- Anche nel rompere gli schemi, la Carrà è stata custode di un senso della disciplina e dell’abnegazione. Dei suoi tanti volti ci resta il rintocco antico delle “cose fatte bene”, come piace ai romagnoli.
- Senza scomodare la retorica pirandelliana, Raffaella Carrà ha incarnato alla perfezione quella coabitazione tra personalità e necessità; sempre sé stessa anche mutando pelle, “fedele alla linea” pur cambiando continuamente ruolo, volto, prospettiva sulla televisione.
- Un impianto solido, un materiale resistente capace di durare nel tempo, adattandosi alle evenienze, che le consentirà di forgiare uno stile e di traghettarlo dentro le contraddizioni della televisione.
«E Raffaella è mia», cantava Tiziano Ferro una quindicina d’anni fa. Già, di chi è Raffaella? A chi appartiene? In questi giorni di lutto e cordoglio, in tanti da più parti hanno provato a intestarsi gesti e azioni, ritornelli e tormentoni, battaglie e “rivoluzioni” (o presunte tali) di Raffaella Carrà, personaggio talmente eclettico e multiforme da essere consegnato alla mitologia e alla simbologia nazionali praticamente da sempre, sin dagli anni del successo e non in quelli del progressivo distacco dalle scene. Senza scomodare la retorica pirandelliana, Raffaella Carrà ha incarnato alla perfezione quella coabitazione tra personalità e necessità; sempre sé stessa anche mutando pelle, “fedele alla linea” pur cambiando continuamente ruolo, volto, prospettiva sulla televisione. Anticipando e spesso assecondando, ma mai subendo, le trasformazioni del mezzo.
Quel lembo di Riviera
Se è vero che i contatti e gli ambienti di socializzazione dei primi anni di vita possono segnare indelebilmente un carattere, allora si capisce quanto la gelateria del padre e la spiaggia di Bellaria, più volte evocate in questi giorni, abbiano modellato il carattere della giovane Pelloni divenuta Raffaella nazionale: godereccia e razionale come quel lembo di Riviera, affabile ed emancipata, portatrice sana di una “riminitudine” capace di evadere dal locale alla conquista dell’Italia e del mondo. Del resto, nella formazione della Carrà, non c’è improvvisazione, ma pianificazione; già a otto anni si trasferisce a Roma, prima all’Accademia nazionale di danza, poi al Centro sperimentale di cinematografia.
Un impianto solido, un materiale resistente capace di durare nel tempo, adattandosi alle evenienze, che le consentirà di forgiare uno stile e di traghettarlo dentro le contraddizioni della televisione, con le sue insidie e le sue opportunità, le inerzie politico-culturali e le improvvise “fughe in avanti”. Gli esordi cinematografici sono all’insegna dell’impegno e della denuncia: assume ruoli (marginali) ne La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini (1960, tratto da una raccolta di Giorgio Bassani) e ne I compagni di Monicelli (1963), fino a recitare al fianco di Frank Sinatra ne Il colonnello Von Ryan (1965), nella parte dell’amante di un ufficiale tedesco. Un tratto che non dobbiamo pensare scompaia del tutto con la carriera televisiva, dove la leggerezza viene erroneamente scambiata per disimpegno.
Attenta al sociale, la Carrà lo è sempre stata, non solo sul versante del femminismo o del libertinismo come hanno lasciato intendere le cronache di questi giorni. Nel 1986, dopo la protesta dei sindacati bresciani per l’intervista al presidente di Confindustria e titolare della Bilsider Luigi Lucchini, la Carrà spiazzò tutti invitando a Domenica In un operaio della stessa ditta siderurgica, Mario Varianti. E quando qualche giorno dopo, il direttore del Manifesto Valentino Parlato la intervistò sull’episodio e sul perché avesse deciso di dare la parola a quel lavoratore, la Carrà diede una risposta memorabile: «Viviamo in uno stato democratico dove tutti hanno diritto di replica, specie in un programma televisivo che si dichiara popolare e che non deve limitare il suo pubblico ai grandi protagonisti ed escludere quelli che Manzoni chiamava gli umili». Popolare, mai populista, orgogliosamente attratta da quella “poesia delle piccole cose” dagli echi pascoliani che è anche un verso della sigla di Pronto, Raffaella?, uno dei programmi della svolta nei primi anni Ottanta.
La tv si fa parola
Il successo televisivo arriva grazie alle sue doti di cantante, ballerina e intrattenitrice completa: Canzonissima (dal 1970) è il trampolino, Corrado la sua bussola, l’ombelico e il Tuca Tuca i segnali di un timido ma radicale allentamento delle rigidità di una televisione ancora bernabeiana. Quasi senza soluzione di continuità, le sigle dei programmi diventano canzoni di successo, persino slegate dalle singole conduzioni: Ma che musica maestro, Tanti auguri (com’è bello far l’amore da Trieste in giù), Chissà se va segnalano una passione maniacale per la musica in televisione, per il motivetto che esce dal piccolo schermo e diventa inno popolare, interclassista e intergenerazionale. Come scherzava Corrado in un frammento riproposto dalle teche Rai, “senza sigla questa non comincia”, consapevole di ritmi e toni da imprimere al programma.
Milleluci (1974) è la consacrazione, con Mina alla sua ultima apparizione e Antonello Falqui che confeziona su misura l’apoteosi del varietà, compendio ed epitaffio allo stesso tempo di un genere e di un’èra televisiva.
Con Pronto, Raffaella?, il programma che Gianni Boncompagni le cucì addosso reinventando la fascia meridiana allora poco presidiata dal servizio pubblico, la Carrà consolida uno stile e inaugura un modello: la televisione che si fa parola quotidiana, compagna feriale, confessionale dei potenti, sportello d’ascolto e rifugio di gente comune in cerca di un attimo di svago. Con la Carrà, la telefonata da casa diventa espediente funzionale di una televisione in profondo smottamento e in ineludibile trasformazione, la ricerca ossessiva di un contatto con il pubblico che la conduttrice rende caldo, famigliare, naturale, con il gioco dei fagioli, surreale quanto il pappagallo di Portobello, a segnare un’epoca e un immaginario.
Eppure, nel salotto della Carrà transitano anche personaggi della politica e della cultura, sul suo divano si accomodano austeri esponenti delle istituzioni costretti a passare tra ali festanti di giovani sgargianti e sorridenti, ma che lei mette a proprio agio con la risata inconfondibile, con il contatto fisico, con una bonarietà mai sguaiata. Come non ricordare la presidente della Camera Nilde Iotti che propone il taglio dei parlamentari con un linguaggio semplice e accessibile, che ammicca più che argomentare? Come dimenticare Giovanni Spadolini messo di fronte al Forattini che all’epoca lo disegnava nudo? O Giulio Andreotti che parla del suo rapporto con la religione e dell’Europa unita? Oppure ancora, ed è forse il caso più incredibile, l’allora segretario del Pci, l’austero latinista Alessandro Natta, anch’egli folgorato sulla via della nuova comunicazione politica, della commistione tra pubblico e privato cui nessuno negli anni Ottanta sembra sfuggire. Pronto, Raffaella? si trova anche a vestire i panni della “tv di servizio” quando affronta il caso di Giuseppe Russo, un geometra italiano trattenuto in Arabia Saudita, liberato dopo una telefonata che squarciò il velo.
Fuori dall’Italia
Nazional-popolare eppure internazionale, aria da vicina di casa e afflato globale che la porta al successo in diversi paesi e continenti; un’eroina di più mondi, trasversale ai generi, ai gusti e ai pubblici. Il successo al di fuori dei confini nazionali si materializza sul finire degli anni Settanta con alcune tournée come cantante, i suoi brani che diventano ballabili in tutto il mondo e la televisione di stato spagnola, nel complesso periodo della transizione dal franchismo alla democrazia, che le affida una rubrica. È il preludio al processo di “mondovisionizzazione” della Carrà; nel 1981 Gino Landi la guida in Mille milioni, un varietà in cinque puntate ciascuno in onda da una capitale diversa: Buenos Aires, Città del Messico, Roma, Londra e Mosca, con la scoperta delle sue doti innate di intrattenitrice e ballerina anche oltrecortina. Quattro anni dopo, nel 1985, è la volta di Buonasera Raffaella, lo spin-off serale e americano del successo pomeridiano; in onda da New York, non senza polemiche politiche per le ingenti spese di produzione, la Carrà inonda i palinsesti televisivi di diversi paesi (compresi Jugoslavia e Nord Africa) con tre ore di balletti, interviste, musica e gli immancabili giochi telefonici.
E di nuovo in anticipo sui tempi, dopo una non entusiasmante parentesi in Mediaset e dopo quattro anni di esperienza in Spagna per Hola Raffaella, torna in Rai nel 1995 con Carràmba! che sorpresa, il programma che segna la nascita dell’emotainment, dove l’emozione, sincera o forzata che sia, diventa cifra insostituibile della televisione degli anni a venire, provocando tentativi d’ispirazione, consumando epigoni, imprimendo tratti difficili da scorticare. Carràmba! è il segno del passaggio alla maturità, ma anche del ripiegamento: la showgirl che si scopre terapeuta, artefice di ricongiungimenti famigliari e di speranze esaudite, di uno «sfogatoio settimanale» come ha scritto Aldo Grasso.
Ha chiuso con A raccontare comincia tu, una rubrica di interviste di raro garbo, ancora una volta alla ricerca di nuovi linguaggi, di nuovi modi di confrontarsi con il mezzo che fossero allo stesso tempo figli del tempo ed eredi delle sue molte vite. Ecco perché ciascuno può serbare il ricordo della “sua” Raffaella e a nessuno, forse, può spettare l’ardire di incasellarla. Rimane come lascito la profondità di una televisione fatta anche e soprattutto di professionalità, di mimetismo, di ordine. Anche nel rompere gli schemi, la Carrà è stata custode di un senso della disciplina e dell’abnegazione, spontanea senza cedere all’ingenuità, larga senza essere banale, innovativa senza essere inaccessibile; dei suoi tanti volti e delle sue tante anime ci resta il rintocco antico delle “cose fatte bene”, come piace ai romagnoli, e della verità più incontrovertibile: solo se abbiamo regole siamo veramente liberi.
© Riproduzione riservata