Non c’è idolo o esperienza della boom generation che non meriti una commemorazione, una retrospettiva, uno speciale. Nessun’altra epoca è stata tanto ossessionata dal passato recente. L’importante è che torni in forma edulcorata e pop
- Techetechetè è diventato il focolare attorno cui si sono raccolti più spettatori che mai. Non c’è idolo o esperienza della boom generation che non meriti una commemorazione, una retrospettiva, uno specialino.
- Questo costante ricordare, questo total recall, è l’esatto opposto di un rapporto fertile con la tradizione, con la storia. Da dove viene questa cappa soffocante che inibisce e smorza empiti creativi se non l’idea stessa di futuro?
- Sarebbe esagerato vedere un legame diretto tra l’emergere dei sovranismi e il mal d’archivio, ma sarebbe anche sbagliato non riconoscere che c’è un filo rosso che li unisce.
In tempi di crisi e di incertezza, in cui si sta tutti come d’autunno sugli alberi le bozze di Dpcm, gli italiani si sono gettati sull’unico bene rifugio di solida certezza: Techetechetè. È dal 2012 che la trasmissione di videoframmenti tirati fuori dall’archivio Rai raccoglie meritati elogi, ma con la pandemia e il lockdown Techetechetè è diventato il focolare attorno cui si sono raccolti piùg spettatori che mai, il lenitivo contraltare alle tragiche (e mal gestite) conferenze stampa della Protezione civile.
C’è poco da dire, lo zapping abilmente montato tra le trasmissioni degli anni Sessanta e Settanta è un momento di quasi insostenibile “bellezza e tristezza”. Bellezza perché la perfetta coincidenza di professionalità, leggerezza e ironia della televisione di quegli anni lascia spesso goduti e ammutoliti; tristezza perché, be’, signora mia, quando mai torneranno quegli anni felici?
Il nuovo che fu
Il sottotitolo di Techetechetè all’inizio era “il nuovo che fu”, non a caso inventato da quel genio di Pasquale Panella, il paroliere di Battisti degli ultimi album “bianchi”. Il nuovo che fu: non sarà, a pensarci bene, che sotto la gaia ironia da Studio Uno ci sia qualcosa di un po’ sinistro, o un memento mori catodico? Viator, quod tu es, ego fui. Quel che tu sei, anch’io lo fui, viaggiatore.
Saranno i primi freddi a indurmi in queste malinconiche fantasie. Eppure mi sembra che ci sia davvero un che di vagamente cimiteriale nella cultura, nella pubblicistica, nella discussione pubblica italiana sempre intenta a ricordare questo o quell’artista del passato, quel cantante morto nel decennale, ventennale, quarantennale della scomparsa, l’anniversario del Sessantotto, del Settantasette, dello sbarco sulla Luna e del lancio della Duna.
Non c’è idolo o esperienza della boom generation che non meriti una commemorazione, una retrospettiva, uno specialino. Davvero non c’è più modo di organizzare il discorso culturale che non sia ricalcando la funzione “ricordi” di Facebook?
Techetechetè in fondo è uno YouTube per boomer, induce lo stesso cullante abbandono dell’algoritmo ma senza la fatica di accendere davvero il computer. Su quanto quella italiana sia una società gerontocratica si è già scritto tantissimo, inutile aggiungere anche solo una riga. Non è un paese per rottamatori: e del resto gli alfieri del ricambio sono i primi a non farsi da parte quando qualcuno poi viene a rottamare loro. Rottamatore, quel che tu sei, anch’io lo fui. Ma come dar loro umanamente torto dopo tutta la gavetta fatta in un paese di ricercatori stabilizzati a quarant’anni e redazioni in cui un cinquantenne è “il giovane”? Non guardate me.
“Ok, boomer” è stato il grande meme di fine 2019, prima che ovviamente il Covid spostasse la nostra attenzione su altro (ne scriveva proprio Bernd Urlich su Domani di domenica 6 dicembre). La blanda ironia del meme è stata comunque mal vista in un paese come il nostro che ha in orrore qualsiasi idea di conflitto e ammette al massimo la polemica o lo scazzo, che del conflitto sono la versione omeopatica.
Ma “ok, boomer” ha soltanto dato forma a quell’istintivo, nervoso sospiro soffocato tra i denti di fronte all’ennesima arrogante pretesa di un boomer di aver capito tutto, di dare consigli paternalistici, di esaltare le forme culturali della sua giovinezza, e di lasciare che il mondo bruci per garantire i privilegi di cui lui e la sua generazione hanno goduto finora.
E se fossero sociopatici?
Con la pandemia non è cambiato molto. Anzi, il generale spostamento delle attività online ha moltiplicato le occasioni per mormorare, magari dopo aver silenziato il microfono della call, “ok, boomer”: da “rispondi a tutti” mandati alle persone sbagliate, a telecamere che inquadrano il soffitto in interminabili sessioni di Zoom.
Mentre il virus, là fuori, falcidiava la generazione precedente, quella dei nonni: vite trasformate in numeri dall’indifferenza, esistenze disumanizzate, ridotte a statistiche da mettere sull’assurda bilancia tra salute e economia. Chissà come andrebbe aggiornato al Covid, un libro del 2017 intitolato A Generation of Sociopaths: How the Baby Boomers Betrayed America.
E se fossero, letteralmente, sociopatici? Bruce Cannon Gibney si chiedeva se non ci fosse un che di psicotico in una generazione che, una volta arrivata al potere, ha fatto del suo narcisismo nichilista un progetto politico e culturale. Una visione del mondo ormai egemone che ha dirottato e messo in crisi qualsiasi idea di futuro per le generazioni successive a forza di Brexit, Trump e cambiamento climatico.
Mal d’archivio
Ma è forse a livello culturale che questo fenomeno si vede più chiaramente: la pubblicistica, i giornali, le trasmissioni televisive, la discussione pubblica è monopolizzata dagli idoli dei boomer. Idoli che sono il più delle volte morti. C’è qualcosa di deprimente in questa costante commemorazione, nel ricordo del caro estinto che sia ancora caldo o a dieci, venti, quarant’anni dalla scomparsa. Anche perché questo costante ricordare, questo total recall, questa memoria totale, è l’esatto opposto di un rapporto fertile con la tradizione, con la storia. Da dove viene questa cappa soffocante che inibisce e smorza empiti creativi se non l’idea stessa di futuro?
Il primo motivo è quello più ovvio: il pubblico disposto a pagare per un prodotto culturale è formato da gruppi demografici dai cinquant’anni in su, gli unici che possono ancora permetterselo. E in tempo di crisi, ovviamente, si punta sul sicuro piuttosto che “esplorare nuovi mercati”. Su questo non ci piove, ma non è l’unica spiegazione: il fatto è che nessun’altra epoca come la nostra è stata tanto ossessionata dal passato recente.
Attenzione: ogni epoca ha fatto i conti col passato, ma era un passato lontano nel tempo, la cui distanza di secoli quando non di millenni (si pensi a ciò che è stata la classicità per il rinascimento, o il medioevo per il neo-gotico di fine Ottocento) permetteva una rielaborazione creativa, costringeva a colmare le lacune che l’oblio aveva allargato. Quello che caratterizza gli ultimi vent’anni, invece, è la disponibilità, immediata e facilmente fruibile, della totalità del passato recente così com’era, perché quel passato è stato digitalizzato.
Lo racconta benissimo da Simon Reynold in un libro il cui titolo, Retromania (minimum fax), è diventato l’etichetta con cui definire il fenomeno: «Lo scenario che immagino, più che un cataclisma, è un esaurimento graduale. È così che finisce il pop: non con il bang del colpo di grazia, ma con un cofanetto il cui quarto disco non trovi la forza di infilare nel lettore cd, o con il costosissimo biglietto per assistere alla riesecuzione traccia per traccia di quell’album dei Pixies o dei Pavement che hai ascoltato fino alla nausea durante il primo anno di università».
Non c’è nulla di più rassicurante del passato recente, soprattutto quando torna in forma edulcorata e pop: chi vuole di nuovo gli anni di piombo e la lotta armata? Chi sogna la crisi petrolifera? A essere rimpianti sono il varietà fatto da professionisti, il giocattolo vintage, una puntata di Kojak, la reunion del gruppo, l’album rimasterizzato, momenti effimeri della cultura pop a cui siamo legati emotivamente. Il momento elevato a monumento.
La disponibilità immediata, infinitamente remixabile, del passato recente digitalizzato, di intere discografie a portata di click, di annate di vecchi show televisivi, crea un’enorme, incombente massa gravitazionale sopra le nostre teste che come un buco nero assorbe qualsiasi slancio verso il futuro. Il filosofo francese Jacques Derrida lo chiamava “mal d’archivio”: il delirio documentale, l’ossessione per non concedere nulla all’oblio, l’autorità oscura che il passato rischia di avere sul presente.
Paura del futuro
Ma il futuro non è scritto, il futuro è vivo e lotta insieme a noi. Deve averlo pensato anche Reynolds se il nuovo libro, dedicato più specificatamente alla musica elettronica, si intitola Futuromania (sempre minimum fax, da poco in libreria): «Il brivido del futuro è diverso dall’adrenalina dell’incontro con la vera originalità, l’ardore carismatico di una personalità unica. È una sensazione elettrica ma impersonale provocata da forme nuove, non facce nuove; è uno sballo molto più puro e forte. È quella scossa paurosa-euforica che la migliore fantascienza sa darti: la vertigine dell’illimitatezza».
Ma questo brivido, molto spesso, non sappiamo o non vogliamo riconoscerlo, non sappiamo vederlo. Soprattutto se non fuggiamo al sortilegio dell’archivio, alla fantasia di un passato in cui c’era un “mainstream” e la produzione culturale e artistica era molto meno parcellizzata, più facile da conoscere e navigare. E per questo meno ansiogena.
Sarebbe esagerato vedere un legame diretto tra l’emergere dei sovranismi e il mal d’archivio, ma sarebbe anche sbagliato non riconoscere che c’è un filo rosso che li unisce: nelle ansie manipolate dai populisti e nei consumi culturali della classe colta progressista boomer c’è la stessa paura del futuro. Non facciamocene contagiare.
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