Stelle solitarie di Cristina Marconi ruota attorno all’avanzatissimo centro per malati oncologici di Houston. Nel libro gli effetti del cancro vengono descritti in maniera delicata, usando lo sguardo del caregiver
Già dal titolo, Stelle solitarie – che richiama sia la “Lone Star” simbolo del Texas, sia la condizione dei/delle protagoniste del libro, persone brillanti in tutti i sensi alle prese con mali che li precipitano in galassie lontane – capiamo di avere davanti un’opera sfaccettata, polisemica, difficile da incasellare, che oserei definire un “polimemoir”, se solo esistesse questa categoria per mettere insieme autobiografia, diario di viaggio, saggio letterario, longform sociopolitico, romanzo intimo.
Con Stelle solitarie (Einaudi, Supercoralli, euro 17,50) Cristina Marconi ci regala un libro magnifico, breve e potente, che commuove senza mai far leva su sentimentalismi facili, anche se il tema si presterebbe, dato che maneggia una materia vera, dolorosa e delicata come la malattia che colpisce le persone amate.
La storia è quella autobiografica dell’autrice/narratrice che decide, dopo che suo marito Luca ha terminato con buon esito le cure per un tumore, di accompagnare l’amica Vera, lei ancora malata di cancro, a Houston, Texas per un consulto specialistico nel centro più avanzato al mondo per le cure oncologiche.
Un libro dilatato
Il racconto si dipana in una settimana nella città texana, in un tempo e in uno spazio apparentemente ridotti che però si dilatano: in quello di più vite che si incontrano e in geografie che diventano luoghi dello spirito, tra megalomania americana e reali promesse di salvezza.
Aspettavo questo libro anche perché seguo da tempo Cristina Marconi come autrice, sentendo da tempo nella sua voce echi familiari di esperienze comuni (plurisradicate, abbiamo a lungo vissuto all’estero e siamo tornate in Italia con le rispettive famiglie a breve distanza l’una dall’altra, in una città che non appartiene a nessuna delle due, Milano).
Ma il libro che aspettavo non era quello che mi aspettavo, nel senso che rispetto a quanto immaginato e poi promesso dalla quarta di copertina – «un racconto pieno di intelligenza, che si affida alla leggerezza per provare a dire cosa siamo, e cosa possiamo essere, davanti al dolore degli altri» – è molto di più.
È sì una storia intima sulla cura, ma si trasforma capitolo dopo capitolo in altro; passando dai ricordi della nascita di un’amicizia in contesti spensierati, al racconto personalissimo – per quanto fugace – della recente malattia del marito, per poi diventare un diario di viaggio che si sofferma in riflessioni approfondite sulle peculiarità del Texas, passando per pagine meta letterarie sul cancro, malattia che non gode di romanticismi di sorta (continui i riferimenti ad altri autori che affrontano il pensiero su questo male, da Susan Sontag a Siddartha Mukerjee), per poi tornare al racconto remixato di cura e avventura, e farsi quasi romanzo di formazione sul finale, quando Cristina ritrova casualmente un’altra vecchia amica “stella”, anche lei a Houston per ragioni oncologiche, e veniamo proiettati negli anni adolescenziali della narratrice a Roma.
Occhi da caregiver
È in queste ultime pagine che la narrazione decolla “like a rocket” come direbbero a Houston (e come direbbe anche la figlia dell’autrice) e per restare fedeli alle continue metafore spaziali il libro prende ancora una direzione nuova, verso un finale aperto ma rivelatore: agli occhi del lettore risulta luminosissima e chiara una costellazione incredibile di incontri, vite che si intrecciano e si riconoscono in modi inaspettati, dato lo spazio e il tempo in cui avvengono, e soprattutto data la caratura delle conseguenze emotive e materiali – texanamente risolutrici ma anche irrazionalmente magiche – che si portano dietro.
Massimo, il medico italiano a Houston che apre le porte a Vera dell’M.D. Anderson cancer center, Anna, sua moglie, che si rivela subito una generosa guida-angelo custode per Cristina e Vera, la giovane ricercatrice Benedetta, infine Alea, l’amica ritrovata, illuminano il cielo di questa settimana «nella capitale della cura negli anni della cura», che si rivela più densa di una supernova.
Il cancro, raccontato non dal punto di vista del malato, ma di chi gli sta accanto prendendosene cura, si disvela in un modo unico, come appunto illuminato flebilmente dalla luce di stelle distanti, un modo estremamente coerente con la voce e lo spirito dell’autrice, e inaspettato per il lettore. Non si indugia mai nel racconto della sofferenza fisica, i tumori di cui si parla sono solo evocati, senza nessun dettaglio, non sappiamo mai che tipo di cancro abbiano le persone di cui si prende cura la narratrice, né quali organi abbiano colpito.
Vediamo le persone amate descritte nella loro bellezza di sempre, mai vittimizzate. Solo ogni tanto prese da stanchezze, incapaci di stare dietro all’esuberante energia della loro accompagnatrice.
Ma non ci sono descrizioni di corpi alle prese con flebo, effetti collaterali della chemio, ricoveri, operazioni, ferite, feroci cambiamenti nell’aspetto, particolari su cui in altri casi la narrazione della malattia si sofferma, con un intento non sempre limpido, perché l’amore per la verità e il dovere di cronaca hanno dei confini labili con la pornografia del dolore e la manipolazione emotiva e Marconi questi confini non li valica mai.
Il paratesto editoriale presenta questo approccio utilizzando espressioni come “ridente”, “divertente”, “curiosità, immaginazione e gioco”, “avventura”, “modo leggiadro”, “leggerezza” che in qualche modo sottolineano l’atteggiamento empatico e insieme ottimista di Marconi rispetto alla sofferenza e al suo ruolo di cargiver, traslandolo alla sua scrittura.
Pudore
Ma bisogna stare attenti a non farsi trarre in inganno, pensando che questa leggerezza possa in qualche modo sfociare in qualche forma di superficialità. Tutt’altro. Leggendo il libro si ha come la prova del contrario, che la mancanza di dettagli sui corpi malati non è mai sguardo che si distoglie, mai evitamento del dolore, ma è una forma di pudore che è amorevole riguardo.
È chiaro che il tentativo di trasformare il vissuto della sofferenza in avventura, della malattia in cura, della paura in coraggio sono solo forme altissime di attenzione verso l’altro, che rivelano nel profondo cosa significa prendersi cura di qualcuno con intelligenza e rispetto. E la ricerca della bellezza, il cemento che tiene insieme le due amiche da quando sono ragazze, rimane una potente alleata del loro stare insieme, del modo di “prendersi cura” l’una dell’altra, nonché un catalizzatore di gentilezza, altro inaspettato e onnipresente elemento del viaggio texano.
Anche perché per due quarantenni del vecchio continente abituate a una certa idea di eleganza, trovare il bello a Houston non è così scontato. (Ho un caro amico italiano che da qualche anno abita lì e mi ha raccontato che la prima volta che ha visto la città, prima di trasferircisi, è stato colto da un accesso di risa, in taxi. Quando la moglie americana gli ha chiesto il motivo della sua ilarità lui le ha risposto candidamente: «Non avevo mai visto una città così brutta»).
Eppure nonostante il clima imprevedibile, l’inquinamento, l’architettura funzionale ma respingente, la difficoltà di vivere all’aria aperta in spazi pubblici a misura d’uomo, Houston ha una sua bellezza, che si esprime in pieno, qui grazie alla raffinata penna di Cristina Marconi, con il privilegio enorme di rimare con salvezza.
Stelle solitarie (Einaudi Supercoralli 2024, pp. 144, euro 17,50) è un libro di Cristina Marconi
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