- La città del mio sogno è lunga, ha le case bianche, e sui davanzali cinguettano gli uccellini mentre un gatto nero dai grandi occhi gialli li sta guardando con la bocca tremante e quasi piangendo.
- La città del mio sogno oltre ad avere tutte queste belle cose, possiede una qualità impareggiabile. Quando è l’ora di notte s’addormenta, e io posso fantasticare a mio piacere.
- Quell’apparizione al terrazzino era mia, io solo le avevo dato possibilità di farsi quella villetta turchina per la notte. Quell’apparizione era quella ragazza, che senza volerlo mi ero sognata come perfezione.
Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta nel periodico La settimana modenese, anno I numero 3, il 27 dicembre 1930 – anno IX dell’era fascista, pubblicato dall’editore Mucchi che era mio nonno, concorrente del celebre editore modenese Angelo Fortunato Formiggini. Delfini aveva ventitré anni ed è probabilmente il suo primo racconto pubblicato. In calce al racconto c’è un divertente claim pubblicitario di Formiggini.
Non copiare nessuno,
ridi se ti copiano.
A. FORMIGGINI
Editore in Roma
Nel 1931 questo racconto entra nel suo primo libro Ritorno in città edito dalla Libreria Vincenzi, sempre di mio nonno, che sarà ripubblicato nel 1933 dal suo amico Ugo Guandalini, l’editore Guanda. Nel 1932 Delfini va a Parigi con Mario Pannunzio che nel 1933 gli pubblica su Oggi alcuni dei racconti che faranno parte del Ricordo della Basca pubblicato nel 1938. «Se fossi un editore, radunerei tutti i suoi libri in un volume unico. Lo farei subito, senza perdere un solo istante». Lo scriveva Natalia Ginzburg sulla Stampa il 12 gennaio 1971. Antonio Delfini era morto il 23 febbraio 1963. Quell’anno aveva vinto il premio Viareggio con I racconti, pubblicati postumi da Attilio Bertolucci per Garzanti. Più passano gli anni, più lo scrittore modenese, irregolare, dilapidatore, autore di racconti indimenticabili, si impone come uno dei più importanti autori italiani del Novecento.
Nel 1982 l’editore Einaudi pubblica i Diari di Antonio Delfini a cura di Giovanna Delfini, la figlia, e di Natalia Ginzburg. Li anticipa una lunga bellissima prefazione di Cesare Garboli, un critico che sa raccontare. Questo testo di Garboli è stato ripubblicato quest’anno in un libro autonomo col titolo di Un uomo pieno di gioia da Minimum fax con una prefazione di Emanuele Trevi. Così come Garzanti ha appena ripubblicato l’edizione del 1963 de I racconti, quelli con cui Delfini vinse da morto il premio Viareggio. «Uno dei libri più belli e sfortunati del Novecento» scrisse Garboli.
Einaudi ha ora pubblicato una nuova edizione dei Diari, a cura di Irene Babboni, ricavata dai manoscritti inediti dello scrittore. Un libro straordinario di uno scrittore imprevedibile e fantasioso che sfugge a qualsiasi classificazione, la cui voce ascoltiamo come sorprendentemente contemporanea.
Beppe Cottafavi
C’è una ragazza alla finestra
La città del mio sogno è lunga, ha le case bianche, e sui davanzali cinguettano gli uccellini mentre un gatto nero dai grandi occhi gialli li sta guardando con la bocca tremante e quasi piangendo.
C’è il mare che tutti i giorni sospira ora lento, ora grave, e certe volte diventa cattivo. Forse anch’egli vuol mangiare gli uccellini. Ma io voglio bene tanto al gatto che agli uccellini, e benché spesso non si vada d'accordo voglio bene anche al mare.
Al mattino il mare si prende la confidenza di accogliere certi stranissimi chiacchieroni, e ogni anno che passa costoro. aumentano: sicché io e il mare ci guardiamo male. Ma poi viene la sera e fa l’innamorato, mi guarda, prende certi colori fantasiosi, s’appassiona, dice che senza di me non ci può stare e perché non gli resista, mangia il sole e mi si abbandona. Faccio la pace e al mattino seguente si torna da capo.
La città del mio sogno oltre ad avere tutte queste belle cose, possiede una qualità impareggiabile. Quando è l’ora di notte s’addormenta, e io posso fantasticare a mio piacere: non si sente il minimo rumore; per esempio nessuno si prende la libertà di ballare, di giuocare come si fa negli alberghi delle città di nessuno, o di canterellare canzonette in voga o, che so io, di perdersi nella notte come fanno i milordini cui abbia dato di volta lo sparato bianco.
Del resto se la città si permettesse qualcosa di simile la distruggerei. Non posso fare il medesimo col mare perché il mio appassionato è di tutti. (Ti amo – mi ha detto una notte – molto più degli altri, ma ricordati bene che tuo non potrò mai esserlo, perché i miei pretendenti sono tanti che malgrado i miei sforzi non ne ho affogati che una parte microscopica).
La notte, quando non ho voglia di dormire o sono stanco di amoreggiare col mare, passeggio per le vie per vedere se tutto è in ordine. Non tengo guardie, perciò mi tocca far tutto da me eccetto la pulizia delle strade per le quali hanno cura i venti e le nubi.
Se mi salta il ghiribizzo sono capace di andare a svegliare i componenti la grande orchestra del teatro e obbligarli a suonare le fantasticherie che ho per la testa. Resta inteso che il rumore lo faccio fare quando mi pare e piace e come voglio.
Per lo più desidero che la città resti al buio, ma se mi prende l’estro di Parigi vado alla centrale elettrica a fare il diavolo a quattro con quei poveri elettricisti, fino a tanto che la città non sia sfavillante di luci con le réclames luminose e quel che segue. Lo stesso si dica per i giornali, i tram, i taxi, la radio, ecc.
Però i miei cittadini stanno tranquilli perché sanno che certe cose non succedono che raramente. Credo che ricorderanno ancora come la mia più grossa pazzia quella notte, eran le due, che in testa alla banda girai tre o quattro volte la città intera in su e in giù al suono di
Daghela avanti un passo
Delizia del mio core.
Poiché da quella notte, alle nove di sera di ogni Domenica, la banda viene sotto le mie finestre con tutto il popolo festoso dietro, a suonare le canzoni belle del tempo passato, per le quali tutta la città sa, che ho una speciale predilezione.
Anche i treni funzionano quando voglio. Ho fatto costruire molte stazioni ferroviarie perché io le stazioni le adoro, tanto da obbligare il popolo ad andarvi in pellegrinaggio tutte le feste dopo la messa.
La città, essendo mia, alla mercè delle mie lune, che sono anch’esse soltanto mie, la tengo come credo e nessuno mi ha mai detto niente. Perciò se non dò divertimenti alla mia gente lo faccio perché voglio godermi in santa pace nel mio pieno egoismo la proprietà assoluta che mi son fatta con i miei soli sforzi, i quali se non hanno raggiunto lo scopo che mi ero prefisso – la beatitudine – pertanto posso dire che faccio il comodo mio.
Passeggiando una sera sul viale lungomare, sicuro che i miei sudditi fossero già tutti a letto a sognarmi con l’aureola d’oro in testa sostenuto da uno sciame di nuvole, pensavo che cosa avrei fatto se nella mia città si fosse verificato un qualche caso strano. Concludevo che l’avrei distrutta. Ma che sarei diventato, io, dove mi sarei andato a rifugiare, non trovavo. La mia città era la mia unica risorsa, e sprovvisto di essa anche il mare mi avrebbe detto addio o mi avrebbe affogato alla prima occasione.
Ero dunque schiavo della mia città? Senza di essa mi era impossibile la vita?
Come avviene quando i pensieri sono sconvolti, qualcosa di straordinario che vi si riferisce deve sempre accadere.
Ed ecco che tutto a un tratto, proprio davanti a me si presenta una bella villetta del colore turchino per la notte, tenuta meglio delle altre, cogli uccellini cinguettanti al davanzale.
Per la via il gatto nero dai grandi occhi gialli si volgeva di qua e di là, finché non venne a far le fuse accarezzandosi intorno alle mie gambe.
Dal terrazzino della villetta che mi aveva come attirato lo sguardo sembrandomi pieno di un’attesa affascinante, non veniva nessun rumore. E non so perché aspettassi ancora, ché niente mi era stato predetto dovesse avvenire di straordinario. Le porte del terrazzino sembravano sospirare, chiedere grazia al loro signore di essere aperte all’aria notturna che spirava dolce e sottile come un frutto appena colto.
Udii un leggerissimo rumore che veniva dall’interno come il frusciare di una veste di seta, come il canto di un’allodola prigioniera, come se fosse caduto il piccolo anello d’oro della fidanzata.
Ero in ansia, e col cuore che batteva forte guardavo, aspettavo.
Quale meraviglia che non conoscevo si nascondeva nella mia città?
Forse una fata?
Ma era possibile se io stesso ero un mago nemico delle fate? Forse una ragazza, quella che adoravo quand’ero ragazzo?
Ma essa stava in una città del mondo, mica in quella del mio sogno.
Il mare sospirava anche lui come per farmi il verso e deridermi Sembrava che dicesse: – Hai creduto di far tutto da solo per vivere calmo, e invece guarda che cosa ti capita: una meraviglia, che non so poi come andrà a finire. E cosi dicendo gettava due o tre ondate contro il piccolo molo, rifugio dei navigli sconosciuti ai naviganti.
Intanto accarezzavo il gatto, e mi accorgevo che le mie mani ruvide erano diventate morbide.
Chi si nascondeva là dietro?
Finalmente la porta si aprì, e una ragazza venne ad appoggiarsi al terrazzino come un’immagine che non si potrà mai cogliere.
Non so se essa mi vedesse, ma io la guardai perché era bella e sconosciuta. Dire i suoi occhi che si scorgevano brillanti e lontani al buio, dire le sue vesti ornate di merletti che mandavano per l’aria un odore conosciuto come quello di certe feste luminose rimaste nei panorami perduti della memoria, dire le sue braccia nude che mi spiegavano il mutamento delle sue mani accarezzando il gatto, dire quella fronte modellata in maniera da far pensare al suono delle campane in un tramonto d’agosto, dire tutto ciò che era quell’apparizione per me in quel momento, in quella mia città che avevo riscaldata col mio soffio di vagante, dirlo insomma in modo appropriato. mi sarebbe stato impossibile.
Sostai fino a che non giunse l’alba e la ragazza si fu ritirata.
Che dovevo fare?
Il mare sornione non mi parlava, mi aveva già abbandonato. Lei sola era riuscita a fare intera quella conquista, alla quale non ero riuscito se non poco. Il mare era suo. La città non sarebbe stata di altri, dopo la mia fuga che avevo decisa la notte stessa.
Sarei scappato. Non volevo nemmeno tentare la conquista di lei.
In breve sarei diventato uno schiavo e, quel che è peggio, il mare mi avrebbe sempre guardato con sarcasmo quando, la sera nelle mie passeggiate, l’avessi chiamato per conversare un po’ con lui.
Forza divina e maligna dei sogni!
Li avevo costruiti io e adesso erano loro che mi lasciavano andare, anche se non mi scacciavano.
Quell’apparizione al terrazzino era mia, io solo le avevo dato possibilità di farsi quella villetta turchina per la notte. Quell’apparizione era quella ragazza, che senza volerlo mi ero sognata come perfezione.
E oggi, mentre io esiliato allargo gli occhi in una valle immensa, spaventato dal grido notturno delle civette, là assai lontano, nella città del mio sogno c’è una ragazza alla finestra.
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