Questa mia riflessione sulla «delicatezza» nasce da un’esperienza di vertiginosa insoddisfazione per il modo in cui portiamo avanti discussioni rilevanti per le sorti della collettività. È difficile, in contesti prevedibili e faziosi, riuscire a proporre punti di vista innovativi; o segnalare di volta in volta l’utilità di nuova conoscenza. Proprio qui, mi pare, cioè fuori dal coro, si profila un compito di primaria importanza per gli “intellettuali”. Compito che è in primo luogo di civismo, non di competenza tecnico-disciplinare. Vogliamo aggiungere paradosso a paradosso? Dovremmo allora chiederci, distaccandoci dall’ambizione corrente: come rifiutare di essere virali?

«Delicatezza» non sta qui per “sensibilità” o “buon gusto” né tantomeno per buone maniere. Desidero invece schierare la delicatezza per così dire in armi, contro menzogna e sopraffazione. Troppa parte del discorso pubblico è modellato oggi da principi di marketing: marketing politico, elettorale, corporate o di altro genere. Come scoprire in noi un uso alternativo del linguaggio, una diversa responsabilità? La capacità di argomentare in pubblico, dare nome alle cose e formulare emozioni matura assai lentamente in tutti noi: tanto più lentamente quanto meno usuali e correnti sono le esperienze cui il bambino o l’adolescente, ma non meno l’adulto, si trova a dover far fronte. Al pari di una cultivar rara e delicata, questa stessa capacità ha bisogno, per svilupparsi, di un clima e un suolo propizi: l’uno e l’altro le sono assicurati, oltreché da relazioni di attaccamento favorevoli, da cercare prioritariamente nell’ambito familiare, da un ambiente scolastico incoraggiante, modellato da relazioni di fiducia. È facile intuire come tutto ciò non abbia niente a che fare con “più burocrazia”, “più test”, “più pianificazione”.

Santità civile

A tal punto difficile, lo ammetto, mi sembra la costruzione/manutenzione di una sfera pubblica qualificata e indipendente nell’ambito di una democrazia contemporanea, a tal punto rara la partecipazione responsabile, che è stato per me naturale interrogarmi su una paradossale dimensione della cittadinanza, posta oltre il confine dell’abnegazione, quasi ai limiti della santità; e indagarla da punti di vista per così dire epistemologici o argomentativi. Proprio la supposizione di una “santità” in apparenza senza religione né chiese, lato sensu civile, la sola a mio avviso che giustifichi oggi impegno e speranza, spiega qui il mio interesse per Socrate, Simone Weil e Dostoevskij.

Quando argomentiamo in pubblico o facciamo scelte etiche e politiche siamo tenuti a conoscere il merito di ciò attorno cui ci pronunciamo. Ebbene, se, malgrado ciò, indulgiamo all’odio o allo scherno, come oggi spesso accade in politica, nel giornalismo, sui social network, lasciamo che siano questi stati d’animo, con il loro corteggio di volubilità e pre-giudizio, a determinare l’orientamento comune. È più o meno per questo che la teoria classica dell’argomentazione assegna al «ragionamento», logos, un’importanza cruciale. È attorno al logos che si creano comunità e collaborazione; mentre rifiutando il logos si distruggono le ragioni di un’appartenenza condivisa. Il logos conferisce stabilità alle convinzioni, che possono essere richiamate alla memoria oppure confutate. In altre parole: se il discorso pubblico è modellato da comportamenti argomentativi non pregiudiziali e disposti all’intesa, ebbene, sperimentiamo in esso un’anticipazione della società perfetta, o Regno dei Fini («poiché la delicatezza tra gli uomini non è che la coscienza della possibilità di rapporti liberi da ogni scopo», afferma Adorno nei Minima moralia).

Un testimone immaginario

È interessante osservare che il logos stesso, per i Greci, non ha natura meramente “logica” o logicistica, al contrario: è per così dire congenere a ginnastica e musica, è anzi musica esso stesso, vale a dire ritmo, volteggio, duttilità, cadenza. È in primo luogo «armonia», vale a dire bilanciamento o compenetrazione, entro sé stessi, di mente e corpo, razionalità ed «emozioni». Detto in altri termini (e in accezione tutt’altro che ovvia): «calibro» o «misura». Vorrei partire da qui per chiarire cosa intendo con «delicatezza»: e cioè in primo luogo un’accortezza di metodo esaudita da criteri di «calibro» e perspicacia nella scelta delle parole. «La verità è cosa così delicata che, per poco che ci si ritragga da essa, si cade nell’errore». Così Pascal nelle Provinciali, apparse nel 1657 a Colonia; dove si stabiliscono le quattro regole del corretto modo di condurre una controversia. In gioco è un predicato della «cosa stessa», non la nostra inclinazione individuale.

Il mito della lotta o del “conflitto” - l’estetizzazione della lotta e del “conflitto” - attraversa la teoria politica novecentesca, a sinistra come a destra. È patrimonio di estremismi di diversa e opposta natura. È un mito, questo, di cui faremmo bene a disfarci: ha infiammato le ambizioni più tiranniche. Dobbiamo a Horkheimer e Adorno un aforisma che ci illumina sul paradosso dell’intellettuale pubblico, o forse della “voce pubblica”, come potremmo anche dire. «Se il discorso, oggi, deve rivolgersi a qualcuno» scrivono i due filosofi e sociologi tedeschi in Dialettica dell’illuminismo, apparso nel 1947, «non è già alle cosiddette masse, né al singolo, che è impotente, ma piuttosto a un testimone immaginario, a cui lo lasciamo in eredità perché non scompaia interamente con noi». Ecco, è questa del «testimone immaginario» la figura cui dobbiamo guardare come al nostro destinatario elettivo, l’interlocutore infinitamente meritevole e fedele, il Maieuta. È a lui per primo che, in segreto, possiamo rivolgerci per trovare il tono, collaudare le parole, sciogliere gli argomenti dal molesto abbraccio di consuetudini gergali pietrificate e opinioni ricevute. È per il «testimone immaginario» che, molto semplicemente, dobbiamo sforzarci di dire la verità: anche taluni “classici”, Grandi Spiriti per così dire depositari del mana, possono talvolta assolvere al ruolo di «testimone immaginario» per coloro cui sia dato conservare familiarità con essi.

 

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