente sciolto un legame che poteva essere proficuo con quella tradizione. Ve l'ho detto che tradurre è un crimine.
La lingua dei filosofi
Siamo sicuri che staremmo meglio, senza le nostre piccole infedeltà? Quando apro le pagine di un classico greco antico, so che la voce che sento non è quella dell'autore bensì di eserciti di glossatori e in ultimo del traduttore che l'ha reso in italiano. Se si tratta di un testo poetico, il traduttore vorrà forse renderlo più musicale o comunque permetterci di riconoscere cose note; nel caso della filosofia accade invece un’operazione di segno opposto, ovvero di distanziamento.
Una serie di termini prosaici che l'autore prendeva dalla lingua comune - le lingue antiche erano molto più povere delle nostre - assume nella traduzione un significato tecnico. Prendendo quei termini alla lettera, il senso del testo si sgonfierebbe come un soufflé: il traduttore deve quindi esplicitare la portata universale delle descrizioni.
Così il risultato ci appare sicuramente filosofico: in Aristotele il sostrato, hypokeimenon, indica talvolta la sostanza in senso ontologico; nell'opera di Ibn Khaldun troviamo una distinzione tra Centro e Periferia, hadara e badawa, laddove lui parlava semplicemente di Città e Campagna.
Questo è lampante per gli antichi e i medievali, ma non è meno vero per i pensatori del Novecento. Da traduttore, mi sono posto un problema simile inciampando nell'opera di Cornelius Castoriadis sulla nozione di "social-historique": meglio dire “storico-sociale”, che è un termine di uso comune dal significato evidente, oppure coniare il termine “social-storico” per segnare marcatamente una differenza? In questo caso ho preferito la seconda, in quanto altrimenti non si sarebbe colta l’originalità di quello che Castoriadis intendeva fare, ovvero coniare un’intera sfera dell’esperienza umana ben distinta da quella economica.
È attraverso questa operazione di trasfigurazione del banale, o rottura epistemologica nelle parole di Gaston Bachelard, che nasce il lessico specialistico di ogni disciplina; ed è in un rapporto paradossale con le metafore, spiegava da parte sua Jacques Derrida, che avviene l'invenzione filosofica.
Il traduttore ne è spesso complice: sia quando eleva la lingua, sia quando rende visibili cose che la lingua mascherava, sia quando al contrario maschera cose che non possono essere dette nella lingua di destinazione. L’obiettivo finale sta sempre a metà strada tra la scorrevolezza della lettura, la chiarezza, la correttezza del contenuto, la fedeltà al testo e infine la cosa più importante: la capacità produttiva di “far pensare” il lettore in modo nuovo.
Scelte difficili
La mia prima traduzione, e quindi il mio primo crimine, è stata quella di un autore italiano che scriveva in francese, il sociologo Antonio Casilli, che aveva dedicato alle nuove tecnologie il suo libro Schiavi del clic (Feltrinelli). Il libro ambiva a essere una vera e propria teoria generale dei lavoro digitale, e ogni termine aveva un significato tecnico, spesso giustificato dall’autore facendo riferimento alla sua storia e ai suoi usi.
In taluni casi ho semplicemente preferito tradurre il termine francese con l’equivalente inglese, in quanto la lingua italiana tende a essere più accogliente con gli anglicismi. In altre occasioni Casilli ha proposto o riutilizzato dei neologismi, che ho restituito (ad esempio “piattaformizzazione”) tranne quando erano intraducibili.
Questo era il caso di quello che è probabilmente il concetto centrale di tutta la sua riflessione, ovvero la “tâcheronisation”. Un termine che esprime contemporaneamente la parcellizzazione, l’esternalizzazione e la squalificazione del lavoro all’era delle piattaforme. Piuttosto che trovare un equivalente italiano sgraziato e comunque impreciso (il più vicino sarebbe stato “operatorizzazione”) ho preferito ricorrere ai tre termini sopra citati, in sequenza o separatamente secondo il caso, con una preferenza per il primo.
Ma così facendo ho dovuto dissolvere un concetto centrale nella riflessione dell’autore: in effetti la tâcheronisation racchiude in sé quello che per Casilli è il destino inquietante del digital labor, un ritorno alle condizioni ottocentesche del lavoro, e quindi a termini e problematiche che sembravano ormai sepolti. C’erano alternative? Credo sinceramente di no, cara.
Quel che è certo è che se c’è un lavoro che non potrà essere meccanizzato senza conseguenze è proprio quello di traduttore di testi di filosofia: sono troppe le decisioni soggettive da prendere, sono troppi i crimini da perpetrare.
Il libro La vita intensa di Tristan Garcia è edito da Nottetempo.
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