«Alle undici del mattino eravamo già affamate. Non dipendeva dall’aria di campagna, dal viaggio in pulmino. Quel buco nello stomaco era paura. Da anni avevamo fame e paura». Fame e paura, il cibo che sazia la fame ma può condannarti a morte: l’ellissi alla base di Le assaggiatrici, il bestseller di Rosella Postorino Premio Campiello 2018 (Feltrinelli) è potente e paradossale.

Non è fantasia la storia delle giovani paesane tedesche reclutate a forza tra il 1943 e il 1944 per assaggiare i cibi cucinati per il Führer, cavie umane usate per testare l’eventuale presenza di veleno. Ma solo nel 2012 l’unica sopravvissuta del gruppo, Margot Wölk, a novantacinque anni ha trovato, in fin di vita, la forza di raccontare. Il bel romanzo di Postorino è diventato il bel film omonimo di Silvio Soldini, in sala dal 27 marzo con Vision Distribution dopo il passaggio al Bif&st di Bari.

Nella foresta cintata e minata vicino al villaggio di Gross-Partsch, nella Prussia Orientale, Hitler aveva mimetizzato i bunker del suo Quartier Generale, soprannominato Wolfsschanze, Tana del Lupo. La paura del veleno è tra le paranoie ossessive di un uomo che non mangia carne, non beve e non fuma, ma vede nemici ovunque. Meglio rischiare la pelle di sane donne tedesche, che tanto non sono buone da immolare al fronte.

La frase tipica, quando un film di casa ci piace, è: «Non sembra un film italiano». Non è necessariamente un insulto al Made in Italy. Serve a indicare un’opera che sfugge agli stereotipi narrativi e alla cinematografia pigra di troppa produzione nostrana. Le assaggiatrici è una coproduzione italo-belga-svizzera, è girato in tedesco con un ottimo cast interamente tedesco, ma non è questo a farne un film «che non sembra italiano». È il mix felice di rigore stilistico e di intensità, di Storia patita e di mélo.

Le cavie umane del Führer

A guidarci nella vicenda è lo sguardo di Rosa (Elisa Schlott), “la forestiera”, in fuga da Berlino nell’autunno del 1943 per riparare in campagna a casa dei suoceri. Suo marito Gregor sta combattendo in Russia. Come i suoceri, come le sconosciute prelevate dalle SS insieme a lei, ha fede nel Führer e nella vittoria imminente. Qualcuna di loro è addirittura fanatica, ricama cuscini-regalo con aquile e svastiche per il suo idolo.

Quella di Soldini è la guerra che si consuma sul corpo delle donne, così diversa dalla “guerra degli uomini”, ma altrettanto spietata. Donne rimaste sole nei paesi che l’esercito espropria di ogni alimento, coi vecchi e i bambini, perché i maschi sono tutti arruolati. Alternativa secca: o vedove o zitelle. «Una grande storia da raccontare con un piccolo pennello»: il regista ha seguito il consiglio della sua storica organizzatrice di produzione, scomparsa da poco.

Il paradosso dell’intreccio è già negli occhi delle ragazze al primo arrivo nella caserma-mensa che, loro ignare, diventerà una prolungata prigione diurna. Il terrore diventa brama incredula, saliva a fiotti, davanti a una tavola apparecchiata, a piatti da chef conditi col burro introvabile. E il terrore torna, paralizzante, quando scoprono la loro sinistra funzione. Mangiano controllate a vista dalle SS, a ognuna una portata diversa da testare. Il cuoco personale di Hitler presiede. «Quante probabilità abbiamo di essere avvelenate?» «Le stesse che abbiamo di perdere la guerra».

Vittime ma alleate

Col tempo l’ostilità delle altre verso “la berlinese”, vestita con abiti buoni da città, si attenua. Tra la tavola e il cortile dove si aspettano gli effetti, sani o letali, del pasto nascono legami, confidenze, solidarietà. Non per tutte. La privazione che le accomuna ha molte facce. A tutte ogni giorno può arrivare, come a Rosa, un telegramma che dà per disperso il marito soldato. E per tutte la carne insoddisfatta parla e chiama.

Che fai se il ragazzino di bottega ti mette incinta, e il Terzo Reich punisce l’aborto con la pena di morte? Elfriede (Alma Hasun), che era infermiera, di nascosto aiuta l’amica. E la pura fame di sesso unisce Rosa al nuovo responsabile della postazione, il tenente Ziegler (Max Riemelt). Che però “esegue gli ordini” e resta impassibile davanti alla violenza fattiva: pugni e calci occasionali, un avvelenamento subìto, il mitra alla tempia se scatta il rifiuto del cibo. Non c’è giudizio morale sul sesso adulterino, ma adesione emotiva e una sensualità rara, femminile, diresti.

Hitler a tratti si assenta, e le assaggiatrici rifiatano: «Oggi non rischio di morire». Ma quando è in sede è un paranoico in delirio che fa sterminare le zanzare del bosco con la benzina per poi spedire le sue SS a sostituire le rane defunte: il gracidìo lo aiuta a dormire. Dell’attentato dinamitardo del 22 luglio ’44, il putsch fallito in codice Operazione Valchiria, alle donne arriva solo il fragore dell’esplosione. Da quel momento però la reclusione è completa, per sicurezza nessuna rientra più a casa.

Non siamo ai livelli sublimi di Jonathan Glazer e del suo La zona d’interesse, ma i due film hanno in comune un microcosmo che sta tutto dalla stessa parte della barricata. Tutti e tutte fedeli al Reich, ma in posizioni di potere diametralmente opposte. Non è la prospettiva schematica di tanto classico cinema mainstream, nazisti contro antinazisti. È ragionare sul cinico sfruttamento di popolane oscure ma anche sugli incubi che perseguitano l’ufficiale al comando. La nudità, nel fienile che funge da alcova, non è solo fisica. È sfogo: «I bambini sono la parte peggiore. Non stanno fermi. Bisogna essere in due: uno li tiene e l’altro spara. Uno dei miei è impazzito, ho dovuto ammazzarlo».

IPhone Face? Non in questo film

Dopo il D-Day il mélo diventa convulso, Elfriede si rivela ebrea sotto falso nome, con l’intera famiglia deportata. Denunciata da una compagna, è braccata anche come abortista. Rosa rischia tutto per portarla con sé sull’ultimo treno militare verso Berlino in cui l’ex amante, che aveva già ripudiato, è riuscito a infilarla. Non finirà bene, ma certo la Rosa del finale ha le idee molto più chiare.

È impossibile immaginare questo film girato in inglese, come nel progetto iniziale elaborato da Cristina Comencini con la figlia Giulia Calenda. La svolta impressa da Soldini, che le è subentrato per l’accavallarsi dei rinvii, la scelta coraggiosa di una lingua che non conosce e di volti a noi ignoti, risulta determinante per far palpitare la storia.

E c’è un dettaglio prezioso, che tanto dettaglio non è. Sul web è esplosa la caccia agli attori “fuori posto”, improponibili per somatica contemporaneità nei film ambientati nel passato. È il fenomeno social ribattezzato iPhone Face. Non vi è capitato di sobbalzare vedendo nel XV secolo di Il re (The King) le faccine instagrammabili di Timothée Chalamet e di Lily-Rose Depp? La rivolta contro l’anacronismo di dentature perfette e lifting sfacciati nei period movie ha bersagliato un esercito di star.

È un caso di iPhone Face Benedetta Porcaroli come Concetta de Il Gattopardo, la serie. Il portatore sano di iPhone è inconfondibile, ha i crismi del Terzo Millennio. Le assaggiatrici, tra gli altri suoi pregi, ha quello di facce meravigliosamente d’epoca, dalla primattrice all’ultimo figurante. E il delizioso sapore della verità.

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