- Uno dei programmi storici della Rai è stato chiuso per sempre ed è colpa soprattutto dei diritti televisivi che hanno trasformato il calcio. Ai tempi di Fabio Fazio era un format rivoluzionario che univa gli italiani
- Nato da un’idea di Marino Bartoletti, già direttore della testata giornalistica sportiva del servizio pubblico, Quelli che il calcio ha contribuito a modificare radicalmente il rapporto del mondo del calcio con l’intrattenimento
- La novità dirompente di Quelli che il calcio non stava unicamente nel trasformare il culto del calcio in uno show popolaresco e universale, ma anche nel portare per la prima volta sullo schermo immagini in diretta dagli stadi
«Quelli che vi saluta e vi augura un magnifico Natale». Non poteva esserci tono più dimesso di quello con cui la conduttrice Mia Ceran, affiancata da Luca e Paolo, ha voluto congedare dagli schermi uno dei programmi storici della Rai; nessuna celebrazione, niente lacrime di maniera, nemmeno un segnale di commiserazione autoironica, solo il saluto un po’ nervoso di chi ha provato in tutti i modi a prolungare un’agonia ormai del tutto anomala, non più procrastinabile oltre il necessario.
Non è solamente questione di ascolti (che pure pesano indubbiamente più di ogni altra valutazione), di collocazione o di volti, ma di uno spirito del tempo che è venuto meno, di un’epoca ormai del tutto in distonìa rispetto alle premesse e alle pretese.
Quelli che il calcio aveva già da tempo esaurito la sua funzione e l’accanimento, in questo caso, ha rischiato solo di peggiorarne il ricordo. Meglio davvero, in talune circostanze, custodire la memoria che esasperare il rinnovamento, riconoscerne le intuizioni anziché inseguire e consumare improbabili paragoni.
L’idea
Nato da un’idea di Marino Bartoletti, già direttore della testata giornalistica sportiva del servizio pubblico, Quelli che il calcio ha contribuito a modificare radicalmente il rapporto del mondo del calcio con l’intrattenimento; un approccio, quello seguito dal programma, in cui l’alleggerimento della tensione dilagante di un ambiente già allora schizofrenico era davvero l’unica parola chiave, sola e azzeccata cifra stilistica del racconto.
La prima puntata andò in onda su Raitre il 26 settembre 1993, a campionato già iniziato, e fu una ventata d’aria fresca nel panorama ingessato della domenica pomeriggio televisiva. La formula, semplice quanto rivoluzionaria, piacque subito: in uno studio si alternavano commenti tecnici sulla giornata di serie A e gag di personaggi improbabili, il tutto puntellato dalle voci radiofoniche di “Tutto il calcio minuto per minuto” a dare il senso “istituzionale” dell’operazione, e un giovane Fabio Fazio a reggere il filo di un tema conduttore di ogni puntata.
La mitica Raitre
Non era “Tutto il calcio” trasposto in tv, ma semmai la commedia di un gruppo di amici che ascoltano “Tutto il calcio”. Sembrava quasi, come scrisse Aldo Grasso nella sua Storia della televisione, di «ritrovarsi davanti a un chiosco di bibite a seguire le cronache che il graticcio radiofonico regalava a una folla variegata in un giardino pubblico». Un immaginario variopinto e autenticamente televisivo di una classica domenica italiana.
Erano gli ultimi fuochi della “mitica” Raitre di Angelo Guglielmi, il direttore che ereditò un canale vuoto (di contenuti e di ascolti) trasformandolo nel baluardo dell’innovazione, dove cronaca e favola si mescolavano, dove la cultura faceva capolino in forme inedite, non come oggetto, bensì come atteggiamento, come «tensione a scoprire e aiutare l’emergere di tutto ciò che è nuovo, di tutto ciò che, confluendo e intrecciandosi, dà corpo e alimento alla vitalità del reale», per citare le parole dello stesso direttore dell’epoca.
La suggestione Fo
E pensare che la scelta di Fazio non fu scontata; nelle intenzioni iniziali di Bartoletti e Bruno Voglino (allora capostruttura della rete, nonché autore e talent scout inarrivabile) il mattatore doveva essere Dario Fo: troppo “alta”, inaccessibile, forse persino meno manipolabile, la suggestione Fo vanificò, però, presto a vantaggio di Fazio, autore, inviato e conduttore che veniva da Telemontecarlo e da un’esperienza interna allo stesso terzo canale.
Il suo stile scanzonato ed empatico, la sua sottile capacità ecumenica di tessitore di un universo popolato da giornalisti e “macchiette”, seriosità e satira, si rivelarono perfetti per un programma che, puntata dopo puntata, arrivò a tenere testa ai contenitori domenicali delle “ammiraglie” (Domenica In e Buona domenica).
Sbirciare i calciatori
La novità dirompente di Quelli che il calcio non stava unicamente nel trasformare il culto del calcio in uno show popolaresco e universale, ma anche nel portare per la prima volta sullo schermo immagini in diretta dagli stadi, seppur lateralmente, spulciando tra gli spalti, cogliendo in maniera caotica i dettagli delle esultanze dopo un gol, “rubando” frammenti dell’ingresso dei giocatori sul terreno di gioco che accompagnavano la sigla del programma, rielaborata da un brano di Jannacci del 1975 con le parole che cambiavano di domenica in domenica (altro grande elemento identificativo).
Al tifoso non dotato di pay tv, così come all’appassionato più tiepido, questa appariva come un’autentica innovazione, la possibilità finalmente di poter sbirciare i propri beniamini dal buco della serratura, in un’epoca in cui ancora per poter gustarsi gli highlights della domenica occorreva aspettare il grande classico di 90° minuto.
Un universo arboriano
E di 90° minuto, il Quelli che il calcio delle origini condivideva lo stesso copione di fondo, l’idea di costruire maschere che fossero espressione della varietà linguistica e culturale della nazione: là gli inviati dalla marcata inflessione territoriale, qui le pittoresche caricature della geografia del tifo e della chiacchiera calcistica, dal gambiano juventino Idris Sanneh alla laziale suor Paola, dal giornalista finanziario Everardo Dalla Noce al bizzarro giapponese Takahide Sano, dal chitarrista-astrologo Peter Van Wood (ribattezzato Van Goof, con tanto di squadra di calcio direttamente riconducibile al programma) allo statistico impassibile Massimo Alfredo Giuseppe Maria Buscemi («tutto questo, per la precisione», memorabile), dalle mogli dei giocatori inviate negli stadi a un Teo Teocoli in stato di grazia con alcune delle sue imitazioni più riuscite.
E con lo stesso Bartoletti e Carlo Sassi (l’inventore della moviola, uno dei volti più garbati del giornalismo sportivo del servizio pubblico) a scandire risultati, gol e classifiche, a evitare che la bilancia potesse pendere troppo verso lo show fine a sé stesso. Era un universo, quello di Fazio e della sua banda, decisamente “arboriano” nella struttura, ma profondamente nuovo negli esiti: i personaggi non erano fittizi, ma reali, eccentrici fin che si vuole, ma credibili, valorizzati persino oltre i meriti da un grande regista come Paolo Beldì, tifoso viola che a ogni gol della sua squadra riesumava un vecchio inno della Fiorentina rendendolo popolarissimo.
Il dopo Fazio
Ci furono anche momenti dolorosi e scelte controcorrente, come la decisione di sospendere la puntata al termine dei primi tempi dopo gli incidenti di un Genoa-Milan del 29 gennaio 1995 che avevano portato alla morte del tifoso rossoblu Vincenzo Spagnolo: si spensero le luci, lo studio si svuotò e rimasero sullo sfondo solo le voci dei radiocronisti dagli altri campi. La serie A non si fermò (non quella domenica, almeno), la sua narrazione spensierata invece sì, e non poteva essere altrimenti.
Nel 2001 Fazio lasciò il posto a Simona Ventura (nel frattempo, dal 1998, il programma era stato “promosso” su Raidue) che rimase al timone per dieci anni: il successo si consolidò, ma inevitabilmente il programma cominciò a doversi confrontare nell’impari battaglia dei diritti sportivi.
Verso il declino
Con l’esclusiva delle immagini che andava ormai pienamente altrove, sulle pay-tv terrestri e satellitari, Quelli che il calcio si allontanò sempre più dagli stadi per stabilirsi negli studi e nelle esterne, incrementando ospiti internazionali (si arrivò a portare Lady Gaga e Amy Winehouse in day time), ballerini, parodie, contaminazioni con altri titoli di punta dell’intrattenimento Rai. Si provò anche a farsi beffe e ironizzare sull’assenza di diritti, con il Maifredi Team (guidato dall’ex allenatore Gigi Maifredi) che su campetti sgangherati di periferia ricreava le azioni dei gol appena segnati in serie A. E tanta comicità, da Maurizio Crozza a Gene Gnocchi, da Ubaldo Pantani a Dario Vergassola.
L’epoca della Ventura e, in maniera più marcata, il decennio successivo con le conduzioni di Victoria Cabello e Nicola Savino, hanno segnato la trasformazione del programma in varietà puro, con le gag a sfondo politico immancabili quanto stancanti; scomparsi i collegamenti con Tutto il calcio minuto per minuto, il calcio è divenuto mero orpello, persino fastidio necessario di uno show che non aveva più nelle cronache goliardiche e spensierate del pallone la sua ragion d’essere.
Spezzatino
A dare il colpo di grazia a Quelli che il calcio, che negli ultimi anni ha provato molteplici correttivi, dal titolo al formato, dalle collocazioni in palinsesto agli spin-off (B come sabato è stato un esperimento poco riuscito di riadattare la vecchia formula al campionato di serie B), non è stata solo l’impossibilità di mostrare quel poco d’immagini, ma la natura stessa dei calendari: l’esasperazione del “calcio-spezzatino”, la giornata di campionato che si spalma dal venerdì al lunedì, i turni infrasettimanali, l’oggettiva impossibilità di ricreare l’antico rituale hanno messo in luce tutta la fragilità di un modello che si reggeva sul più solido dei collanti televisivi: la simultaneità delle partite e quindi del pubblico potenziale.
Si abbassa una saracinesca che non poteva più restare sollevata se non come stanca testimonianza. Quelli che non avrà cambiato il mondo del calcio, ma ha provato a suo modo a renderlo godibile e sostenibile. Forse non ci sarà riuscito, ma averci provato non è stato da poco.
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