I nuovi studi sui cattolici nella Resistenza ci trasmettono una immagine meno stereotipata, soprattutto in merito alla questione della violenza agita, da sempre rovello ma anche elemento rivendicato come distintivo. Una acuta messa in discussione di questo tema  si trova nel volume Una violenza “incolpevole”, scritto da Alessandro Santagata e pubblicato da Viella nella collana dell’Istituto Parri.

La ricerca è stata la prima vincitrice del premio Pavone, e proprio dallo storico Claudio Pavone (e da Santo Peli) prende le mosse: i nodi della scelta e della violenza sono centrali; ma per capire se e come rispetto ad essi ci sia una specificità cattolica, l’autore decide di studiare la Resistenza tra Padova e Vicenza.

In Veneto

Non si tratta certo di fare del localismo, ma di circoscrivere il dominio di osservazione per affrontare il tema in profondità  e nel lungo periodo. E la scelta delle province di Padova e Vicenza (per altro con ampi sconfinamenti nel resto del Veneto e interessanti osservazioni comparative) non è casuale.

Sono territori a base agricola e profondamente religiosi, fortemente coinvolti in entrambe le guerre mondiali. Anche se sono già stati oggetto di molti studi, si prestano a capire le origini, gli sviluppi e i lasciti del peculiare rapporto sviluppato dal mondo cattolico con la scelta delle armi, la pratica della violenza, e soprattutto le loro modalità di rappresentazione.

Violenza e religione

È la Prima guerra mondiale, con il ripristino dei cappellani militari e il ricorso alla benedizione degli eserciti, a stringere il nodo tra nazionalizzazione della religione e confessionalizzazione del nazionalismo.

I cattolici, chiamati al riscatto patriottico, recuperano il magistero sulla “guerra giusta” e lo adattano al nuovo contesto della società di massa. Per conciliare la pratica della violenza  col quinto comandamento, si ricorre all’idea dell’«uccidere senza odio» e si esalta il combattente che sa controllare le passioni. Il martire cattolico per la patria, incarnato da Giosuè Borsi e Guido Negri, diventa così il modello di riferimento.

I popolari che fanno opposizione politica sono pochi, più numerosi i giovani cresciuti nella dittatura che difendono le prerogative della chiesa e la seguono nel suo progressivo allontanamento dal regime dopo le leggi razziali e l’entrata in guerra.

Dopo il 25 luglio, in un contesto che valorizza il ruolo della Chiesa a difesa delle comunità, l’episcopato veneto chiede cautela, ma alcune figure, come Fraccon e Sabadin, riaggregano i cattolici mettendoli in comunicazione con le altre opposizioni politiche.

Lotta senza odio

Con l’armistizio, la gerarchia si mantiene cauta, contraria ai turbamenti dell’ordine pubblico e alle logiche della guerra civile. Tra i preti si registrano atteggiamenti differenti: molti sono prudenti, pochi sostengono Salò, la maggior parte accoglie i perseguitati (sbandati, ex prigionieri alleati, ebrei). Tra quelli che si schierano a favore della Resistenza, si registrano casi di ospitalità ai partigiani;  di incitamento alla renitenza; e anche  di partecipazione attiva, come assistenti spirituali delle formazioni (come don Antonio Pegoraro).

Tra i laici, se i documenti di Azione cattolica non evidenziano particolare attenzione al tema, le biografie di molti dirigenti, soprattutto dei laureati e dei fucini, mostrano invece un ruolo importante di indirizzo e di azione.

La scelta di “resistere” ha per lo più motivazioni locali e contingenti, spesso prepolitiche; ma nei vertici, c’è maggior consapevolezza: scatta la rivolta morale contro l’invasore ateo e violento, ma pesano anche la fedeltà al giuramento al re e motivi patriottici legati al ricordo della Grande guerra.

Analizzando la stampa partigiana (sia di partito sia di brigata), Alessandro Santagata nota come prevalga tra i cattolici una idea della Resistenza come assistenza e come sostegno alla guerra alleata (con cui ci sono legami attraverso le missioni Oss); ma come non venga esclusa la scelta delle armi, che viene però declinata secondo i modelli acquisiti. L’indicazione dei vescovi non è tanto quella di astenersi, ma di condurre la lotta senza odio, senza vendette, senza indisciplina; cioè con forza, ma non con violenza.

Violenza “incolpevole”

Nella primavera le bande si trasformano in brigate, di cui Santagata mappa origine, posizioni e consistenza, concentrandosi poi sulle “autonome”. Variamente legate alla chiesa, in esse prevale però un approccio militare, ispirato al mondo alpino e in grado di fornire, come già intuito da Pavone, una legittimazione a combattere.

Ma qui siamo di fronte a un conflitto non ufficiale né simmetrico, che fuoriesce quindi dai canoni della guerra giusta; e soprattutto a una guerra civile. Va quindi elaborata, attraverso la riconfigurazione di motivi pregressi, una retorica della “Resistenza giusta” per affrontare, anche aggirandoli o eludendoli, i dilemmi del nuovo contesto.

Interessante è lo sforzo dell’autore di individuare gli strumenti e i contenuti di questa narrazione della violenza “incolpevole”, ricercandone le matrici nel passato, ma anche individuando le novità poste dal 1943. I cattolici si contrappongono al nemico “barbaro invasore” e ai fascisti suoi alleati, che vivono la seduzione della violenza; e soprattutto ai clericofascisti, che piegano lo stesso magistero in direzione opposta.

Combattere per amore

Ma fin da subito si sentono e si dicono anche diversi dai loro compagni comunisti e azionisti riguardo ad alcune questioni chiave: la pratica di azioni offensive, il trattamento del nemico prigioniero, la considerazione dei rischi di rappresaglia. Santagata cerca di contestualizzare e decostruire queste rivendicazioni di diversità; e sfruttando al meglio le fonti soggettive, ci dimostra come le distinzioni siano assai meno nette.

La sensibilità per la questione della giustizia interna o gli scrupoli per la salvezza dei civili non appaiono esclusive solo dei resistenti cattolici; e, per contro, essi non sono del tutto esenti dall’uso delle armi, anche in chiave offensiva.

Certo ci sono da fare distinzioni di luogo e di tempo: più forti le differenze in pianura, dove si pratica essenzialmente il sabotaggio; e più evidenti alla fine dell’estate del 1944, quando i numeri e le aspettative si alzano e i tedeschi rastrellano ferocemente (mentre nella fase dell’insurrezione, quando pure nascono le brigate del popolo, tutti sembrano cedere alla logica della guerra totale).

Pesano inoltre altre questioni: la distinzione tra clero e laicato, con la costruzione a posteriori di “cappellani partigiani” che non sono mai stati né codificati né incoraggiati; o quella tra uomini e donne, anche loro protagoniste, come dimostrano i casi di Tina Anselmi (che porta l’arma anche se non la usa, ma partecipa a attentati col tritolo) o di Ida D’este (che giustifica senza remore la repressione delle spie), che emergono nelle fonti orali, ma vengono accuratamente edulcorati nelle rappresentazioni ufficiali.

Il partigiano cattolico, maschio e laico, combatte “per amore” e con amore; ha una idea alta della patria e della chiesa, è disciplinato prima di tutto rispetto alle proprie passioni. Se si guarda alla descrizione coeva di eventi come la beffa di Dolo del 1944 o ai santini di personaggi come Rutoli o Ceroni, si coglie l’esaltazione delle doti specifiche del partigiano cattolico: discernimento, carità e arguzia.

Ma rileggendo i diari storici delle brigate lo scenario appare assai diverso. Certo i cattolici praticano per lo più una “guerriglia a bassa intensità”; ma non si può parlare né di attendismo, né di ritardo, bensì di costruzione di una specifica epica, legata in modo significativo al mondo di appartenenza e per questo capace di una notevole mobilitazione dei contadini.

Un secondo Risorgimento

Dopo la guerra, mentre i vescovi spingono per la pacificazione, il clima si mantiene abbastanza concorde, come mostrano le celebrazioni del 25 aprile e anche le scarse polemiche cattoliche rispetto all’eccidio di Schio (anche se va ricordato che sia in provincia di Padova che in Vicenza città al referendum del 1946 prevale la monarchia).

Ma cambia dopo il 1947, con la rottura del governo tripartito; e a inizio 1948 con la spaccatura dell’associazionismo partigiano. Qui Santagata mostra come la Dc cerchi di assumere il mito resistenziale per ridimensionarlo e depotenziarlo (come si vede dall’esclusione dell’intervento di Mattei dagli atti del primo congresso dell’aprile 1946).

Questo nuovo canone vede la Resistenza come secondo Risorgimento e il resistente cattolico come patriota e non partigiano; esalta i soldati caduti a Montelungo, i resistenti disarmati, o gli armati “santi” come Guido Revoloni. E propone un diverso modello di eroismo, centrato sulla difesa della patria e della comunità

Uno schema spesso applicato ex post, tanto che, soprattutto grazie all’azione di vedove e sorelle, vengono inglobati nella memoria cattolica personaggi spuri, come Luigi Pierobon (credente ma comandante della Garibaldi). È una narrazione efficace, che contribuisce a legittimare la nuova classe dirigente postbellica e a costruire il “Veneto bianco”.

Tra pratiche e rappresentazioni

Pur scontando le difficoltà di accesso alle fonti diocesane, il volume di Santagata offre dunque una nuova lettura della resistenza dei cattolici, non sovrapponibile alla rappresentazione di una omogenea e univoca “Resistenza cattolica”; ma di cui vengono accuratamente ricostruite le matrici culturali, introiettate dai protagonisti e poi proiettate sulle memorie postbelliche.

Questo testo si inserisce peraltro in un quadro storiografico in movimento, che comprende anche i nuovi lavori di storici come Lucia Ceci e Giorgio Vecchio, che di Santagata sono un riferimento.

Nel complesso un fronte aperto e vivace, in cui non mancano divergenze; ma che restituisce alla Resistenza dei cattolici spessore e concretezza, senza isolarli artificialmente dalle altre culture politiche; e dà valore ermeneutico agli scarti tra pratiche e rappresentazioni.

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