- È difficile, in contesti prevedibili e faziosi, riuscire a proporre punti di vista innovativi; o segnalare di volta in volta l’utilità di nuova conoscenza. Proprio qui, mi pare, cioè fuori dal coro, si profila un compito di primaria importanza per gli “intellettuali”.
- Troppa parte del discorso pubblico è modellato oggi da principi di marketing: marketing politico, elettorale, corporate o di altro genere. Come scoprire in noi un uso alternativo del linguaggio, una diversa responsabilità?
- È più o meno per questo che la teoria classica dell’argomentazione assegna al «ragionamento», logos, un’importanza cruciale.
Questa mia riflessione sulla «delicatezza» nasce da un’esperienza di vertiginosa insoddisfazione per il modo in cui portiamo avanti discussioni rilevanti per le sorti della collettività. È difficile, in contesti prevedibili e faziosi, riuscire a proporre punti di vista innovativi; o segnalare di volta in volta l’utilità di nuova conoscenza. Proprio qui, mi pare, cioè fuori dal coro, si profila un compito di primaria importanza per gli “intellettuali”. Compito che è in primo luogo di civismo, non di competenza tecnico-disciplinare. Vogliamo aggiungere paradosso a paradosso? Dovremmo allora chiederci, distaccandoci dall’ambizione corrente: come rifiutare di essere virali?
«Delicatezza» non sta qui per “sensibilità” o “buon gusto” né tantomeno per buone maniere. Desidero invece schierare la delicatezza per così dire in armi, contro menzogna e sopraffazione. Troppa parte del discorso pubblico è modellato oggi da principi di marketing: marketing politico, elettorale, corporate o di altro genere. Come scoprire in noi un uso alternativo del linguaggio, una diversa responsabilità? La capacità di argomentare in pubblico, dare nome alle cose e formulare emozioni matura assai lentamente in tutti noi: tanto più lentamente quanto meno usuali e correnti sono le esperienze cui il bambino o l’adolescente, ma non meno l’adulto, si trova a dover far fronte. Al pari di una cultivar rara e delicata, questa stessa capacità ha bisogno, per svilupparsi, di un clima e un suolo propizi: l’uno e l’altro le sono assicurati, oltreché da relazioni di attaccamento favorevoli, da cercare prioritariamente nell’ambito familiare, da un ambiente scolastico incoraggiante, modellato da relazioni di fiducia. È facile intuire come tutto ciò non abbia niente a che fare con “più burocrazia”, “più test”, “più pianificazione”.
Santità civile
A tal punto difficile, lo ammetto, mi sembra la costruzione/manutenzione di una sfera pubblica qualificata e indipendente nell’ambito di una democrazia contemporanea, a tal punto rara la partecipazione responsabile, che è stato per me naturale interrogarmi su una paradossale dimensione della cittadinanza, posta oltre il confine dell’abnegazione, quasi ai limiti della santità; e indagarla da punti di vista per così dire epistemologici o argomentativi. Proprio la supposizione di una “santità” in apparenza senza religione né chiese, lato sensu civile, la sola a mio avviso che giustifichi oggi impegno e speranza, spiega qui il mio interesse per Socrate, Simone Weil e Dostoevskij.
Quando argomentiamo in pubblico o facciamo scelte etiche e politiche siamo tenuti a conoscere il merito di ciò attorno cui ci pronunciamo. Ebbene, se, malgrado ciò, indulgiamo all’odio o allo scherno, come oggi spesso accade in politica, nel giornalismo, sui social network, lasciamo che siano questi stati d’animo, con il loro corteggio di volubilità e pre-giudizio, a determinare l’orientamento comune. È più o meno per questo che la teoria classica dell’argomentazione assegna al «ragionamento», logos, un’importanza cruciale. È attorno al logos che si creano comunità e collaborazione; mentre rifiutando il logos si distruggono le ragioni di un’appartenenza condivisa. Il logos conferisce stabilità alle convinzioni, che possono essere richiamate alla memoria oppure confutate. In altre parole: se il discorso pubblico è modellato da comportamenti argomentativi non pregiudiziali e disposti all’intesa, ebbene, sperimentiamo in esso un’anticipazione della società perfetta, o Regno dei Fini («poiché la delicatezza tra gli uomini non è che la coscienza della possibilità di rapporti liberi da ogni scopo», afferma Adorno nei Minima moralia).
Un testimone immaginario
È interessante osservare che il logos stesso, per i Greci, non ha natura meramente “logica” o logicistica, al contrario: è per così dire congenere a ginnastica e musica, è anzi musica esso stesso, vale a dire ritmo, volteggio, duttilità, cadenza. È in primo luogo «armonia», vale a dire bilanciamento o compenetrazione, entro sé stessi, di mente e corpo, razionalità ed «emozioni». Detto in altri termini (e in accezione tutt’altro che ovvia): «calibro» o «misura». Vorrei partire da qui per chiarire cosa intendo con «delicatezza»: e cioè in primo luogo un’accortezza di metodo esaudita da criteri di «calibro» e perspicacia nella scelta delle parole. «La verità è cosa così delicata che, per poco che ci si ritragga da essa, si cade nell’errore». Così Pascal nelle Provinciali, apparse nel 1657 a Colonia; dove si stabiliscono le quattro regole del corretto modo di condurre una controversia. In gioco è un predicato della «cosa stessa», non la nostra inclinazione individuale.
Il mito della lotta o del “conflitto” - l’estetizzazione della lotta e del “conflitto” - attraversa la teoria politica novecentesca, a sinistra come a destra. È patrimonio di estremismi di diversa e opposta natura. È un mito, questo, di cui faremmo bene a disfarci: ha infiammato le ambizioni più tiranniche. Dobbiamo a Horkheimer e Adorno un aforisma che ci illumina sul paradosso dell’intellettuale pubblico, o forse della “voce pubblica”, come potremmo anche dire. «Se il discorso, oggi, deve rivolgersi a qualcuno» scrivono i due filosofi e sociologi tedeschi in Dialettica dell’illuminismo, apparso nel 1947, «non è già alle cosiddette masse, né al singolo, che è impotente, ma piuttosto a un testimone immaginario, a cui lo lasciamo in eredità perché non scompaia interamente con noi». Ecco, è questa del «testimone immaginario» la figura cui dobbiamo guardare come al nostro destinatario elettivo, l’interlocutore infinitamente meritevole e fedele, il Maieuta. È a lui per primo che, in segreto, possiamo rivolgerci per trovare il tono, collaudare le parole, sciogliere gli argomenti dal molesto abbraccio di consuetudini gergali pietrificate e opinioni ricevute. È per il «testimone immaginario» che, molto semplicemente, dobbiamo sforzarci di dire la verità: anche taluni “classici”, Grandi Spiriti per così dire depositari del mana, possono talvolta assolvere al ruolo di «testimone immaginario» per coloro cui sia dato conservare familiarità con essi.
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