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Quell’ombelico io lo conosco. Il fatto è che di Raffaella Carrà ho sempre pensato che assomigliasse tantissimo a mia madre. O meglio ho sempre pensato che fosse la versione bionda di mia mamma.
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Del resto i dati anagrafici combaciavano: entrambe nate in Romagna nello stesso anno, il 1943. E pure quelli biometrici. E ancora: entrambe cresciute da due donne e senza padre.
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Con la sorella mancata ha mantenuto comunque nella diversità una sorta di legame invisibile e segreto. Oltre a una propensione verso il lavoro, perfezionista e stakanovista, le ha accomunate una certa attitudine caratteriale: la tempra, il coraggio, il desiderio di libertà.
Quell’ombelico io lo conosco. Mi è sempre sembrato così familiare, da avere addirittura covato l’assurda illusione di averci vissuto dietro dei bei giorni sereni, i primissimi, al buio. Il fatto è che di Raffaella Carrà ho sempre pensato, sin da quando la vedevo da piccolissima ballare con le tutine di paillettes nei varietà del sabato sera (non credo siano ricordi miei, che probabilmente non ero neanche nata, piuttosto repliche viste negli anni), mentre rispondeva al telefono a gente che tentava di indovinare quanti fagioli c’erano in un vaso quando tornavo a casa da scuola, o quando mi commuovevo insieme a lei negli abbracci di gente che non si vedeva da decenni sotto la scritta illuminata della sua Carràmba, che assomigliasse tantissimo a mia madre. O meglio ho sempre pensato che fosse la versione bionda di mia mamma, forse una gemella eterozigote separata alla nascita. Un suo avatar, forse.
Somiglianze materne
Del resto i dati anagrafici combaciavano: entrambe nate in Romagna nello stesso anno, il 1943. E pure quelli biometrici: stessa altezza e stazza, stessi occhi neri, stesso ovale, zigomi pronunciati, belle labbra carnose che scoprono nel sorriso piccoli denti quadrati che negli anni si sono separati in un leggero diastema. Identiche anche le mani, grandi, dita affusolate, unghie a mandorla, le mani da carezza. Qualcosa nella voce anche. Una somiglianza che è durata nel tempo, anche nel modo di invecchiare, le cosce sempre più tornite, le rughe d’espressione intorno agli occhi. Le palpebre sempre bistrate di nero.
E ancora: entrambe cresciute da due donne e senza padre. Ma già da questo inizio i destini si sono distinti nettamente: per la mora, mia mamma, il babbo che è mancato era un martire della Resistenza, per la bionda, il babbo che è mancato era un playboy impenitente che non riusciva a stare in famiglia. Raffaella è quella delle due che ha, e che poi si è scelta, un destino “da bionda” anche in senso metaforico. La biondezza di Raffaella, quello stereotipo duro a morire che le bionde siano dotate di scarsa intelligenza, è allora in un certo senso una voluta “stupidità artificiale”. Raffaella è intelligentissima, ma il caschetto biondo le è servito per il suo personaggio, per essere più leggera mentre ballava, per sembrare più frivola di quello che era, per essere riconosciuta anche solo dalla pettinatura che l’ha contraddistinta per tutta la vita (Anna Wintour scansati). E per quei ciuffi – diventati iconici anche quelli – che dopo il colpo di testa dei suoi famosi cambré le si attaccavano alle guance e lei tirava via con le dita, sorridendo mentre riprendeva fiato alla fine dei balletti.
Mia madre non si è mai tinta i capelli ma li ha portati in mille modi diversi – dai ricci afro alla frangetta liscia, mai “iconizzabile” – ed è sempre stata lontana anni luce da ogni cosa che avesse a che fare con la frivolezza. (Per questo io, ballerina mancata, penso di aver preso di più dall’altra, dalla mamma bionda). Non ho neanche un ricordo di mia madre che balla o che canta mentre fa la doccia o cucina. Quando canta, sopra una canzone alla radio, lo fa in quel modo da secchiona, anticipando di un po’ le parole, come ci tenesse di più a far vedere che sa il testo che a godersi la gioia del canto. Risate da sbellicarsi, poche. Tantissima serietà, tantissimo lavoro che non riesce a mollare, come Raffaella del resto, che mica è mai andata in pensione.
Donne emancipate
Con la sorella mancata ha mantenuto comunque nella diversità una sorta di legame invisibile e segreto. Oltre a una propensione verso il lavoro, perfezionista e stakanovista, le ha accomunate una certa attitudine caratteriale: la tempra, il coraggio, il desiderio di libertà. Un’intelligenza profonda, che una ha messo al servizio dello studio e della professione di farmacista e l’altra del ballo, del canto e dello spettacolo ma entrambe senza lasciare mai indietro la politica, le battaglie per i diritti civili, un’idea profondamente emancipata di essere donna.
Gira in questi giorni sui social un ritaglio di giornale con una vecchia intervista a Raffaella dal titolo Siempre voto comunista. Mia madre non lo avrebbe detto in spagnolo, ma la dichiarazione avrebbe potuto essere la sua. E il femminismo. Con mezzi diversi certo, ma scendere in piazza a protestare per il diritto all’aborto non è detto che abbia avuto un impatto così diverso sulla società ultracattolica italiana degli anni Sessanta e Settanta di canzoni che dicevano a milioni di telespettatori che le donne erano libere di usare il loro corpo come volevano, di avere tanti amanti, di innamorarsi di un gay, di svincolarsi da relazioni tossiche per «trovare un altro più bello, che problemi non ha». E la famiglia, poi. Per entrambe non ci sono stati vincoli tradizionali che tenessero.
La maternità
È vero che nello stesso momento in cui la pancia di Raffaella si scopriva a Canzonissima grazie a uno di quei crop-top da scandalo (e che dopo cinquant’anni non hanno ancora smesso di scandalizzare, vista la recente uscita di Macron), probabilmente quella di mia madre si copriva con un vestito pre-maman; alla fine sono state entrambe mamme. Raffaella una madre-madrina per decine di altri artisti che ha aiutato a crescere e che a lei si sono ispirati, per noialtri fan che di lei abbiamo goduto negli anni della sua trasgressione, della sua compagnia, dell’allegria quotidiana, una madre-zia cool, una presenza costante, nelle nostre case, nelle nostre feste. Nessuna delle due è stata moglie nel senso classico del termine: perché per entrambe ha valso l’autodeterminazione del “quando ho deciso che facevo da me”, che era meglio non dipendere da nessun uomo.
E poi quel che è successo col tempo: entrambe battagliere nel passato, rassicuranti nel presente, sempre capaci di parlare a tutti. Lo yin e lo yang di una generazione di combattenti. Ma sempre lì. Immortali.
Mia madre c’è ancora per fortuna e le auguro di esserci ancora molto a lungo, mentre il suo alter-ego biondo ci sarà per sempre ma ormai in un’altra forma, di sola musica. E pare esagerato, lo so, dire questa cosa del sentirsi un po’ orfani adesso, ma io ho questo pregresso nel mio immaginario con mamma-zia Raffaella, e in qualche modo mi sento autorizzata a esprimere il mio profondo dispiacere così, come fosse un lutto di famiglia.
Qualche anno fa un mio amico, che stava realizzando un documentario interessantissimo che si intitola Sex Story (e parla della storia dei costumi sessuali del nostro paese ricorrendo unicamente al montaggio di materiale preso dagli archivi delle Teche Rai), mi scrisse che avendo visionato ore e ore di filmati di Raffaella Carrà aveva notato tra me e lei una certa somiglianza. Allora non ho avuto la prontezza di rispondergli, «Be’ grazie tante. È mia madre bionda».
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