Dev’essere successo quando avevo circa quattordici anni. In quel periodo di transizione, mi sono reso conto che la donna che mi abbracciava prima che andassi a scuola aveva avuto una vita che non era in alcun modo legata alla mia esistenza. Da allora mi è rimasto in testa, senza saperlo, uno dei kōan che i maestri del buddismo zen usano per allenare i loro discepoli ad ampliare i confini della realtà. Di solito si tratta di una domanda cui si risponde dopo un periodo di meditazione costante, che può durare anni o anche decenni. Qual era il volto dei tuoi genitori prima che nascessi? Quello e solo quello era il kōan per me, come mi ha aiutato a capire un caro amico, esperto in materia, dopo avermi sentito parlare in pubblico del libro che ho scritto su mia madre.

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Né botanica, né alpinista, né venditrice di empanadas, mia madre non ha mai abbandonato la sua famiglia per unirsi a una guerriglia maoista, non è evasa da nessun carcere, non si è data all’alcol, non è impazzita dopo il primo parto, non ha tentato il suicidio. Non ha nemmeno l’aura virtuosa di un’insegnante di provincia, l’animo spendaccione di un’eccentrica cosmopolita o l’ineffabile tristezza di una casalinga. Mia madre ha semplicemente lavorato nei laboratori fotografici dell’AGFA quando era giovane, a New York, poi come impiegata presso la dogana per vent’anni a Bogotà e, più avanti, come governante nella magione di una famiglia di ebrei che si rivelarono i re della pelletteria sulla East Coast degli Stati Uniti. Non ci vedevo un romanzo. O meglio, non mi andava di scrivere una cosa del genere. Niente di più noioso che riempire gli anni sterili con fortune o sventure inventate, truccare il tedio con viaggi mai realizzati o incontri proibiti, o cucire un aneddoto dopo l’altro con fili d’argento o piombo. Soprattutto, non mi attirava l’idea di trasformare una caduta in un trauma.

Alla fin fine, mia madre non era altro che questo, una madre. Eppure avevo comunque l’imperiosa necessità di parlare di lei, come tantissimi altri, perché sono convinto che, prima o poi, chiunque scriva si guarderà riflesso nello specchio materno.

A volte bastano un paio di righe. Per quanto Jorge Luis Borges visse quasi tutta la vita insieme alla madre, non scrisse mai direttamente di lei – o almeno non nei suoi racconti, saggi o poesie più importanti –, ma le dedicò nientemeno che le sue Opere complete (1974).

È inevitabile che la madre appaia o proietti un’ombra sulla pagina. Magari alla fine della carriera di uno scrittore, come è stato per Borges, o proprio all’inizio – e senza le trite spiegazioni edipiche del caso –, come è stato per Natalia Ginzburg con la sua opera prima, La strada che va in città (1942).

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Con quest’idea bloccata in gola come una spina di pesce, ho cominciato a raccogliere libri per sondare le strade esplorate da altri. È così che ho trovato, in una libreria dell’usato di Tel Aviv, una vecchia edizione de Il libro di mia madre (1954), di Albert Cohen. A quel titolo primordiale se ne sommarono altri pubblicati diversi decenni fa, come La lingua salvata (1977) di Elias Canetti. O poco tempo fa, come Tra loro (2018) di Richard Ford, Legami feroci di Vivian Gornick (che non è proprio una novità, fu stampato per la prima volta nel 1987) o Ballata per mia madre di Julían Herbert (2011).

Con il tempo, alle madri defunte, vedove, crocifisse o prostitute, si unirono le madri assassinate, che vagano spettrali nei meandri dello spirito, come quella di I miei luoghi oscuri (1996) di James Ellroy.

Quasi tutti i libri in cui mi sono man mano imbattuto avevano qualcosa in comune: erano memoir dal tono saggistico. E poiché non mi andava affatto di romanzare – cioè non volevo appoggiarmi a nessuna formula, A, B, C, D o 1+2=3 – ho preso anch’io quella direzione. Volevo però costruire un libro ibrido, nel quale oltre a ricomporre e commentare alcune delle storie uscite dal cappello da mago di mia madre, l’idea fosse far dialogare tutte quelle altre madri già scritte. A metà percorso mi sono trovato come in trappola. Avevo una struttura piena di tramezzi, di scale che portavano tutte nello stesso posto, un cortile pieno di erbacce dove una domanda si ripeteva senza sosta: perché qualcuno dovrebbe essere interessato a leggere di mia madre?

Quei libri mi hanno aiutato a chiarire che ci sono solo due approcci possibili quando si scrive di questo argomento: farlo a partire dalla vita o dalla morte. Così ho sentito salirmi lungo la schiena una domanda terrificante, necrofaga: avrei dovuto aspettare che mia madre morisse per scrivere di lei e richiedere immediatamente il mio salvacondotto allo sportello indicato? Un orfano addolorato è intoccabile.

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Peter Handke cominciò a scrivere di sua madre sette giorni dopo il suo suicidio. Intitolò quel libro Infelicità senza desideri (1972).

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Fu il benedetto Sergio Pitol con il suo «Vindicación de la hipnosis» [«In difesa dell’ipnosi», ndt], un saggio autobiografico raccolto nel volume El arte de la fuga, a salvarmi dalle sabbie mobili in cui ero caduto e dalle quali ormai pensavo di non poter più uscire senza qualche inganno romanzesco. Il brano che mi ha tirato il salvagente definitivo è nella prima pagina: «Mi sentivo incapace di descrivere in modo diretto una qualsiasi azione, per elementare che fosse. Dissi che questo potevano farlo altri narratori, e non significava che io fossi più inetto di loro. Nel mio caso, un’esposizione sgombra e nuda, senza aggiunte, senza ritardi, né echi né tenebre, diminuiva in modo fatale l’efficacia del racconto, lo trasformava in un mero aneddoto, in fin dei conti in una volgarità».

Io l’aneddoto ce l’avevo, di questo ero certo. L’aneddoto ideale, platonico. L’ho disseppellito a partire da una frase che ho letto in un’intervista al cantante argentino Sandro, sulle decine di migliaia di sue fan: «Cosa guardano quelle ragazze? Quali bisogni le animano? Quali vuoti? Mi intrigano». Con quelle parole in mente, il mio dovere allora era semplicemente farmi guidare dalla torcia di Pitol.

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Mia madre era stata una di quelle ragazze. L’11 aprile del 1970 assistette a un concerto del grande Sandro al Madison Square Garden. Aveva vent’anni e viveva in una New York elettrica. Sandro fu il primo cantante ispanoamericano a cantare in quel luogo simbolo che ne avrebbe poi consacrati tanti altri.

Ho lasciato che l’aneddoto prendesse innumerevoli forme, come una grande e pigra nuvola in alto nel cielo, cioè ho permesso che la letteratura – e non il romanzare a casaccio – entrasse, con la sua forza ambigua e carica di mistero, in un mondo sempre più ansioso di sapere se qualcosa è vero o è falso. Ho trovato la risposta al kōan.

Il libro è scaturito da un motivo letterario semplice: un giorno nella vita di Gloria. Diciotto ore in cui si condensano tutti gli altri giorni, quelli passati e quelli a venire. Diciotto ore nelle quali mi sono proposto di recuperare la musica delle cose perdute, come dice Pietro Citati a proposito di Scott Fitzgerald: «Per la maggior parte delle persone, le cose si perdono senza rimedio. Per lui invece lasciavano una musica. E l’essenziale in uno scrittore è trovare quella musica delle cose perdute, non le cose in sé».


Gloria di Andrés Felipe Solano per Sur è un romanzo breve e avvolgente: racconta un giorno nella vita di una donna, il giorno che segna un prima e un dopo, il giorno in cui è diventata adulta.

L'autore sarà a Più libri più liberi domenica 8 dicembre alle 15.30 con Dario Ferrari in sala Antares

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