Grazie a Eschilo, il furbastro perdente nella sfida con Zeus diventa colui che dà agli uomini «il pensiero e la conoscenza». Uno che non china la testa davanti al tiranno e rischia tutto per proteggere i più deboli
Un mito serve ancora? Può trasmettere un messaggio attuale? Diciamo che non sarebbe un mito, se riguardasse solo vicende passate, perché questi racconti portano alla luce zone profonde e nascoste della mente, e non tramontano. Alcuni toccano la mentalità collettiva; il mito di Prometeo è tra questi, perché parla di un valore che dovrebbe brillare sempre, come la scintilla di fuoco che questo dio portò agli uomini: la filantropia, l’essere “amici dell’umanità”. Come diceva Menandro, «che bella cosa è un uomo, quando si ricorda di essere uomo». Quando si ricorda, già. Ma spesso se ne dimentica.
Un truffatore
Questo fu infatti Prometeo: l’amico dell’umanità. Eppure, non era neppure un essere umano, ma un dio. In origine però questo filantropo era un truffatore: così almeno compare nella prima opera che racconta la sua storia, la Teogonia di Esiodo. Veniva dalla stirpe dei Titani, le divinità più antiche, ma a differenza degli altri Titani, che confidavano solo nella forza, Prometeo (ossia, come dice il suo nome, il “Pensa-prima”) preferiva l’intelligenza. Astuto, poco propenso a menare le mani, si tenne in disparte dalle lotte tra Titani e dèi olimpici, e quando Zeus li vinse, non finì in catene come gli altri suoi simili. Ma questo Pensa-prima aveva una specie di difetto: presumeva troppo dalla sua intelligenza. Perciò, se volessimo infilare in questo mito un po’ di psicoanalisi, dovremmo dire che Prometeo soffriva di narcisismo: pensava di essere più intelligente di tutti, persino di Zeus, e non esitava a sfidarlo.
Un giorno prese due buoi, li uccise e li ricostruì come fantocci, coprendoli con la loro pelle; ma in uno aveva infilato la carne, nell’altro solo grasso e ossa. Poi fece scegliere a Zeus quale preferiva; Zeus abboccò e scelse quello fatto di ossa e grasso. Fu allora che venne fondato il sacrificio: da quel momento la carne la mangiano gli uomini, mentre gli dèi (quelli greci, s’intende) si accontentano del fumo che sale dal grasso. Zeus, per vendicarsi di essere stato ingannato, tolse allora il fuoco agli uomini, ma Prometeo lo rubò, nascondendolo in una canna, e lo riportò sulla terra. A questo punto, Zeus si adirò davvero contro quel manigoldo che continuava a sfidarlo con le sue furbizie e lo incatenò a una rupe del Caucaso, condannandolo a un terribile supplizio.
Un ribelle
Così Prometeo sarebbe rimasto nel mito – un furbastro, perdente nella partita con Zeus – se non fosse stato portato sulla scena da Eschilo, nel Prometeo incatenato. Qui l’imbroglione diventa il ribelle, ma un tipo speciale di ribelle: come diceva Karol Kerényi, l’immagine archetipica dell’esistenza umana. La sua storia mostra che il progresso, personale e collettivo, passa attraverso la sofferenza, e mostra anche il mistero della sofferenza che diventa sacrificio. Prometeo non cede davanti alla tirannia, non accetta la prevaricazione, ma la cosa più incredibile è che lo fa per difendere i più deboli: non sfida Zeus perché vuole il potere per sé stesso, rischia tutto per proteggere chi non può proteggersi da solo. Zeus lo minaccia, lo inchioda alla rupe e gli fa rodere il fegato da un’aquila; ma durante la notte il fegato ricresce e all’alba l’aquila torna a roderlo. Così per centinaia, migliaia di anni. Intanto però i suoi protetti, i deboli uomini, hanno avuto il tempo di crescere e diventare forti. Il tempo delle sue catene è anche il tempo in cui l’umanità progredisce. È stato lui a dare agli uomini «il pensiero e la coscienza», gli fa dire Eschilo: prima gli uomini, «indifesi e muti come bambini», vivevano «come deboli formiche» dentro caverne; ma poi, grazie ai suoi insegnamenti, hanno scoperto il fuoco, le arti, le scienze, la medicina; hanno imparato a distinguere il giorno dalla notte e a sottomettere gli animali, hanno alzato gli occhi verso il cielo e iniziato a calcolare il corso delle stelle.
Prometeo ha insegnato loro i numeri e le lettere dell’alfabeto (così gli uomini hanno appreso a scrivere e a calcolare) e infine – antesignano di Freud – ha spiegato loro come interpretare i sogni. «In breve», conclude, «tutto ciò che gli uomini conoscono proviene da Prometeo»: non dagli dèi. Troppe cose, forse. Ma questo elenco di invenzioni che Eschilo attribuisce a Prometeo ha un significato preciso: è un inno al progresso, in un’epoca – l’età di Pericle – in cui stavano nascendo saperi nuovi e l’uomo poteva essere fiero di sé stesso e della sua intelligenza. Il Prometeo di Eschilo non finisce qui: anzi, la parte più emozionante viene alla fine. Compare Ermes, portando gli ordini di Zeus: che parli, che riveli i suoi segreti, dato che si è lasciato sfuggire che un giorno arriverà un altro a spodestare Zeus. Ora il tiranno ha paura e manda il suo messaggero a farlo parlare.
Paladino della libertà
Con un brivido lungo la schiena, leggendo le parole in cui Ermes insulta e minaccia Prometeo incatenato, pensiamo a quante infinite volte si è ripetuta questa scena infame: un prigioniero inerme davanti al suo aguzzino, che lo tormenta per farlo confessare in nome di un potere che disprezza l’umanità e si nutre di violenza. Ma Prometeo si rifiuta di scendere a patti con il tiranno; dà a Ermes del «servo» e si prepara a soffrire, non senza aver denunciato l’indegnità di ciò che sta subendo: «Ciò che soffro è contro la giustizia». Così finisce la tragedia, la prima (e l’unica giunta fino a noi) di una trilogia che pare terminasse con la riconciliazione tra Zeus e Prometeo. Tuttavia, così com’è, senza “lieto fine”, il messaggio che trasmette risulta molto più potente: ce n’era quindi abbastanza perché gli Illuministi, come Wieland e Goethe, e i Romantici, come Byron e soprattutto Shelley, vedessero in Prometeo il ribelle per eccellenza, che non china la testa davanti al tiranno, il precursore della dichiarazione dei diritti umani. L’omonima ode di Goethe è un’invettiva contro Zeus e contro gli dèi; nel XX secolo Prometeo diventerà una figura dell’iconografia comunista, l’immagine del proletariato che spezza le sue catene. Prometeo era anche il titolo della rivista del Partito comunista internazionalista. Prometeo l’astuto è ormai diventato Prometeo l’indomito, paladino della libertà. Coraggio e astuzia possono andare d’accordo? L’astuzia molto spesso non è che l’altra faccia del coraggio: non quello di Ettore che s’immola in battaglia, ma quello di Ulisse, che finge di chinare la testa davanti a mostri e prepotenti per sopravvivere e infine trionfare.
Del resto, nel mito, anche il signore degli dèi finì per cedere, mandando Eracle a uccidere l’aquila e a spezzare le catene che tenevano avvinto Prometeo. La traccia delle catene rimase impressa sulla rupe del Caucaso, ma le catene erano spezzate. L’umanità, buoni e malvagi insieme, era andata avanti: e tutto per una scintilla di fuoco che un giorno un imbroglione aveva rubato dal cielo. Gli ultimi versi del Prometheus Unbound (liberato, appunto) di Shelley sono un vero e proprio manifesto libertario, che suona come uno squillo di tromba: «Perdonare torti più cupi della morte o delle notte / sfidare il Potere, che sembra onnipotente / amare e sopportare / non cambiare, né vacillare, né pentirsi / questo, come la tua gloria, o Titano, è essere buoni, grandi e lieti, liberi e belli / questo solo è Vita, Gioia, Impero e Vittoria».
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