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Non è vero che il 51 per cento dei quindicenni è incapace di capire un testo. L’ultima stima a livello nazionale è inferiore al 10 per cento.
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Secondo il rapporto Ocse-Pisa relativo al 2018, la quota di quindicenni che in Italia mostra gravi difficoltà nella comprensione del testo è pari al 23 per cento.
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In generale, questa retorica della crisi applicata alla scuola tende ad alimentare i luoghi comuni di cui si nutre, come quelli relativi al progressivo peggioramento del livello degli apprendimenti.
Davvero, come riportato dai principali organi d’informazione, in Italia il 51 per cento della popolazione di quindicenni è incapace di capire un testo? No. L’allarmante percentuale, comunicata in apertura dell’evento “Impossibile” di Save the Children, è stata frettolosamente rilanciata dai principali media.
Ma analizzando i rapporti delle indagini che si occupano della tematica (Ocse-Pisa, Invalsi), non c’è traccia di quest’informazione. Considerato che per molti studenti un problema di comprensione del testo indubbiamente esiste, per apprezzare le effettive dimensioni del fenomeno e individuare chi è maggiormente coinvolto occorre ragionare ovviamente sui dati e sulle fonti.
Save the Children, nel comunicare il dato, ha fatto riferimento alla “dispersione implicita”: si tratta di una locuzione che per l’Invalsi indica la quota di popolazione studentesca che, pur avendo acquisito un titolo, non raggiunge un livello prestabilito di punteggi alle prove. Il problema è che in nessuna indagine finora pubblicata l’istituto afferma che tale dato è pari al 51 per cento.
L’ultima stima a livello nazionale è inferiore al 10 per cento e il rapporto Invalsi del 2021 riporta che, sebbene il 39 per cento della popolazione di terza media non raggiunga alle prove di Italiano un risultato definito “adeguato” dall’istituto, la quota che si posiziona al livello 1 (quello più o meno associabile alla brutale sintesi “non comprendere un testo”) è al di sotto del 20 per cento.
Se poi si considera la fine della secondaria di secondo grado, la quota di popolazione al livello 1 risulta comunque inferiore al 20 per cento in italiano e al 30 per cento in matematica (è probabile che la confusione nasca dall’aver sommato le fasce di livello 1 e 2 di quest’ultima prova: una plateale miscomprensione del testo da parte di chi ha letto questi dati!).
Tuttavia, va considerato che le prove Invalsi, pur avendo indubbi pregi, non forniscono indicazioni specifiche sulla capacità di “capire un testo”, dato che aggregano in un punteggio unico di Italiano le risposte ai quesiti di comprensione della lettura e a quelli di grammatica e, inoltre, non prevedono il numero di domande a risposta aperta e complessa sufficiente per rilevare la capacità di interpretare e valutare quanto letto. Chi ha malamente semplificato? Save the children o i giornali che hanno riportato male i comunicati stampa?
La “retorica della crisi”
Se vogliamo ottenere dati più validi sulla comprensione del testo della popolazione di quindicenni non resta che affidarci all’indagine Ocse-Pisa. Il Pisa in Italia è gestita dallo stesso Invalsi e si pone concretamente proprio questo obiettivo, impiegando allo scopo strumenti che prevedono un ampio numero di quesiti aperti e complessi.
Secondo l’ultimo rapporto, relativo al 2018, la quota di quindicenni che in Italia mostra gravi difficoltà nella comprensione del testo è pari al 23 per cento. Tanti, ma non la metà; e “gravi difficoltà” non corrisponde a zero. Insomma il problema c’è, non va negato: le lacune nella comprensione del testo riguardano rilevanti quote di adolescenti. Ma siamo ben lontani dall’apocalisse che è stata proclamata in questi giorni.
Inoltre non andrebbe mai dimenticato che definire “incompetente” un quindicenne in base all’esito negativo di una prova standardizzata appare una scelta profondamente infondata dal punto di vista scientifico e pedagogico, dato che la “competenza” in campo educativo ha dimensioni (sociali, emotive, creative) che imporrebbero modalità totalmente diverse di apprezzamento rispetto a un test.
Questo significa non solo che lo stesso concetto di “dispersione implicita” meriterebbe di essere accolto con maggiore cautela ma anche che, più in generale, di fronte a problemi complessi come quelli che caratterizzano i contesti educativi è opportuno evitare di assumere acriticamente e precipitosamente dati, finendo magari col confermare stereotipi e pregiudizi, utili magari a andare ancora addosso alla scuola pubblica.
Meglio prendersi del tempo e studiare, invece di dare credito a un discorso sulla scuola caratterizzato sempre da una “retorica della crisi” che tende a forzare ogni evidenza empirica entro specifici bias di conferma: il catastrofismo fa titoli ma fa anche danni.
Falsità che rimangono
La bufala del 51 per cento di questi giorni non è che l’ultimo episodio di una lunga serie. Senza andare troppo indietro nel tempo, nel 2019, proprio in occasione dell’uscita del sopracitato rapporto Pisa, secondo i primi articoli di giornale l’indagine attestava un tracollo del nostro livello di comprensione della lettura rispetto a vent’anni fa, dato che, citiamo i titoli dell’epoca, “solo uno studente su 20 capisce quel che legge”.
Tuttavia, leggendo la sintesi fornita dall’Invalsi in anteprima alla stampa (scritta in un italiano facilmente comprensibile), si evinceva chiaramente che rispetto alla situazione di vent’anni fa si registrava non un tracollo ma una preoccupante stagnazione, dato che, come già indicato, la percentuale di quindicenni che non comprende i testi proposti, pari al 23 per cento (ma non al 95 per cento riportato dai giornali), era più o meno in linea col valore delle edizioni precedenti.
In generale, questa retorica della crisi applicata alla scuola tende ad alimentare i luoghi comuni di cui si nutre, come quelli relativi al progressivo peggioramento del livello degli apprendimenti.
Sebbene tale peggioramento non sia mai stato riscontrato dalle indagini su vasta scala condotte in Italia negli ultimi cinquant’anni, è davvero difficile che il dibattito sulla scuola non vi faccia riferimento, ignorando completamente il dato empirico o forzandolo entro schemi interpretativi vieti e vili.
Proverbiale è la topica presa da Umberto Galimberti che, su Repubblica, qualche anno fa ha scritto che “gli adolescenti d’oggi conoscono solo seicento parole”. Un dato del tutto inventato ma che – nonostante la puntuale smentita di Tullio De Mauro – avendo le caratteristiche tipiche delle false notizie di una guerra permanente ha ottenuto un successo tale sul fronte scolastico da rappresentare oramai una verità incontrovertibile.
D’altra parte la retorica della crisi sa rimuovere ogni evidenza contraria. Per esempio, scarso o nessun risalto viene dato ai brillanti risultati raggiunti dalla popolazione delle scuole primarie nella comprensione del testo (indagine Iea-Pirls); ed è un peccato, dato che riflettere sui punti di forza aiuterebbe a ipotizzare delle soluzioni ai problemi individuati.
Ma questo stato dell’arte è quello che potremmo definire una sorta di “realismo scolastico” per cui le cose vanno come vanno, e non c’è alternativa all’immobilismo e al declino. Se educassimo invece il nostro stesso sguardo, vedremmo per esempio che nella scuola primaria abbiamo tempi più distesi, un ricorso più frequente a didattiche attive e docenti con una mirata preparazione metodologica. E se dessimo valore a questo tipo di dati ci consentiremmo forse di prendere in considerazione un investimento su questi aspetti anche nelle secondarie.
Sono meglio i giovani
La scuola ha mille problemi, negarlo sarebbe sciocco; ma è ancora meno intelligente pensare di affrontarli con un armamentario narrativo e un paternalismo che umiliano tanto gli studenti quanto i docenti.
La lagna della crisi è probabilmente il modo migliore per lasciare le cose come sono, addossando alla scuola anche responsabilità che andrebbero condivise con il resto delle politiche (sociali, economiche…) facendo in modo che il vuoto così creato venga riempito da volenterosi privati, con la conseguente riduzione del diritto all’istruzione a una lotteria assistenzialistica.
Un problema di lettura indubbiamente esiste. D’altra parte, l’indagine Ocse-Piaac, che confronta i livelli di rendimento dai 16 ai 65 anni, rileva che in Italia sono le fasce più giovani della popolazione a ottenere i migliori risultati in lettura e matematica e che da noi la differenza a svantaggio della popolazione meno giovane è superiore alla media dei diversi paesi partecipanti. A palesare i problemi più gravi nella comprensione dei testi sono le generazioni meno giovani, proprio quelle che in questo momento stanno assumendo decisioni sul futuro di milioni di adolescenti, spesso scrivendo articoli sciatti.
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