La quarta stagione di The Crown ha sollevato un dibattito sul modo di rappresentare, romanzandoli, gli eventi storici. Se la fiction spingesse gli spettatori ad approfondire svolgerebbe un utile servizio culturale e civico. Ma non è così
- La quarta stagione della serie Netflix The Crown ha sollevato nel Regno Unito un interessante dibattito su realtà e finzione. Il conte Charles Spencer ha dichiarato di sentirsi a disagio per il modo in cui sua sorella Diana è stata presentata nella serie.
Il problema riguarda non soltanto la televisione e il cinema, ma anche la letteratura, il giornalismo e l’intero mondo dei media.
Se serie come The Crown costituissero lo stimolo iniziale per un approfondimento delle vicende di cui trattano, spingendo gli spettatori ad andare alle fonti, svolgerebbero un utilissimo servizio culturale e civico.
La quarta stagione della serie televisiva Netflix The Crown ha sollevato nel Regno Unito un interessante dibattito su realtà e finzione, che ha messo a confronto le famiglie dei Windsor e degli Spence, da un lato, e i commentatori della stampa e della televisione, dall’altro, coinvolgendo anche la parte meno ignara e passiva del pubblico.
Il conte Charles Spencer, ad esempio, ha dichiarato al Daily Mirror di sentirsi a disagio per il modo in cui sua sorella Diana è stata presentata nella serie, e in un’intervista al programma Lorraine della ITV ha tenuto a sottolineare l’ovvio, ma troppo spesso dimenticato abisso, che separa la fiction romanzata dalla storia fattuale, lamentando che gli spettatori finiscano altrettanto spesso per scambiare la finzione con la realtà.
Il conte, che è laureato in storia moderna a Oxford, non si è comunque limitato alle faccende di famiglia, e ha portato come ulteriore esempio, tra gli innumerevoli possibili, il modo in cui nel famoso film Titanic è stata travisata la vicenda di Cosmo Duff-Gordon, presentato come un codardo e un corruttore per essersi salvato in una scialuppa di pochi sopravvissuti, nonostante la commissione d’inchiesta del 1912 lo avesse immediatamente scagionato da quelle false accuse.
Fatti reali e fatti alternativi
Il problema della sistematica distorsione della realtà perpetuata nella volgarizzazione della storia riguarda non soltanto la televisione e il cinema, ma anche la letteratura, il giornalismo e l’intero mondo dei media.
I fatti sono da sempre vittima di un vero e proprio olocausto, consumato per i motivi più disparati: dai più arguti ed elevati, sintetizzati da Mark Twain nel motto “non permettere alla verità di interferire con una bella storia”, ai più ottusi e abietti, mascherati dietro l’etichetta dei “fatti alternativi” coniata da Kellyanne Conway, direttrice della campagna elettorale e consigliera di Trump.
Come qualcuno ricorderà, la questione dei fatti alternativi sorse il 22 gennaio 2017, a proposito del numero di partecipanti alla cerimonia di giuramento del neoeletto presidente. Il quale, a causa della patologica ipertrofia del suo ego, non poteva nemmeno immaginare di aver avuto meno pubblico del suo predecessore, e pretese dunque di averne avuto di più.
Purtroppo per lui, le cifre dedotte dai rilievi fotografici e dal numero di passeggeri del metrò di Washington nel giorno dell’inaugurazione gli davano torto: a sostegno del presidente la Conway inventò allora la categoria dei fatti alternativi, fino a quel momento noti semplicemente come pie finzioni o empie falsità.
Naturalmente, la questione dei record di affluenza alle manifestazioni non ha affatto origine con Trump, ed è una fissazione propagandistica senza tempo, dal catalogo delle navi enumerato da Omero agli inizi dell’Iliade alle adunate fasciste battezzate come «folle oceaniche» da D’Annunzio.
Ma il problema nasce quando si passa dalle vaghezze poetiche a numeri precisi: qui casca l’asino, che non è necessariamente il politico di turno, e può anche essere un semplice organizzatore di eventi.
Ad esempio, per anni si tennero al Central Park di New York concerti di musica pop, a proposito dei quali i giornali riportavano affluenze sempre più grandi e incredibili: dapprima un pubblico di 300.000 persone per Elton John nel 1980, poi 400.000 per Simon e Garfunkel nel 1981, addirittura 600.000 per Paul Simon da solo nel 1991, e infine 750.000 per Garth Brooks nel 1997.
Nel 2008, quando i Bon Jovi minacciavano di battere di nuovo il sospetto record, la polizia decise di registrare con i contapersone il numero esatto di partecipanti che stiparono l’ovale del Great Lawn. Il risultato fu di 48.538 persone, ragionevolmente corrispondenti a circa una per metro quadro dell’area disponibile.
Se persino su stupidaggini di questo genere i soggetti interessati e i media sono disposti a coalizzarsi per fare strage dei fatti, immaginiamoci cosa può succedere quando si arriva a toccare l’immagine della Corona britannica, per sua stessa natura fondata sul mistero privato e la finzione pubblica.
Poteri politico e mediatico
E infatti, fino alla fine dello scorso secolo le notizie relative ai membri della famiglia reale e alla loro vita venivano rigorosamente confezionate, filtrate, selezionate e diffuse in felice accordo tra Buckingham Palace, da un lato, e le direzioni dei giornali e delle televisioni, dall’altro.
Ancora una volta, non c’è niente di particolarmente inglese in questo connubio tra i poteri politico e mediatico, che è anzi comune quando si tratta di mascherare i vizi privati dietro una patina di pubbliche virtù: ad esempio, per salvare la faccia e salvaguardare la reputazione di monarchi come Alberto del Belgio e Juan Carlos di Spagna, di presidenti come John Kennedy negli Stati Uniti e François Mitterand in Francia, e di primi ministri come Mariano Rumor ed Emilio Colombo in Italia.
Sulle vite sentimentali non ufficiali di questi protagonisti della cronaca i media hanno tenuto all’epoca un riserbo che, a seconda dei gusti, si poteva interpretare come una dovuta protezione della privacy dei governanti dall’indebita curiosità dei governati, o come uno squallido asservimento dei mezzi di informazione al potere politico.
Per quanto riguarda la Corona inglese le cose cambiarono il 20 novembre 1995, esattamente venticinque anni fa, quando il programma Panorama della BBC trasmise un’intervista in cui la principessa Diana offriva la propria versione dei fatti, rivelando che dietro alla finzione della sua favola bella si celava una brutta realtà costituita di bulimia, autolesionismo fisico, violenza psicologica, tradimenti reciproci e tentativi di suicidio.
I ventitré milioni di spettatori che videro il programma rimasero scioccati, udendo Diana descrivere sé stessa come «un agnello sacrificale», e il proprio matrimonio come «un po’ affollato».
Ma ancora di più rimasero scioccati i vertici della BBC e i Windsor, perché l’intervista era stata registrata in gran segreto e venne trasmessa senza preavvertire né gli uni, né gli altri, prendendoli tutti alla sprovvista. Ancor oggi, venticinque anni dopo la trasmissione, il conte Spencer continua a chiedere le scuse della BBC per averla mandata in onda, e un’inchiesta della polizia per stabilire come Diana sia stata convinta a lavare i panni sporchi in pubblico.
A dire il vero, la principessa era stata preceduta in televisione dal marito, che il 29 giugno 1994 aveva già ammesso il proprio adulterio con Camilla Parker-Bowles. Ma la trasmissione Carlo: l’uomo privato e il ruolo pubblico in cui lo fece era un’agiografia di due ore e mezzo, in occasione dei venticinque anni dalla sua investitura a principe di Galles, e toccava l’argomento del matrimonio solo di sfuggita.
In ogni caso, Diana riuscì a rovinargli la festa semplicemente presenziando a un evento in contemporanea con un audace “abito della vendetta”, che fu l’unica cosa di cui parlarono i giornali il giorno dopo.
Ovviamente i racconti di Carlo e Diana sono da prendere con il beneficio d’inventario, perché forniscono soltanto i rispettivi punti di vista sulla loro comune vicenda, ma almeno costituiscono testimonianze di prima mano su eventi che spesso non hanno avuto altri testimoni che loro stessi, e sui quali invece The Crown inventa a ruota libera.
La necessità di andare alla fonte
Gli spettatori della serie farebbero dunque bene a complementarne la visione con i due documenti citati, oltre che con i video della principessa girati dal suo maestro di dizione Peter Settelen tra il 1992 e il 1993, dai quali sono stati tratti i due film televisivi Diana rivelata (2004) e Diana nelle sue parole (2017), l’ultimo dei quali reperibile su YouTube.
La storia di questi ultimi video è interessante di per sé, perché nel 2001 vennero sequestrati da Scotland Yard in un raid a casa del valletto di Diana, che li custodiva insieme ad altri effetti della principessa.
Il fratello Charles intentò un’azione legale perché fossero restituiti ai famigliari, ma nel 2004 il tribunale decise invece che spettavano a chi li aveva registrati, e Settelen permise poi che essi venissero mostrati al pubblico, nonostante le resistenze dei Windsor e degli Spencer. Nel 2017 i figli William e Harry produssero dal canto loro i due documentari Diana, nostra madre e Diana: 7 giorni, per raccontare le loro impressioni della vita e del funerale della madre nel ventesimo anniversario della sua morte.
Ora, se serie come The Crown costituissero lo stimolo iniziale per un approfondimento delle vicende di cui trattano, spingendo gli spettatori ad andare appunto alle fonti, svolgerebbero un utilissimo servizio culturale e civico.
Invece, la maggior parte di noi non andrà mai oltre opere mediatiche dello stesso genere, e continuerà a nutrirsi soltanto di notizie approssimate e distorte, ricavate da articoli di giornali e riviste, film e romanzi storici, e al massimo saggi divulgativi: cioè, attingerà le proprie conoscenze storiche da una serie di fonti che amano mescolare fatti e finzioni in maniera inestricabile, e finiscono per sostituire la noumenica Storia (al singolare e con la maiuscola) con le fenomeniche storie (al plurale e con la minuscola).
Se la cosa si limitasse alle vicende dell’anacronistica casa reale inglese, non importerebbe molto, ma il problema è che nel secondo dopoguerra la storia l’abbiamo tutti veramente imparata dai film di Hollywood, che sono le armi culturali con le quali è stata imposta la pax americana al di qua della Cortina di Ferro, e la impariamo oggi dalle serie televisive, che ne sono la naturale evoluzione.
E purtroppo, in un mondo paraculturale in cui lo spettacolo e l’audience contano molto di più dei fatti e della realtà, si ripresenta tale e quale il paradosso enunciato da Noam Chomsky negli anni ’60: che c’era molta più verità nella Pravda che nel New York Times, perché dove tutto è falso, basta negarlo per ottenere tutta la verità, ma dove vero e falso sono mescolati in maniera indistricabile, non si può mai sapere dove stiano l’uno e l’altro.
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