La sera del 29 novembre 2010 sono al Torino Film Festival quando mi arriva, dal giornale per il quale scrivo – L’Unità –, la telefonata che non avrei mai voluto ricevere. È morto Mario Monicelli. E la cosa impressionante è come è morto: ricoverato all’ospedale San Giovanni Addolorata di Roma, si è buttato dal davanzale della sua stanza. Ha deciso di dire “basta”, scegliendo lui il tempo e il modo. Ho avuto l’immenso onore di conoscere bene Mario Moni­celli, Dino Risi, Ettore Scola, Furio Scarpelli e Luigi Magni, e di nutrire per loro una forte amicizia che mi illudo di considerare ricambiata. Per questo mi arrogo, anni dopo, il diritto di scrivere questo capitolo in prima persona. Tutti loro, e altri che ho solo avuto la possibilità di intervistare (come Alberto Sordi, Marcel­lo Mastroianni e Nino Manfredi) o che non ho avuto la fortuna di incrociare (come Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Steno, Luigi Comencini e Agenore Incrocci in arte Age), sono stati straordinari testimoni e narratori della storia del nostro paese. Ne erano consapevoli, ma questo non li rendeva mai sbruffoni, o saccenti, o “superiori”. Non se la tiravano. Avevano raccontato l’Italia come nessun altro, a parte Fellini, che alcuni di loro adoravano (Scola, soprattutto, e naturalmente Sordi e Mastroi­anni che erano stati suoi complici e amici) e altri ammiravano a distanza prendendolo amabilmente in giro.

Tra fatti e leggenda

Nel suo bellissimo e commovente libro Forte respiro rapido. La mia vita con Dino Risi (Mondadori, 2020), Marco Risi – figlio di Dino, mio grande amico – racconta una telefonata fra suo padre e Fellini. Lo ha messo nero su bianco, per cui lo si può citare: «“Ma tu ci pensi al grande traguardo?”, gli chiese papà. “Eh, certo che ci penso!”, rispose Fellini. Continuarono così per una ventina di minuti ma qualcosa non tornava, e infine se ne accorsero: Fellini alludeva alla fica e papà alla morte. Strano che non fosse il contrario, qualcuno potrebbe dire, ma andò proprio così». E aggiunge: «Non è tanto importante la veridicità delle cose, quanto la loro credibilità». È un po’ come la battuta di L’uomo che uccise Liberty Valance di Ford che è un filo rosso di queste pagine: «When the legend becomes fact, print the legend». Quello che sto per raccontare è tutto “fact”, ma se pensate sia “legend” sono anche più contento.

Dino Risi abitava da anni nel Residence Aldrovandi di Roma, ai Parioli, con le finestre affacciate su Villa Borghese e sullo zoo. «Un giorno sono andato da mia moglie e le ho detto: non abbiamo più niente da dirci, meglio che ci lasciamo. Mi rispose: ti preparo le valigie. Pensavo di stare al Residence una settimana e ci sono rimasto trent’anni. D’estate, in agosto, l’unico rumore sono i ruggiti delle tigri. Dalla finestra vedo un’aquila, dentro una voliera, sembra incazzata perché non può volare via. Temo che mi somigli».

Me lo fece conoscere suo figlio Marco, un giorno del 1989 che ero andato a intervistarlo su un film che stava preparando, Ragazzi fuori (Marco Risi, 1990). Alla fine dell’intervista mi disse: «Andiamo a cena dalla Celestina, magari ci troviamo papà».

Posso citare il ristorante perché non c’è più, stava su viale Parioli, ha cambiato nome e gestione. Ci andammo e trovammo “papà”. Marco mi aveva detto: «Non tentare di intervistarlo, sarà lui a intervistare te».

Dino era un grande “intervistatore” perché era curioso, amava stuzzicare le persone: era il suo modo di fare i sopralluoghi. Quella sera non mi intervistò perché aveva puntato una cameriera, ma non nel senso che pensate voi: si divertì a farle raccontare tutta la sua vita.

Su Risi e su Alberto Lattuada, altro milanese trapiantato a Roma per fare il cinema, c’è un aneddoto meraviglioso che non ho mai potuto verificare e che quindi racconto in puro spirito fordiano: probabilmente è leggendario (alcuni, tra l’altro, lo raccontano con Luigi Zampa al posto di Risi) ma come dice Marco nel suo libro è credibile, e racchiude al cento per cento lo spirito del cinema italiano.

Eccolo. Una trasmissione radiofonica della Rai invita in studio Risi e Lattuada. Il conduttore chiede, a entrambi, come trovano le idee per i loro film. Parte Lattuada, con quel suo vocino nasale inconfondibile: «Vede, io la mattina mi alzo presto. Esco, vado al bar, ascolto le conversazioni delle persone davanti al cappuccino e capto, capto. Poi mi piace andare al mercato. Ascolto le chiacchiere delle comari, le contrattazioni ai banchi, e anche lì capto, capto. Inoltre, uso i mezzi pubblici. Prendo l’autobus, il tram, e anche lì ascolto i discorsi della gente e capto, capto».

Il conduttore: magnifico, Lattuada, grazie. E lei, Risi? Con il suo accento milanese e la sua erre moscia, Risi risponde: «Sa, io la mattina mi alzo tardi e quando esco ha già captato tutto Lattuada».

Lattuada aveva ragione. È così che si fa grande cinema: “captando”. Ma aveva ragione anche Risi, quando ci scherzava sopra. Un giorno lo intervistai sul suo magnifico libro, I miei mostri (Mondadori, 2004).

Gli scambi

«Come capita quando si superano gli 80, io non ricordo quello che ho fatto ieri, spesso mi lavo le mani due volte perché mi scordo di averle appena lavate, ma ho ricordi nitidissimi di quando avevo quattro o cinque anni... Così ho messo insieme questo libro, per il quale mi ha molto aiutato il mio editor Beppe Cottafavi, che è nipote del regista Vittorio e ha studiato con quello importante, quello che ha scritto il giallo con i frati...».

Il giallo con i frati? E che sarebbe? «Ma sì, dai, quella storia nel convento, con i frati, il Medioevo, ne hanno fatto anche un film, un romanzo famoso, dai...». Ma chi, Dino, Umberto Eco? Il nome della rosa? «Ecco, hai visto?» (L’Unità, 19 aprile 2004).

Andavo spesso a trovarlo al Residence, perché lui non amava muoversi. Adoravo sentirlo raccontare di quando lo scambiavano per l’avvocato Agnelli. Aveva la stessa erre moscia, ma il suo accento milanese – anziché sabaudo – la rendeva più simpatica; e poi era molto più bello, Dino, dell’avvocato.

Quando succedeva, non deludeva mai nessuno: «Mi chiedono come vanno le azioni Fiat. Comprate, comprate, rispondo sempre. Una volta a Torino una donna mi si è avvicinata e mi ha chiesto se mi ricordavo di suo marito, che aveva lavorato alla Fiat tutta la vita. Mi feci dire il nome, poi le dissi: “Come no? Ottimo elemento”. Mi abbracciò piangendo».

Questo aneddoto ricorda i racconti di Monicelli sul fatto che lo prendevano sempre per Comencini: «Mi ringraziano per il Pinocchio, e io dico: vero, non era male». La erre di Dino rendeva strepitosi certi suoi racconti.

Come le serate teatrali a casa di Vittorio Gassman, che nella villa all’Aventino si era fatto costruire un piccolo teatro con le poltrone rosse. «Dopo cena Vittorio recitava, facendo tutti i personaggi, l’Adelchi di Manzoni o l’Oreste di Alfieri». Pausa. Molto sapiente. Poi, la chiosa: «Una rottura di coglioni...», e vi lascio immaginare cosa diventava, detta da lui, la parola “rottura”.

Dino sembrava un cinico, esattamente come Monicelli, ma non lo era. Il suo rapporto con la storia d’Italia? Profondissimo. In Il sorpasso (1962) mette in scena il boom economico con un’acutezza unica.

Poi, quando gli raccontavano che un critico francese, di quelli super intellettuali, aveva scritto in un saggio che il viaggio dei due protagonisti da Roma a Castiglioncello disegnava, sulla carta, un simbolico punto di domanda, commentava: «Finalmente qualcuno che se n’è accorto!».

La storia nei film

In nome del popolo italiano (1970) anticipa Tangentopoli e inventa una vittoria calcistica dell’Italia sull’Inghilterra, cosa che all’epoca era ancora fantacalcio (quando gli chiesi se era tifoso, mi confessò che da ragazzo tifava per l’Inter di Meazza ma nel dopoguerra era passato al Milan di Gren-Nordahl-Liedholm, cosa che mi sembrava e mi sembra inaccettabile).

In Una vita difficile c’è il più bel ritratto di partigiano della storia del nostro cinema, e non solo: il Silvio Magnozzi interpretato da Alberto Sordi è un personaggio in cui convivono, quasi miracolosamente, idealismo e cialtroneria, opportunismo e nobiltà d’animo.

La marcia su Roma è una commedia vista la quale, se non si è cretini, è impossibile essere ancora fascisti. In I mostri c’è un episodio, La giornata dell’onorevole (con Tognazzi), che anticipa in modo folgorante Il divo di Paolo Sorrentino del 2008.

Non ha potuto – o voluto – fare un film su Berlusconi, ma di lui diceva: «Ha capito gli italiani come pochi. Ha capito che sono dei cialtroni». Una volta gli diede la mancia: «Alla fine di una cena, Confalonieri si mise al pianoforte e Berlusconi cantò La vie en rose. Ho tirato fuori 10mila lire e gli ho detto: “Per l’orchestra”».

Ospedali e morte

Da bravo milanese colto, aveva una visione “europea”: sulla propria lapide avrebbe voluto veder scritto «Nato a Milano, morto a Waterloo», perché era molto affascinato da quella battaglia e dal modo in cui la racconta Stendhal in La Certosa di Parma.

L’unica cosa che temeva era di morire in un incidente d’auto: «Non vorrei dover leggere sui giornali “Morto in un sorpasso il regista del Sorpasso”». Monicelli gli diceva sempre: «Non fare scherzi, non vorrai morire prima di me?», e invece andò proprio così. Alla sua camera ardente, alla Casa del cinema di Roma, Ettore Scola se ne uscì con una battuta folgorante: «Dino non amava i funerali e infatti non è venuto neanche al suo». Era così, la bara non c’era.

Anche Monicelli, sulle lapidi, non scherzava. Dettò, in vita, numerosi epitaffi. «Non cedette mai a un’attrice», «Non fu mai salutato per primo», «Non andò mai alle Maldive». Ma quella che gli piaceva di più era «Solo gli stronzi muoiono».

Negli ultimi anni ogni tanto mi telefonava e mi chiedeva: «Hai scritto il mio coccodrillo?». Per chi non lo sapesse, il “coccodrillo” in gergo giornalistico è il pezzo, scritto in anticipo perché non si sa mai, sulla morte di un personaggio famoso.

Ne ho scritti a decine, ma quello di Monicelli no, e gli rispondevo sempre: «No, Mario, non mi va, lo scriverò quando sarà il momento». E lui: «Non fare lo stronzo. Manca poco, scrivilo, fammelo leggere così te lo correggo». Non gli ubbidii.

Lo scrissi quella sera del 29 novembre 2010, in mezz’ora, perché era tardi e il giornale doveva chiudere. Ricordai anche questo episodio: «Monicelli era già morto parecchi anni fa, in un incidente d’auto: era in macchina da solo, in una strada di campagna, a sera tarda. La macchina era uscita di strada e lui era rimasto nell’abitacolo, ferito e sanguinante, fino al mattino dopo. Lo avevano portato in ospedale e si era rimesso perfettamente» (L’Unità, 30 novembre 2010).

Vuole un’altra leggenda che, durante la lunga degenza in ospedale, gli infermieri gli comunicassero i nomi di chi veniva a trovarlo, perché lui potesse decidere se accoglierli o meno. Quando gli dissero che c’era Comencini, ordinò: «Ricoveratelo!».

Ma vorrei ricordare un’altra storia, che riguarda un altro amico, bravo regista e co-autore, con Celentano e Lucio Fulci, di Il tuo bacio è come un rock e 24mila baci: Piero Vivarelli. Anche lui, tanti anni fa, ebbe una volta un brutto incidente d’auto e dovette rimanere in ospedale per un po’.

Monicelli andava a trovarlo tutti i giorni e non gli diceva nulla. Si sedeva accanto a lui e leggeva il giornale. Dopo un po’, diceva: «Piero, tutto a posto? Hai bisogno di qualcosa? No? Bene, ci vediamo domani», e se ne andava.

Uomini d’altri tempi. Una volta parlai con Monicelli, e con altri amici, dei tempi grami che stavamo vivendo, la crisi economica, ecc. Lui negli ultimi anni era barricadero, molto coinvolto dalle tematiche ecologiste e antagoniste.

Ci fece questo discorso: «Stiamo per entrare in un tempo nel quale nessuno avrà più una lira. Bisognerà tornare a risparmiare, a mangiare quello che capita, ad andare a prendere l’acqua al pozzo, a lavarsi con l’acqua fredda, a dormire sul pavimento». Poi fece una pausa, ci squadrò tutti e con aria minacciosa ci disse: «Io sono pronto. Voi lo siete?».


Abbiamo pubblicato un estratto del libro di Alberto Crespi, Short cuts. Il cinema in 12 storie, edito da Laterza.

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