Nelle Indicazioni per la scuola dall’infanzia al primo grado superiore, dove tra le indicazioni culturalmente più rilevanti trova uno spazio decisivo la riflessione sull’educazione fisica. Inteso come il terreno in cui, attraverso la messa in gioco del corpo, poter fare emergere istanze comunicative, desideri e necessità fisiche
Da oltre dieci anni la scuola di base, quella che va dall’infanzia al primo grado superiore (le medie per intenderci), si è dotata di un documento bellissimo.
Uno dei principali artefici, Giancarlo Cerini, pedagogista impegnato da decenni nel rinnovamento della scuola oggi non c’è più. Ma se si scorrono le prime pagine delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, sarebbero molti i nomi da citare, da Ivo Mattozzi a Paolo Mazzoli, da Maria Arcà a Daniela Bartocchi.
Il testo, come recita la presentazione dell’allora ministro Profumo, è espressione di un «processo corale, segno “dell’impegno” degli insegnanti di volersi confrontare con questioni culturali, sociali, educative, fondamentali per restituire alla scuola e all’educazione il giusto ruolo». I passaggi sulla necessità che la scuola contemporanea e futura metta al centro della sua azione la persona sono molto belli e importantissima l’osservazione che gli insegnanti pensino i loro percorsi didattici non per individui astratti ma per soggetti che sollevano “qui ed ora” precise domande esistenziali, precise richieste di orizzonti di significato.
A finalità di carattere generale fanno poi seguito indicazioni (non programmi!) che orientino il lavoro degli insegnanti nelle singole materie.
Sebbene neanche questo testo riesca a superare l’impianto disciplinare della nostra scuola, impermeabile purtroppo a decenni di tentativi di mostrare i vantaggi di una visione più aperta e meno legata all’esigenza di stabilire paletti e fissare perimetri, il gruppo che lo ha redatto ha cercato di insistere sull’esigenza di superare quel modello immaginando una scuola che sappia adattare i propri obiettivi al contesto sociale, alle caratteristiche e gli interessi degli alunni scegliendo di volta in volta quali approfondimenti proporre e quali direzioni imboccare abbandonando l’idea che tutti dovessero approdare allo stesso molo alla fine del loro percorso scolastico.
Tra gli aspetti culturalmente più rilevanti la riflessione che riguarda l’educazione fisica e lo spazio che l’alfabetizzazione motoria dovrebbe avere a scuola.
Se è vero come scriveva Deleuze, rileggendo Spinoza, che abbiamo conoscenza di noi stessi dall’azione che i corpi esercitano su di noi e dalle combinazioni che ne conseguono, nelle pagine dedicate all’educazione fisica si percepisce una vera svolta: l’educazione fisica o motoria, che dir si voglia, non è promotrice di attività attraverso le quali raggiungere determinati risultati e mostrare delle abilità. Non è la “performance” a stare al centro della relazione educativa, non è obiettivo dell’insegnante promuovere l’exploit agonistico e i bambini non devono essere fatti oggetto di gratificazione nella misura in cui sono più veloci degli altri, più capaci di afferrare una palla al volo o fare un canestro.
Quello dell’educazione fisica è prevalentemente un terreno in cui, attraverso la messa in gioco del corpo, poter fare emergere istanze comunicative, desideri e necessità fisiche del bambino, così come disagi che altrimenti non emergerebbero. Attraverso il corpo il bambino comunica e supplisce in molti casi alle difficoltà che incontra a veicolare le proprie emozioni e i propri pensieri nelle forme convenzionali.
Anche le attività propriamente sportive a scuola devono per le Indicazioni essere funzionali allo scambio di esperienze con i propri compagni di classe e occasione per promuovere l’incontro con diverse forme di diversità e disabilità. Il gioco e lo sport di squadra diventano strumenti attraverso i quali non selezionare i più bravi nella logica del torneo studentesco e dei giochi interscolastici, ma una opportunità per costruire pratiche collaborative e cooperative, essi diventano mediatori e facilitatori di incontri e relazioni.
Questo è un impianto educativo in totale controtendenza rispetto a quello imposto due anni fa dalla riforma dell’ora di educazione fisica nella scuola primaria. Il dubbio è che tanto il ministro dell’epoca Bianchi, come la sottosegretaria allo sport, Valentina Vezzali, non avessero letto le pagine delle Indicazioni nazionali nel momento in cui hanno pensato di introdurre dei “docenti esperti” – ecco arrivare appunto i maestri di educazione fisica – e affidare a loro l’insegnamento al posto dei docenti di classe.
Purtroppo si è pensato di risolvere il cronico problema della scuola italiana, incapace di garantire il giusto spazio e la giusta importanza al movimento, con un arretramento pedagogico, possibile solo in un paese a digiuno dei più elementari requisiti di conoscenza pedagogica. Alla frustrazione di tutte quelle generazioni di bambini e bambine che si sono sentite dire «niente palestra oggi, non siete stati bravi, non andiamo», come fosse un premio, non si è certo reso giustizia introducendo una figura professionale pensata per raggiungere altri obiettivi, la cui formazione culturale e pedagogica non è assolutamente sufficiente per assolvere al delicato compito che invece la scuola si dovrebbe dare.
Il contraddittorio sistema di alfabetizzazione sportiva del nostro paese, tutto orientato alla selezione dei più bravi e incapace di far convivere all’interno dello stesso gruppo le diversità presenti tra i bambini, le loro naturali disomogeneità, i cui limiti sono evidenti, è diventato modello nella nostra scuola con buona pace di Cerini che lo avrebbe duramente contestato, se ne avesse avuto il tempo.
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