Il successo di Bridgerton è anche il frutto del color blind casting una pratica ormai consolidata nei paesi di lingua inglese. Il colore della pelle non viene considerato importante nel processo di selezione degli attori
- Arrivato giusto in tempo per le festività natalizie Bridgerton non ha le pretese del capolavoro, ma per i 63 milioni di spettatori che lo hanno visto in tutto il mondo è stato meglio dello xanax.
- È piaciuto quel mischiare attori di diversa origine in ruoli che in passato potevano essere appannaggio solo degli attori/attrici bianchi. Lo chiamano color blind, una sorta di mischiare le carte, dove l'appartenenza non viene considerata importante nel processo di casting.
- Ma c’è chi preferisce alla color blind un'altra pratica: il colour conscious casting. C'è un forte dibattito in corso. Ma di tutto questo, nel cinema e nei teatri italiani, non c'è traccia.
Shonda Rhimes è un genio. Lo è sempre stata. Dopo aver avviato quella poderosa macchina che è stata Grey's anatomy, ora in piena pandemia, con gli animi infiacchiti e il morale sotto i tacchi causa Covid-19, ha costruito un prodotto che tra regia, maestranze e attori/attrici, è un antidepressivo naturale. Arrivato giusto in tempo per le festività natalizie Bridgerton (visibile sulla piattaforma Netflix) non ha le pretese del capolavoro, ma per i 63 milioni di spettatori che lo hanno visto in tutto il mondo, è stato meglio dello Xanax.
Un romance ispirato alla serie di libri di Julia Quinn e a quella moda del regency moderno che si rifà (ma non troppo) a Madama Jane Austen e ai suoi intrighi nuziali. La serie, oltre ad avere servizi da tè stratosferici e crinoline a volontà, è arricchito anche da scene degne di Ultimo tango a Parigi, per scivolare poi in una suspence romantica che ricorda ai più agé Sentieri e Beautiful, le soap che hanno fatto la storia della televisione.
Ed ecco che siamo lì tutte, tuttə, tutti incollati. Un po' per capire se la belle Daphne (Phoebe Dynebor) troverà marito, e soprattutto se il fascinoso duca di Hastings (Regé-Jean Page) farà la grazia al pubblico di far vedere ancora una volta i suoi pettorali (questo circolava su vari tweet come apprezzamento per il bell’attore, probabile futuro 007).
Mischiare le carte
Una serie che gioca sfacciatamente sul corpo degli attori, concedendoli al nostro sguardo, senza però farci cadere troppo nel voyeurismo. Una giusta misura. Che è piaciuta al pubblico. Come è piaciuto quel mischiare attori di diversa origine in ruoli che in passato potevano essere appannaggio solo degli attori/attrici bianchi. Lo chiamano color blind, una sorta di mischiare le carte, dove l'appartenenza o il colore della pelle non vengono considerati importanti nel processo di casting. Ed è così che un attore come Regé-Jean Page, mamma dello Zimbabwe e papà inglese, diventa un damerino regency in brache, panciotto e marsina. E nella serie non è certo l'unico. C'è la sua protettrice Lady Danbury (Adjoa Andoh) con i suoi cilindri mozzafiato e Marina Thompson (Ruby Barker) la più bella della serie.
Il color blind casting è ormai, nei paesi di lingua inglese, pratica consolidata. Pensiamo alla produzione del 2011 del National Theatre Frankenstein, quella dove Jonny Lee Miller e Benedict Cumberbatch si scambiavano di ruolo ogni sera, e dove Naomie Harris attrice britannica di madre giamaicana e padre di Trinidad interpretava Elizabeth Lavenza, la donna promessa sposa del dottore poi uccisa dalla creatura. Pensiamo anche a Dev Patel e Rosalind Eleazar che nel The Personal History of David Copperfield di Armando Iannucci interpretano ruoli (rispettivamente quelli di David e Agnes) che solo trent'anni fa nessuno avrebbe proposto loro. E non dimentichiamo la miniserie che rilegge Lupin, il ladro gentiluomo della Parigi del primo novecento, nei panni di un moderno afro-francese che prende le fattezze del sempre bravissimo Omar Sy, e Hamilton il musical dove i padri fondatori sono afroamericani e latini.
Sangue nero
C'è, di fatto, una volontà di giocare con le appartenenze, le storie, mischiare le carte. In Bridgerton, poi, la pratica del color blind casting si sposa anche con un pizzico di intento pedagogico: la regina del film Queen Charlotte, interpretata dalla bravissima Golda Rosheuvel, forse era davvero afrodiscendente. Gli storici dibattono ancora sulla sua identità. A seconda dei ritratti la donna sembra più bianca o più nera. Deve, secondo alcuni storici, il suo sangue nero a una branca della famiglia reale portoghese, esattamente ad Alfonso III e a una sua concubina di nome Ourana. La verità sul colore di Charlotte non si è mai scoperta, come non si è scoperto quel sangue nero che passa alla regina Vittoria fino al principe Harry, ma sta di fatto che questo mistero noto ai più (basta vedere le vagonate di pagine internet dedicate alla sovrana) è servito a Shonda Rhimes e al suo staff per immettere in una generalizzata politica di color blind casting una storia nera del passato.
Non tutti hanno applaudito a questa pratica, c'è chi si è appellato a una veridicità storica compromessa o chi invece preferisce alla color blind un'altra pratica: il colour conscious casting, che punta più sulla storia e sulla re-interpretazione in chiave moderna di essa. Chi si rifà a questa pratica non ama del color blind il non dare peso all'appartenenza, quasi assolvendo la società bianca dall'aver creato un sistema strutturale di barriere e razzismi.
Secondo i fautori del colour conscious casting non va nascosto al pubblico il sistema distopico nel quale i corpi agiscono ancora oggi: il corpo dell'attore non può essere un lavarsi la coscienza da parte della società bianca, un “non sono razzista, ho un amico nero”, ma deve farsi carne delle contraddizioni del presente come del passato. C'è un forte dibattito in corso. Ma di tutto questo, nel cinema e nei teatri italiani, non c'è traccia.
Qui gli attori Bipoc (black, indigenous and people of color) non sono quasi mai presi in considerazione. Sono relegati a pochi ruoli, sempre gli stessi, ovvero badante, prostituta, terrorista, migrante in difficoltà.
Mancano storie e i casting costringono attori/attrici ben formati a fare in eterno la stessa cosa. Un pianto! Gente come Esther Elisha, Jonis Bascir, Yoon C.Joyce, Ahmed Hafiene ecc, sono di una levatura altissima (pensiamo solo all'interpretazione di Ahmed Hafiene in La Giusta Distanza di Carlo Mazzacurati), ma sostanzialmente ignorati da un modo di fare cinema (ma vale anche per il teatro) ancorato a vecchi schemi e con lenti ancora xenofobe.
Di recente l'Italia ha perso un'occasione per allargare il suo sguardo. All'uscita del film di animazione della Pixar Soul, dove l'afroamericano Joe Gardner cerca per tutto il film di riunire la sua anima e il suo corpo, il doppiaggio è stato affidato a un cast ottimo, ma quasi esclusivamente bianco (tranne l'italo-somalo Jonis Bascir che interpreta un personaggio minore) che ha dato voce agli afroamericani del film.
Ora è chiaro, le voci nere come quelle bianche possono essere interpretate da chiunque, ma è un'occasione persa in una narrazione cinematografica e teatrale che qui è ancora lontana sia dal color blind che dal colour conscious casting.
Insomma, Bridgerton è ancora molto lontano. Nel frattempo un'intera generazione di attori/attrici italiani con altre origini è ancora in attesa che il bel paese li veda sia come storie sia come corpi.
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