Una grande retrospettiva che riunisce per la prima volta i più importanti capolavori di Donatello a confronto con opere di artisti quali Brunelleschi, Masaccio, Mantegna, Giovanni Bellini, Michelangelo e Raffaello
- «Qual è il tempo di Donatello?». Giorgio Vasari si era trovato davanti a un impaccio: l’autore di cui stava scrivendo era nato nel 1386, ma le sue opere, per approccio stilistico e mentale, si posizionavano ben oltre quella stagione.
- È una sensazione generata dal suo costante sperimentalismo e dalla sua natura così innovatrice. Ad esempio, è lui l’inventore del non-finito in marmo, in bronzo e in stucco, è lui il co-regista, insieme a Brunelleschi, della rivoluzione della prospettiva razionale.
- Donatello decise di spostarsi a Padova intorno al 1443, lasciando in sospeso una enorme mole di incarichi, in particolare per il Duomo. I 10 anni trascorsi in Veneto sono stati anni che hanno cambiato il destino di una moltitudine di artisti del Nord.
«Qual è il tempo di Donatello?». Affrontando il capitolo delle Vite dedicato al grande scultore toscano, Giorgio Vasari si era trovato davanti a un impaccio: l’autore di cui stava scrivendo era nato nel 1386, ma le sue opere, per approccio stilistico e mentale, si posizionavano ben oltre quella stagione. Tra gli sviluppi della storia dell’arte e i lavori di Donatello c’era insomma una vistosa asimmetria.
Vasari risolse la difficoltà facendo ricorso ad un motto greco: «e Bonarreraeotos Donatizei». Tradotto: lo spirito «di Buonarroto antecipò di operare in Donato». In sostanza il biografo spiega il fuori tempo di Donatello immaginando che in lui vivesse già, con un secolo di anticipo, lo spirito di quell’assoluto numero uno, che per Vasari era Michelangelo.
La domanda di Vasari non era affatto né retorica, né mal posta. Infatti è la stessa che scatta visitando la mostra, per tanti motivi davvero eccezionale, in corso nella doppia sede di Palazzo Strozzi e del Museo del Bargello: il tempo di Donatello appare molto più ampio del suo tempo anagrafico. Così vertiginosamente ampio da farcelo apparire in tante situazioni quasi contemporaneo.
È una sensazione generata dal suo costante sperimentalismo e dalla sua natura così innovatrice. Per fare qualche esempio, è lui l’inventore del non-finito in marmo, in bronzo e in stucco; è lui il creatore del gruppo statuario moderno come pure dello stiacciato che sfondava i bassorilievi in direzione di un infinito; è lui il co-regista, insieme a Brunelleschi, della rivoluzione della prospettiva razionale; nello stesso tempo è lui a recuperare e rilanciare la tradizione della scultura in terracotta. «Soprattutto», scrive Francesco Caglioti, curatore e vero grande artefice della mostra, «Donatello è il responsabile del salto culturale verso la prassi – prim’ancora che il concetto – dell’estrema originalità individuale dell’autore, alla ricerca instancabile e pervasiva di tutto ciò che potesse sovvertire le consuetudini istituzionali dell’arte».
Donatello e Brunelleschi
La mostra prende il via proprio da uno di questi episodi contrassegnati da una carica sovversiva. È il caso del meraviglioso Crocefisso in legno di Santa Croce, che aveva fatto storcere il naso a Brunelleschi, al quale pareva che Donatello «avesse messo in croce un contadino». Quando il grande architetto, un paio di anni più tardi, venne chiamato a realizzare un analogo soggetto per Santa Maria Novella, pensò l’opera come una risposta alle malafatte del suo socio. Per tutta risposta Donatello aveva commentato: «A te è conceduto fare i Cristi et a me i contadini». Il tono più che di ravvedimento, era di sfida e tale si conferma ai nostri occhi, davanti alle due opere esposte affiancate a Palazzo Strozzi.
Il sodalizio tra Brunelleschi e Donatello era durato circa quarant’anni, a partire dall’inizio del ’400. Insieme avevano affrontato gli straordinari cantieri del Duomo e in particolare di Orsanmichele, vera vetrina su strada dell’arte nuova che stava investendo Firenze. Qui Donatello dà prova del suo oltranzismo sperimentale: per l’edicola di Porta Guelfa sbaracca il vecchio impianto gotico per proporre un «capricciosissimo tempietto all’antica, sospeso precariamente su un intreccio di vimini» (Caglioti): estroso inganno “polimaterico”, frutto di una mente con la vocazione all’irregolarità.
L’interno della nicchia era destinato a ospitare il fantasmagorico San Ludovico di Tolosa, prima suo bronzo su scala monumentale. Un capolavoro eccentrico, costruito assemblando parti fuse separatamente e dorate a fuoco; più che una statua è una corazza, vuota sul retro, che quindi veste un corpo che non c’è, come nota Laura Cavazzini nella scheda del catalogo. Non è difficile immaginare lo sbalordimento dei contemporanei davanti all’apparizione di questa scultura fantasmatica, tutta rilucente come se invece di essere di bronzo fosse di acciaio. Lo sbalordimento nostro è di saperla opera di seicento anni fa e non di questi tempi…
Il bronzo dorato torna a risplendere sulla predella con il Banchetto di Erode arrivato da Siena e appena restaurato dall’Opificio delle Pietre Dure. Donatello aveva condiviso il cantiere del Fonte Battesimale con gente del calibro di Ghiberti e di Jacopo della Quercia, ma aveva sgominato il campo, con l’inarrivabilità della sua invenzione. Lo spazio del bassorilievo è come risucchiato da un vortice, in un moltiplicarsi di archi e di piani. Come scrive Caglioti, «le regole della prospettiva brunelleschiana sono sfruttate con una disinvoltura ribelle, che si esalta all’idea di rimetterle in discussioni in ogni tono in maniera diversa».
In collisione
Davanti a un’opera così, datata circa 1425, è facile intuire che le strade di Brunelleschi e Donatello dovessero prima o poi entrare in collisione. Va dato onore ai Medici di essersi tenuti legati «un talento così franco e fuorilegge» e quindi di aver a lungo rimandato il momento dell’aut aut, che però arrivò nel corso del cantiere più ambizioso, quello della Sagrestia Nuova di San Lorenzo, vero “sancta santorum” del potere mediceo.
Brunelleschi aveva progettato uno spazio con pianta quadrangolare coperto da un’ingegnosa cupola che trasformava un ambiente feriale (era appunto una semplice sagrestia) in un autentico mausoleo. A Donatello era stata affidata la parte decorativa, come le porte in bronzo che introducevano a due ambienti di servizio e che sono state portate in mostra: nei riquadri sono disposte coppie di santi, apostoli e martiri, che anziché mostrarsi in pose devote discutono animatamente tra di loro, in modo a volte persino esagitato.
La fantasia di Donatello trasforma lo spazio di ogni riquadro in quello di un ring. Più che santi sembrano «schermidori», commentò sprezzantemente il Filarete. Brunelleschi invece accusò Donatello di essere «arrogante». Infatti, con l’appoggio dei Medici, aveva sconfinato dal ruolo di scultore, progettando anche le incorniciature delle porte in macigno, con timpani e travi provocatoriamente in aggetto che violavano il miracoloso equilibrio dello spazio brunelleschiano.
Il fuoriuscito fiorentino
L’esito di quella rottura del sodalizio fu la decisione di Donatello di spostarsi a Padova intorno al 1443, lasciando in sospeso una enorme mole di incarichi, in particolare per il Duomo. I 10 anni trascorsi in Veneto sono stati anni che hanno cambiato il destino di una moltitudine di artisti del Nord, conquistati dalla febbre espressiva del fuoriuscito fiorentino (e tra loro c’è anche un certo Mantegna…).
Così nelle sale di Palazzo Strozzi, insieme a tre importanti testimonianze dei lavori padovani per la Basilica del Santo, sfilano le opere dei tanti rimasti stregati non solo dalle opere ma anche dal metodo di lavoro di Donatello. Aveva concepito la sua bottega quasi come una factory, dove vigeva condivisione di progetti e di idee e, assicura Vasari, anche condivisione dei ricavi: il maestro aveva disposto che ci fosse un sacchetto con i soldi appeso alle impalcature, dal quale ognuno poteva prelevare a seconda dei bisogni.
Tornato a Firenze
Il ritorno a Firenze è contrassegnato in particolare dal reintegro in grande stile all’interno dei cantieri medicei: è infatti chiamato a realizzare i grandi bassorilievi in bronzo per i due pulpiti che presidiavano la tomba di Cosimo in San Lorenzo. Sono capolavori di una modernità quasi sconcertante, che Donatello inventa e imposta, scavalcando tutte le regole compositive, come sottolinea Caglioti, in un «tripudio di irregolarità secondo un continuo variare di spazi, di ambientazioni, di tecniche narrative».
Sulla parte esecutiva stacca la mano lasciando operare con molta libertà la sua squadra: la forza temeraria delle sue idee è così dirompente da far finire in secondo piano soluzioni che possono apparire contraddittorie. In alcune scene gravitano un numero abnorme di comparse, quasi si trattasse della sequenza di un kolossal.
In altre, come il riquadro con la preghiera nell’orto degli ulivi, Donatello immagina che alcuni apostoli per la stanchezza si siano addormentati a cavalcioni della cornice, stabilendo una contaminazione spregiudicata tra spazio rappresentato e spazio dei fedeli. Naturalmente i pulpiti sono rimasti a San Lorenzo e sono appendice necessaria a questa mostra indimenticabile, alla quale si può imputare solo l’obbligo del doppio biglietto per le due sedi espositive e qualche caduta nelle scelte allestitive, come la scelta dell’azzurro, un colore di fondo che poco ha a che vedere con la fiammante irriducibilità di Donatello.
Dal 19 marzo al 31 luglio 2022 a Palazzo Strozzi e al Museo Nazionale del Bargello una grande mostra celebra Donatello “maestro dei maestri” e artista simbolo del Rinascimento
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