- Convinzioni e militanza politica per i più non sono le motivazioni che spingono a impegnarsi nella lotta, quanto piuttosto il risultato di ciò che sperimentano tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945.
- Esiste però, per tutti, una dimensione che della politica è una precondizione e che si nutre di attese, speranze e sogni.
- E questa stessa dimensione è al contempo ciò che accomuna le diverse anime della Resistenza, dai comunisti ai cattolici, dai socialisti ai militari, dagli azionisti ai liberali, e i suoi protagonisti. Il testo fa parte del numero speciale di Dopodomani dedicato al 25 aprile, in edicola e in digitale da sabato 22 aprile.
Mai come durante la Resistenza, con un mondo che si vuole abbattere per costruirne uno nuovo, con un presente insopportabile a cui mettere fine e un futuro diverso da raggiungere, la politica è nelle cose. Dopo vent’anni di dittatura, però, la politica intesa come progetto – un programma che individua obiettivi e strategie per raggiungerli – e come militanza partitica, di fatto, non riguarda tutti. Almeno non immediatamente.
La politica è una dimensione “totalizzante” – per riprendere una riflessione di Claudio Pavone (Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri 1991) –, e spesso una ragione di vita, per gli uomini e le donne che hanno attraversato il ventennio del regime restando tenacemente attaccati alla propria cultura e alle proprie convinzioni ideologiche, oppure per quanti hanno maturato posizioni antifasciste nel corso del conflitto e a fronte dei disastri militari collezionati dal regime.
Gli “antifascisti storici” e gli “antifascisti di guerra”, e i partiti politici ai quali appartengono, che nascono o si riorganizzano con decisione crescente a partire dal 1942, hanno un ruolo determinante nell’organizzare e guidare la Resistenza. Sono l’anima dei Comitati di liberazione nazionale: i Cln, quello centrale che sorge a Roma all’indomani dell’armistizio, quello che si forma a Milano e che dal gennaio 1944 con il nome di Cln Alta Italia diventa la guida della lotta in territorio occupato e quelli che, come una fitta rete, sorgono ovunque a livello regionale, provinciale, cittadino, di fabbrica ecc.; danno vita a formazioni partigiane o si sforzano di entrare in collegamento con i gruppi di combattenti che nascono spontaneamente, per coordinarli; scrivono e diffondono stampa clandestina per suscitare idee e chiamare alla mobilitazione i diversi settori della società.
Ma gli antifascisti “già formati”, quando nasce la Resistenza, sono una minoranza, mentre la generazione che costituisce il “grosso” delle formazioni partigiane e che si attiva a vario titolo nella Resistenza, è quella cresciuta conoscendo come unico orizzonte il fascismo e per questa ragione non ha e non può avere una cultura politica altra. È proprio l’esperienza partigiana, semmai, a consentire a tanti di acquisire tutto questo.
In altre parole, convinzioni e militanza politica per i più non sono le motivazioni che spingono a impegnarsi nella lotta, quanto piuttosto il risultato di ciò che sperimentano tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Esiste però, per tutti – per chi fa delle convinzioni politiche un perno della propria esistenza e per chi ancora le deve maturare – una dimensione che della politica è una precondizione e che si nutre di attese, speranze e sogni. E questa stessa dimensione è al contempo ciò che accomuna le diverse anime della Resistenza, dai comunisti ai cattolici, dai socialisti ai militari, dagli azionisti ai liberali, e i suoi protagonisti.
Domanda di futuro
Semplificando, si potrebbe schematizzare così: pochi sanno esattamente quello che vogliono – quale forma istituzionale, quale sistema economico, quale modello di relazioni sociali costruire per l’Italia del domani – e peraltro quei pochi coltivano progetti di società anche molto distanti gli uni dagli altri. Ma tutti sanno esattamente quello che non vogliono: la guerra con la sua devastazione e i suoi lutti, l’occupazione con il suo sistema di dominio basato sulla brutalità e sulla rapina, il fascismo con il suo corredo di sopraffazione e ingiustizia.
È una domanda di futuro che scaturisce direttamente dai tratti cupi del presente in cui tutti sono immersi, e per molti mantiene i contorni non nettamente definiti di un sogno da inseguire. Un mondo migliore, più giusto: spesso il desiderio si arresta a questo livello di definizione, o poco oltre, e non solo per l’impreparazione politica che caratterizza un paese vissuto per due decenni sotto un regime dittatoriale, ma anche perché a questo elemento di fondo se ne intreccia uno aggiuntivo, altrettanto condizionante. Il presente di guerra è così incalzante da lasciare ben poco spazio ad altro: perché la vita è a rischio, perché organizzarsi o combattere diventano le incombenze prioritarie ed esauriscono ogni energia, tanto da spingere più in là, al domani appunto, i sogni da raggiungere.
«Quando finirà dunque questa maledetta guerra, quando verrà quel giorno che ci troveremo alla nostra sgangherata tavola, ma ben apparecchiata di ogni ben di Dio?». Lo scrive il 2 marzo 1945 Iole Baroncini, 28 anni ancora da compiere, di Imola, alla sorella Nella, che come lei si trova a Ravensbrück: hanno lavorato per la Resistenza nel bolognese, impegnate in attività di propaganda clandestina, e per questo sono state arrestate e deportate. E prosegue: «Veramente se avremo fortuna di ritornare tutti, la mamma e papà non dovranno più lavorare no, noi siamo giovani, ci rimetteremo presto e lavoreremo […]».
Apparentemente dimesso, questo sogno – che Iole non realizza perché muore poco dopo – è in realtà una spinta potente verso l’impegno, ed è pervasivo. «Ad ogni modo non vedo l’ora che tutto sia finito. Ritorneremo alla bella vita d’un tempo, potremo dedicarci al nostro lavoro e ai nostri studi, godere la casa, riprendere le care consuetudini della nostra amicizia? Se sì, sarà una gran festa: l’optimum!».
Sembra un’eco delle parole di Iole, e invece scrive così dalle montagne cuneesi qualche mese prima, il 22 luglio 1944, Livio Bianco, che di anni ne ha 35 ed è il commissario politico della 1a Divisione giustizia e libertà, rivolgendosi al commissario politico delle GL piemontesi, Giorgio Agosti.
Nelle lettere che si scambiano durante la Resistenza (edite in Un’amicizia partigiana. Lettere 1943-1945, a cura di Giovanni De Luna, Bollati Boringhieri 2007) c’è anche molto altro: discussioni sulla situazione militare, richieste logistiche, considerazioni politiche legate al partito d’azione di cui entrambi sono militanti. Eppure, questo aspetto non è affatto secondario.
A ben pensarci, la speranza di recuperare la normalità del corso dell’esistenza, sconvolta dalla guerra, mostra meglio di ogni cosa come alla radice della Resistenza ci sia un prorompente desiderio di vivere, e di vivere bene. C’è un evidente risvolto individuale e privato, ma chi sogna una vita diversa – e si getta nella mischia per cercare di raggiungerla – lo fa per sé e per gli altri.
Desiderio di libertà
A questo slancio che guarda alla collettività dà voce Gianfranco Sarfatti, comunista fiorentino di 22 anni; è ebreo e, dopo aver portato in salvo i genitori in Svizzera, decide di rientrare in Italia e viene mandato dal partito a organizzare la Resistenza in Valle d’Aosta, dove è ucciso nel febbraio 1945.
Poco prima di passare il confine scrive al padre e alla madre per spiegare la sua scelta, e la sua lettera, come quella di Baroncini, è raccolta nella banca dati delle Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana realizzata dall’Istituto nazionale Ferruccio Parri: «Pensate che mentre sembra che tutto il mondo crolli […], i vostri figli […] guardano al futuro e alla ricostruzione futura dando a questa tutte le loro forze. […] E come io ho riconosciuto il vostro dolore nel dolore di tutti i padri e di tutte le madri sofferenti, voi dovete riconoscere i vostri figli in tutti i bambini e in tutti i giovani che sono nati in questo mondo travagliato».
Forse, insieme alla passione per la vita, il sogno pre-politico di un mondo migliore che accompagna tutti è il desiderio di libertà e di giustizia nelle molte possibili declinazioni di questi termini: libertà dalla guerra e dalla paura, libertà dall’oppressione e dalla dittatura; giustizia come punizione dei responsabili di tanto orrore, come fine delle disuguaglianze e dello sfruttamento. Sono sogni ambiziosi, e l’intensità con cui sono stati coltivati, che deriva dai rischi e dalle responsabilità assunti, aiuta a comprendere la profondità della disillusione che molti provano all’indomani della Liberazione, pur essendo stato raggiunto indubitabilmente l’obiettivo di mettere fine alla guerra.
Ma nel tragitto per arrivare fino a lì, chi li ha vissuti e per essi si è mobilitato nella Resistenza, ha conosciuto il costo e l’ebbrezza dell’autonomia, ha sperimentato il senso dell’agire e del protagonismo collettivo. In una parola, ha appreso il significato più profondo della libertà e insieme della politica come mezzo per costruirla, ha imparato le basi della partecipazione e della democrazia.
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