Si può accusare Colombo di un sacco di cose. Schiavista di sicuro, comandante e governatore talvolta violento e senza scrupoli. Ma anche uomo incrollabilmente legato alla sua epoca.
Il navigatore genovese viene spesso indicato come colui che ha dato origine al “genocidio americano”, un simbolo di oppressione che va cancellato.
Ma al di là della colpe personali, che non mancano, quello che è successo dopo la sua scoperta ha radici ben più profonde. E abbattere le statue rischia di essere una facile assoluzione.
Prima l’hanno ricoperta di vernice e incendiata, poi l’hanno tirata giù dal piedistallo e gettata in un lago nei pressi del parco. Era il 10 giugno 2020 ed eravamo nel pieno della pandemia, ma anche nel pieno delle proteste seguite all’uccisione di George Floyd. In pochi giorni, il Black Lives Matter era diventato un movimento: non si trattava più solo dei diritti della popolazione afroamericana, ma delle cause stesse di quella diseguaglianza sociale che attraversa l’America da sempre. Si trattava di storia insomma. E quando si finisce a voler fare i conti col passato, a farne le spese spesso sono i simboli: palazzi, monumenti e soprattutto statue. Non è una novità: è accaduto sempre così.
Gli schiavisti
In questo caso i bersagli dichiarati erano i monumenti dedicati ai colpevoli di schiavismo. Come in quei giorni disse a chiare lettere Nadhim Zahawi, un membro del parlamento britannico: «I mercanti di schiavi non dovrebbero avere statue in loro onore», aggiungendo pure che «abbattere quelle statue non dovrebbe essere un’effrazione della legge, ma dovrebbe avvenire mediante processo democratico». E naturalmente in quei giorni di processo democratico c’è finito dentro di tutto: la statua di Edward Colson, mercante, filantropo e commerciante di schiavi, quella di Robert Milligan a Londra, altro schiavista, l’effigie della regina Vittoria a Woodhouse Moor, Leeds, quella di Winston Churchill a Londra e di re Leopoldo II in Belgio. Ma soprattutto, come sempre, sono state le immagini di Cristoforo Colombo quelle maggiormente bersagliate.
Quella di Richmond, il 10 giugno, è stata la prima: alla base della statua hanno messo un cartello con scritto «Colombo rappresenta il genocidio». Molte altre sue statue hanno seguito la stessa sorte; e naturalmente i dibattiti si sono sprecati. Da una parte coloro che deprecavano quei gesti come inutilmente iconoclasti e violenti. Dall’altra quelli che ricordavano come la storia sia stata sempre segnata dall’abbattimento di statue: divinità, sovrani o dittatori che fossero. Non entro nel merito di tutto questo se non per notare che forse, nel caso di Colombo, qualche riflessione in più non sarebbe stata male, prima di usare la vernice o il piccone.
Tra l’altro non si tratta di una cosa legata solo a questi ultimi fatti: sono anni che diverse comunità del nord e del sud America hanno iniziato a rimuovere le statue del navigatore, contrapponendo alla celebrazione del Columbus day (che negli Stati Uniti cade ogni anno il secondo lunedì di ottobre) la commemorazione del cosiddetto “Olocausto americano”, che però con Colombo ha poco a che fare. In questi mesi sono usciti alcuni libri che è utile leggere per rimettere un po’ le cose a posto. La bella biografia dedicata al navigatore da Giulio Busi e le intelligenti riflessioni che su questo problema del processo a Colombo ha fatto il mio amico Antonio Musarra.
Tutti esperti
Parto da queste letture e da qualche mio vecchio scritto per fare alcune considerazioni generali su questa cosa. In primo luogo è innegabile che Cristoforo Colombo stesso sia in sé stesso un problema. A cominciare evidentemente dalla sua fama: proprio perché tutti ne conosciamo a grandi linee il nome e le imprese principali, tutti ci sentiamo in diritto di avere un opinione su di lui. Ci sono intere biblioteche in giro per il mondo completamente stipate di libri su Colombo. Nel tempo gli hanno attribuito qualsiasi identità: era ligure (e questo è certo), era spagnolo, era portoghese, era ebreo, era templare.
Poi c’è la questione della personalità. Ai bei tempi andati qui in Italia lo si mise a forza tra i padri della patria, rivendendolo come il modello dell’audace navigatore italico (in quella collezione di santini nazionali Dante era il poeta, Leonardo lo scienziato e così via). Ne venne quindi fuori un tizio un po’ improbabile, fatto di «indomito carattere, infrangibile costanza nei pericoli, specchiato valore, energica e indefessa operosità, fede viva, pii sentimenti» e via dicendo. Uno già pronto per le statue insomma.
Poi lo spirito del tempo soffiò altrove e di Colombo si cominciarono a notare altre facce. Trascinato dalle rivoluzioni terzomondiste, divenne il modello dell’usurpatore, avido, schiavista e assassino; che sicuramente parecchio di vero c’è; ma da qui a incolparlo di tutti i successivi mali dell’America un po’ ci corre. E gli storici, a questo punto, tendono non solo a mettere in guardia dai facili anacronismi, ma anche a ricordare come le cose siano sempre più complicate di qualsiasi facile giudizio.
Di Colombo ad esempio quasi tutti conosciamo – o pensiamo di conoscere – qualcosa della scoperta, cioè del periodo che va dalle prime convinzioni del navigatore, sino alle avventure dell’anno 1492.
Volendo riassumere parecchio si potrebbe metterla così. Agli inizi c’era stato il mare. Quello della sua Genova guardato da bambino. Poi quello attraversato da ragazzo, come commerciante o come corsaro all’occorrenza, lungo le coste del Mediterraneo, a Tunisi ad esempio, e poi sulle rotte dell’Atlantico, sino in Francia, sino in Inghilterra. Quindi l’idea: che si potesse giungere in Asia, a Cipango e nel Catai, passando da occidente. Non era solo farina del suo sacco: da quasi un secolo in Europa tutti spingevano per trovare nuovi spazi sull’Atlantico. Portoghesi, spagnoli, francesi si inseguivano tra le coste dell’Africa e lungo le nuove rotte delle isole, Azzorre e Canarie soprattutto.
Un errore fortunato
Lui quelle rotte aveva imparato a conoscerle assai bene, per esperienza e per letture: studiando le mappe e discutendone con umanisti e religiosi. E facendo pure qualche calcolo azzardato: la terra era sì tonda (questo lo sapevano tutti ai tempi), ma secondo lui doveva misurare non poi tanto: una lunghezza all’equatore pari più o meno a trentamila chilometri; cioè tre quarti in meno di quanto è in realtà. L’errore più fortunato dell’intera storia della navigazione. Giunsero quindi i tempi delle richieste: al sovrano portoghese prima (che rimase parecchio indifferente); ai sovrani spagnoli poi. Ma un po’ Isabella e Ferdinando avevano altro a cui pensare in quel momento, la guerra contro i musulmani di Granada innanzi tutto; un po’ quell’idea non è che li convincesse molto. Così furono anni e anni di purgatorio quelli che Colombo passò in Spagna, inseguendo qua e là la corte, riprovando, spiegando, dimostrando. Infine ci riuscì: perché i tempi erano maturi, perché aveva trovato i canali giusti, magari anche per stanchezza.
E giunse così il viaggio: 3 Agosto 1492, tre caravelle (ma sarebbe miglio dire, per amor di precisione, due caracche e una caravella), salparono finalmente da Palos de la Frontera. Seguirono giorni e giorni di navigazione; e attese, speranze, dubbi e patimenti. Sino a quella notte dell’11 ottobre, il cielo coperto di stelle, un silenzio teso tra i marinai; e poi d’un tratto una luce all’orizzonte, si è no due leghe di distanza: terra! E il giorno dopo, quel momento che si sarebbe fissato nella memoria del mondo. Venerdì, 12 ottobre 1492. Sullo sfondo le tre, famosissime navi ormeggiate al largo di una spiaggia colma di vegetazione; Cristoforo Colombo sceso a terra con la barca armata, assieme agli altri due comandanti, Martín Alonso Pinçón e Viceinte Anes. La bandiera reale dispiegata e due bandiere con la croce verde portate dai capitani. E l’ammiraglio, con atto formale, chiedendo a tutti loro che dessero fede e testimonianza di come egli prendeva possesso di detta isola in nome del re e della regina suoi signori. E accanto, a rendere il tutto per loro più trionfale (e per noi parecchio surreale), un gruppo di uomini nudi a fissarli increduli. Le premesse per un gigantesco, tragico, malinteso erano già tutte in quella scena.
Ma la storia più complicata arriva dopo. Quella che non si racconta quasi mai, ma che aiuta non poco a capire la persona e le sue idee. Colombo tornò in Spagna senza eccessiva ricchezza ma con molte cose sensazionali: un po’ di oro, tabacco, alcuni pappagalli e una decina di poveri indigeni catturati. Il tutto quale segno tangibile delle potenzialità delle «isole dell’India oltre il Gange». Questo bastò: furono i tempi del trionfo, delle feste, degli onori e, soprattutto, degli inviti a ripartire presto, per fissare solide basi in quel mondo lontano che tutti credevano essere le estreme propaggini dell’Asia.
La promessa dell’oro
Così Colombo ripartì, ma questa volta era davvero la flotta dell’ammiraglio maggiore del mare Oceano: diciassette velieri e millecinquecento persone, tra nobili, preti, artigiani, medici e notai. Il 19 novembre 1493 erano a Porto Rico e pochi giorni dopo a Hispaniola, dove nel viaggio precedente aveva lasciato un equipaggio. E a guardarla da lontano, da secoli ormai di distanza, è come se da quel momento quella storia di fortuna e gloria avesse preso a guastarsi, a marcire. Non c’era più nessuno nel fortino: erano tutti morti. Quei pacifici nudi indigeni, forse non erano così disposti a subire passivamente la presenza violenta e arrogante dei nuovi venuti. Colombo però non si perse d’animo e fondò subito una nuova cittadella, dedicata alla sua regina, La Isabela.
Scrisse quindi ai sovrani promettendo a breve molto oro. Ma di metallo prezioso ce n’era poco; e in compenso gli uomini cominciavano a star male, a centinaia: per il caldo, il cibo e chissà cos’altro. Cominciarono i sospetti, gli odi, le ribellioni. E intanto nativi venivano schiavizzati a centinaia e spediti in Spagna, nella speranza che così facendo, i sovrani dimenticassero tutto quell’oro promesso e mai arrivato. E questo mentre i coloni spagnoli che si ribellavano venivano trattati come potenziali ammutinati: con l’impiccagione o il taglio delle orecchie. No, Colombo non l’avrebbe mai ammesso, ma non sapeva governare a terra: era un grande marinaio ma un pessimo politico. E la situazione preoccupava non poco anche i sovrani, che mandarono subito nelle Indie degli osservatori.
Sogni d’oriente
Colombo tornò in Spagna che era l’11 giugno del 1496. Era tutto diverso adesso: doveva chiarire, doveva giustificarsi, doveva forse anche pentirsi. Lui nel dubbio (e con un po’ di senso del teatro) andò incontro ai sovrani vestito dell’abito francescano. Così al terzo viaggio tutto era ormai cambiato. L’interesse per quei luoghi lontani cresceva; e crescevano gli appetiti di mercanti e di politici. E Colombo, soprattutto, era ormai invecchiato e stanco, non faceva che ripeterlo, lo scrisse anche sul diario di bordo, proprio all’inizio del suo nuovo viaggio. Ma certo non aveva dubbi; lui sapeva dove stava andando: in oriente passando da occidente. Ne era, anzi sempre più convinto, forte delle letture fatte proprio in quegli anni: Plinio, Pietro d’Ailly, Enea Silvio Piccolomini e forse pure Marco Polo (perché non è affatto detto che l’avesse letto ai tempi eroici del suo primo viaggio). E tutti gli confermavano della bontà delle sue idee: quelle erano le Indie; là c’era Cipango e l’impero del Grande Cane, là c’era il Gange, e gli altri fiumi che sgorgavano dalla montagna altissima del Paradiso; là c’erano l’oro, le gemme e le spezie; e la risposta a ogni desiderio umano. Sogni di un oriente medievale, che proprio lui stesso, con i suoi viaggi stava contribuendo a sgretolare poco a poco. E alla fine del 1498, sembra davvero un sogno quella natura incontaminata che popola e carte del terzo viaggio di Colombo. Ma invece la situazione era meno idilliaca e assai più ingarbugliata: nella colonia di Hispaniola, che un giorno si chiamerà Santo Domingo, si rischiava ormai la ribellione e stavano aumentando gli intrighi, i sospetti, le calunnie. In quelle isole che l’ammiraglio avrebbe voluto governare quasi da sovrano, vi erano adesso schiavi, stupri, violenze e ribellioni. In quelle isole c’era l’inferno; o almeno un disordine che la Spagna non poteva più tollerare.
Questo pensò più o meno Francisco de Bobadilla inviato dai sovrani per far luce sulla situazione. E Colombo così tornò dal paradiso in catene. Forse il suo ruolo nella storia finì allora: con le umiliazioni, la perdita della carica di vicerè e la fiducia da recuperare. Tutto questo mentre attorno era cominciata la rincorsa a quel mondo nuovo. Erano sempre di più le navi che si avventuravano su quelle rotte, sempre di più le notizie che giungevano disordinate ai porti dell’Atlantico e del Mediterraneo. E qualcuno tra i marinai veniva colto allora dai primi dubbi: forse quelle terre a nord erano terraferma e non isole; e forse continuavano verso sud sino alle Antille e oltre. E soprattutto forse quella non era l’Asia. Ma a Colombo tutto questo sembrava non importare troppo. La sua posizione a corte, ciò che gli spettava: questo sembrava essere per lui l’importante.
Una nuova scoperta
Un ultimo viaggio, allora, e una rotta nuova, ecco cosa ci voleva: scoprire ancora e ancora. Che poi a legger bene le carte, era un’idea dei re cattolici quella di mandarlo a fare l’esploratore, lontano dai possedimenti già scoperti. Se lo toglievano dai piedi insomma. Col vantaggio magari di trovare qualche nuova ricchezza. E lui, Colombo, era ormai così invecchiato da non riuscire più a prendere il comando. Ma non importava: lo sentiva, lo sapeva che la sua era una missione profetica, che tutto si legava, tutto stava giungendo a compimento. Dopo avere incontrato uragani e distruzione, tra luglio e ottobre del 1502 costeggiò quelli che un giorno sarebbero stati chiamati Honduras, Nicaragua e Costa Rica. Pioveva, continuamente.
Gli indigeni erano ostili, pronti a uccidere; gli scafi stavano cedendo, mangiati dai teredini, i vermi che divorano il legno delle imbarcazioni. Sbarcò allora, fece svuotare le navi con le pompe e costruire dei ripari; e mandò esploratori per chiedere aiuto ai coloni di Hispaniola. Ci vollero mesi. Alla fine il 12 settembre 1504 ripartirono alla volta della Spagna, pagando di tasca propria il viaggio di rientro.
Colombo tornò in Spagna per l’ultima volta, ormai malato e stanco, ma forte delle convinzioni che lo avevano spinto per una vita intera. Era riuscito ad andare in Catai passando da occidente. Aveva visto le isole di Cipango. Aveva udito parlare del paese delle Amazzoni e dell’isola popolata solo di Ciclopi. Aveva visto infine le coste dell’India e le maestosi foci di uno dei fiumi del paradiso. La Bibbia stessa aveva parlato di lui e del suo viaggio, disseminando indizi nelle profezie: lui aveva compiuto ciò che diceva Isaia quando parlava di nuova terra e nuovo cielo! Lui aveva trovato le miniere di Tarsis e Ofir con cui Salomone aveva edificato il tempio di Gerusalemme.
Era così convinto di tutto questo che l’ultima sua opera, non fu un diario di viaggio, ma appunto un Libro delle profezie, dove rintracciava per filo e per segno nella Bibbia i passi che riteneva lo riguardassero direttamente. E certo, nel Quattrocento, prima ancora della Riforma, la fede in Dio era materia comune e il dubbio, se c’era, non aveva affatto le forme che oggi gli diamo. Ma c’è qualcosa comunque di impressionante in quel vecchio marinaio, il corpo ormai logorato, gli occhi sempre più doloranti, che vede ormai attorno a sé solo un mondo di segni divini.
Colpire il simbolo
Così eccoci di nuovo al punto di partenza. È abbastanza evidente che si possa accusare Colombo di un sacco di cose. Arrivista probabilmente, schiavista di sicuro, comandante e governatore talvolta violento e senza scrupoli. Ma anche uomo incrollabilmente legato alla sua epoca, alle indubitabili autorità antiche e alla forza della sua religione: in un certo senso incapace di scoprire alcunché perché convinto di poter trovare solo ciò che già si conosce. Certo, potrebbe dire qualcuno, questo va bene ma non lo assolve: non solo ha fatto del male a quella prima comunità di nativi, ma è pur sempre colpa sua se gli assassini sono poi arrivati a frotte in America.
Certo, forse, ma come obiezione non vi fa venire in mente Non ci resta che piangere? Vi ricordate la trama? I due protagonisti si ritrovano improvvisamente sbalzati dal Ventesimo secolo al 1492; lì Saverio, interpretato da Benigni, convince Mario, il grande Troisi, a seguirlo in Spagna per impedire il viaggio di Colombo e salvare la sorella, caduta in depressione per essere stata lasciata da un americano. Se c’è una cosa che la storia insegna è che quando i tempi sono maturi, le scoperte o le invenzioni arrivano, ci piaccia o no. Ed erano così in tanti a girare per l’Atlantico in quegli anni, che se non fosse stato Colombo, magari ci avrebbero messo qualche anno in più, ma su quelle coste qualcuno ci sarebbe finito comunque.
E questo naturalmente non cambia di una virgola l’importanza di condannare con tutta la forza possibile, lo schiavismo e i genocidi che hanno attraversato e infangato la storia. A cominciare ovviamente da quella americana: intere culture spazzate via, uomini e donne massacrati, umiliati, sfruttati, depredati, da spagnoli, francesi, portoghesi, inglesi, olandesi e via dicendo. E questo a dire il vero, alcuni manifestanti lo hanno anche scritto sulle statue: Colombo “rappresenta”, tutto questo, ne è il simbolo. Bene, sia pure, ma permettetemi almeno un dubbio: che distruggere i simboli possa essere certo una vendetta postuma, ma porti con sé almeno due problemi; quello di una eccessiva semplificazione e soprattutto quello di una facile assoluzione.
Perché la storia oscena della schiavitù ci accompagna da sempre. Da Aristotele che definì gli schiavi delle «macchine animate», a Roma che eresse buona parte della sua ricchezza sull’uso massiccio del loro lavoro. Dalle navi veneziane e genovesi che per secoli incrociarono nel Mediterraneo medievale colme di turchi, berberi e slavi (così tanti questi ultimi che il loro nome ha finito per indicare l’intera categoria), alle navi saracene, more o turchesche, come le chiamavano i loro nemici, che predavano ogni anno le coste dei cristiani. Poi in tempi più moderni i mercanti cristiani e musulmani che predavano le coste africane per rifornire le navi in viaggio per le Americhe. O gli eleganti proprietari delle piantagioni di cotone che punivano gli schiavi fuggiaschi impiccandoli o lasciandoli morire appesi agli alberi (Strange Fruits, strani frutti, li avrebbe chiamati in una canzone terribile e struggente Billie Holiday). Sino ai tempi più recenti, dove la schiavitù certo è scomparsa formalmente; ma solo perché spesso preferiamo non sapere o non vedere.
Colombo ha le sue colpe, ma quello che è seguito a lui ha radici ben più profonde e ben più complicate. E la storia anche a questo dovrebbe servire: a dubitare delle facili soluzioni; a chiederci se quella statua un po’ non ci assomiglia.
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