Il ragazzo si era acceso una sigaretta – una Gitane, inevitabilmente. Ad agosto, a Parigi, il Cimitero di Montparnasse non è il primo posto in cui ti viene in mente d’andare, tanto più se hai vent’anni. A lui sì, però. Si era portato le cuffie, si era messo tranquillo davanti alla lastra di marmo bianco e ascoltava la musica di Gainsbourg: «Je suis venu te dire que je m’en vais», forse. Serviva un tappeto sonoro per il dialogo muto tra il ragazzo e l’artista: Serge l’insoumis, che alla fine però si era arreso a un cuore troppo malmenato da alcol, dolori e amori.

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Racconta questa microstoria, Flavia Capitani, autrice di A Parigi con Serge Gainsbourg (Giulio Perrone editore), per dire del mito che tuttora lo avvolge. Anche lei adora Gainsbourg, e Parigi – come tenerli separati, del resto. Il libro è nato da un’ossessione che l’ha portata a ripercorrerne i passi nelle strade di Parigi, fino alla Maison Gainsbourg a rue de Verneuil. Al 5 bis c’era la casa dove visse per 22 anni, intatta dalla morte. Oggi è luogo di culto pagano. I fedeli di Gainsbourg vi arrivano da tutto il mondo, i biglietti subito esauriti: il sito avverte che i prossimi saranno disponibili per aprile 2025.

«Entrano due persone alla volta, la casa è piccola. La voce della figlia Charlotte racconta cosa succedeva in ogni stanza. Sono rimaste le impronte sul divano, l’ultimo pacchetto di Gitanes, il piano. In cucina, barattoli e bottiglie», racconta Flavia. «Sali le scale, in camera da letto solo un piccolo armadio. Lui e Jane Birkin erano icone di stile, eppure gliene bastava uno non più largo di 50 centimetri – dentro le giacche di Lanvin, i jeans uno sopra l'altro, le t-shirt. Altro che le magioni delle celebrità di oggi. E sì che sono stati probabilmente la prima coppia mediatica; c'è un archivio incredibile di loro immagini».

Lui e Jane Birkin

Incarnavano lo spirito così francese dell’on s’en fout. Puoi tradurlo «ce ne freghiamo» ma è di più, anarchia e coscienza di sé, ripudio delle convenzioni sapendole però dominare. Quella Parigi che la protagonista di Emily in Paris non sa vedere, solo scimmiottare.

«Era un uomo contro, che seguiva l’istinto cambiando sempre. Ha attraversato il '900 vivendo lo spirito di ogni decennio. C’è affinità profonda tra Gainsbourg e Parigi: tante anime contraddittorie e identità fortissima. Si è visto all’inaugurazione delle Olimpiadi: c’erano l’accordéon e Mon truc en plume, ma anche l’Ultima cena transgender».

L’autrice li segue nelle strade, nei locali che Serge e Jane frequentavano, nei club dove hanno rivoluzionato i costumi ballando allacciati La Décadanse, sussurrando quel«Je vais et je viens entre tes reins» di Je t’aime moi non plus, che nel ’69 scioccò il mondo. Li segue da rue de la Chine, dove Serge nasce Lucien (il nome francese che gli diedero i genitori, ebrei aschenaziti russi fuggiti a Parigi allo scoppiare della rivoluzione bolscevica), a rue Chaptal: dove il padre, musicista, lo obbliga a suonare il pianoforte. Scarlatti, Bach, Chopin: lui piange e li massacra, a fatica otterrà il diploma di solfeggio. Anni dopo, però, troverà alloggio alla Schola Cantorum di rue Saint-Jacques, e lì comincerà a comporre ispirato dal viavai di artisti.

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Un’altra strada, un altro incontro. Rue de Grenelle, cabaret La Fontaine des Quatre saisons, qui Serge conosce Boris Vian: scrittore, autore teatrale, paroliere, provocatore. Si riconoscono, timidi tutti e due ma arroganti. Juliette Gréco dirà di loro “Stessa violenza, stesso mistero, fratelli nella derisione, la crudeltà e la tenerezza”.

Jane arriverà molte vite, donne, note e notti dopo. Lui 40 anni, lei 22. La vede scendere le scale dell’Hotel Esmeralda, a Rue Saint-Julien le Pauvre, ne resta folgorato. La porta al New Jimmy’s, aperto a Montparnasse da Régine. “Credo di averla conquistata perché non sapevo ballare”, dirà lui. Quella notte nasce il mito Birkin-Gainsbourg. “Un russo e una inglese, eravamo un mix esplosivo, come un Bloody Mary”, spiegò anni dopo Gainsbourg.

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«Fu lei a creare Serge, a farne un simbolo estetico fortissimo», annota Capitani. Scopre le scarpe Repetto che lui portò tutta la vita. Gli chiede di farsi crescere i capelli, radere poco, sostituire i completi con jeans e camicie délavé. A una prima, lei arriva in miniabito trasparente e cestino di vimini, lui in jeans e giaccone blu da marinaio. «Jane gli diede il sorriso. Leggerezza al suo spirito slavo malinconico». La Birkin, del resto, francese come nessuna, non perse mai l’humor britannico: «Le americane pensano che io sia una borsa», diceva del suo status di icona, alludendo alla borsa mitica che 40 anni fa Hermès le dedicò.

Potrebbero esistere, oggi – in tempi in cui tutti reclamano zone protette – personaggi così poco compiacenti? «La Francia li adora per questo. Gainsbourg era contro la banalità. Molto di ciò che fece oggi è impensabile, sarebbe espulso da qualsiasi contesto. Ma non si possono giudicare i personaggi di ieri con gli occhi di oggi».

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