- Naomi Osaka, in potenza la dominatrice dei prossimi anni di tennis, si è presentata al Roland Garros annunciando di voler boicottare le conferenze stampa.
- A suo dire, i giornalisti non coltiverebbero il dovuto rispetto nei confronti delle difficoltà dei giocatori, delle loro umane debolezze e, anzi, sembrerebbero del tutto disinteressati alle conseguenze delle loro domande talora meschine, insistenti, ripetitive, polemiche.
- È apprezzabile che un personaggio così influente abbia posto la questione del rapporto tra gli atleti e i media ma, stavolta, sembrava averlo preso dal verso sbagliato. Salvo poi confessare che le barricate nascevano da un profondo malessere personale.
Ciò che state per leggere avrebbe avuto un altro significato senza il comunicato che Naomi Osaka, tennista numero due in classifica e superstar di due mondi – la mamma è giapponese, il papà haitiano-americano – ha pubblicato sui suoi affollatissimi account sociali lunedì, all’imbrunire di una giornata ordinaria di tennis al Roland Garros, mentre il suo idolo di infanzia Serena Williams, prossima ai 40 anni, si trascinava ansimando per riuscire a chiudere un banale match di primo turno. «Penso che la decisione migliore, ora, sia quella di ritirarsi. Così che tutti possano tornare a pensare al tennis, qui a Parigi. Non volevo essere motivo di distrazione, mi rendo conto di non aver scelto il momento ideale e di non essermi espressa chiaramente come avrei voluto». Bum.
Il comunicato
L’antefatto è semplice: Osaka, in potenza la dominatrice dei prossimi anni di tennis, si è presentata al Roland Garros annunciando di voler boicottare le conferenze stampa perché, a suo dire, i giornalisti non coltiverebbero il dovuto rispetto nei confronti delle difficoltà dei giocatori, delle loro umane debolezze e, anzi, sembrerebbero del tutto disinteressati alle conseguenze delle loro domande talora meschine, insistenti, ripetitive, polemiche. «Spesso ho avuto la sensazione – questo il testo del comunicato dal quale tutto è scaturito – che le persone non abbiano il minimo riguardo verso la salute mentale degli atleti. Spesso stiamo lì seduti a ricevere domande che ci sono già state fatte parecchie volte, o che alimentano dubbi nella nostra mente. E io non voglio essere soggetto di interazioni con persone che dubitano di me. Ho visto atleti che si abbattono dopo una sconfitta in sala stampa, e so che anche voi li avete visti. Credo che questo sia infierire su una persona che è già in difficoltà, e non ne capisco il motivo».
Per chi non avesse dimestichezza con il personaggio, Naomi Osaka non è una stolida colpitrice seriale di palline gialle e, quando parla, generalmente si drizzano le orecchie di tutti. Se avesse conosciuto Marco Pannella, probabilmente ne sarebbe rimasta affascinata per i metodi di lotta, con la parola e con il corpo. Nel pieno dell’onda polemica per la violenza della polizia statunitense contro cittadini di colore, la scorsa estate, non si è limitata al gesto facile che non impegna, indossare una mascherina con la dicitura “Black Lives Matter”. Ha rinunciato a scendere in campo in un giorno di protesta «perché prima ancora di essere una tennista sono una donna di colore e, domani, ci sono cose più importanti da guardare che una mia partita di tennis». Pur di non perderla, gli organizzatori le accordarono una modifica alla programmazione.
Disagio crescente
Per una giovane atleta già famosa come una popstar, dal talento raro e con un’immagine che conquista, occuparsi del prossimo poteva suonare come una mossa di strategia commerciale: come quelle fondazioni benefiche che spesso accompagnano la carriera di sportivi dai fatturati milionari. E invero altro non sono che maniere eleganti per sottrarre imponibile al fisco, guadagnando in stima pubblica. Nella vicenda Osaka, invece, ci sono chiari indizi di un impegno sociale tutt’altro che artefatto o di maniera. E di una consapevolezza crescente, a partire da quel pomeriggio di settembre del 2018 nel quale abbatté il suo mito, Serena Williams, nella finale degli Us Open. La coscienza di avere milioni di occhi addosso, di poter rappresentare un esempio di riscatto per tutte le persone che vivono situazioni di discriminazione, è cresciuta in lei insieme ai risultati sul campo. Solo ora, però, si apprende che quel primo giorno di gloria iniziò a scavare un buco nell’anima di una ragazza cresciuta senza padre in un ambiente ostile, tanto da ereditare il cognome della madre – lo stesso della città di residenza – per mitigare i possibili motivi di esclusione: «La verità è che soffro di lunghi periodi di depressione, fin dagli Us Open 2018. E per me è davvero dura averci a che fare. Chi mi conosce sa quanto io sia introversa, e chi nei tornei mi vede passare nota che spesso indosso gli auricolari: mi aiutano a tenere a bada l'ansia sociale».
Lette col senno di poi, le motivazioni dell’ultima lotta di Naomi per il rispetto dovuto agli atleti e per ridiscutere ruolo e confini del lavoro giornalistico nello sport diventano anche, anzi, prima di tutto qualcosa d’altro: sono l’ammissione di una debolezza prima personale, che altrui. Di un disagio in lievitazione che le visiere, la musica nelle orecchie e l’esplosione di ricci, o quelle risposte date con gli occhi roteanti in cerca di ispirazione, o di una via d’uscita dall’imbarazzo, non sono più riusciti a reprimere. Ma il problema che pone è reale, benché non sia con la sua vicenda che si scopre la sciatteria di certi cronisti, endemica nel giornalismo sportivo.
Quando non insolenti, le domande da conferenza stampa appartengono al più consumato e stinto canovaccio del «Cosa provi in questo momento» e, sui giornalisti che intervistano post gara i campioni, David Foster Wallace scrisse parole inarrivate: «Continuano a presentarsi dopo le partite, richiedendo a dei geni fisici queste sequenze ricombinanti di cliché morti, che dopo un po’ iniziano a suonare come una strana ninna nanna, e che naturalmente nessun network solleciterebbe e trasmetterebbe a ruota se non ci fosse un vasto pubblico là fuori che trova le banalità buone e giuste». Fosse ancora tra noi, avrebbe magari scritto un altro saggio su coloro che provano regolarmente ad attizzare polemiche, distorcono dichiarazioni e le rimbalzano da uno sportivo all’altro sperando di scatenare una reazione. O tentano di istigare alla risposta stizzita, tagliando e cucendo repliche in cui sperano di scovare un titolo da vendere al caporedattore.
Atleti e media
Forse, però, Naomi ha sottovalutato che, da quando la prestazione sportiva si è fatta professione di privilegio assoluto, a chi ha il talento per sorreggerla tocca accettare un patto con sé stessi e il proprio sentire. Nel 2020, anno disgraziato e di tracolli anche economici, Osaka ha incassato 55 milioni di dollari: cinque raccolti dalle vittorie in campo, gli altri cinquanta in cambio della cessione dello sfruttamento della sua immagine e voce alla tv giapponese Wowow, agli orologi Tag Heuer, ai vestiti e scarpe Nike. E poi Louis Vuitton, un paio di aziende di attrezzature per l’allenamento, la catena di fastfood Sweetgreen, pure il motore di ricerca Google. Nell’elenco donatori risulta financo un’azienda di software per la gestione delle risorse umane. Il peso di questi contratti, e degli impegni che da quel mucchio di soldi discendono rosicchiando via privacy e tempo per sé, dipende in buona percentuale dalla eco delle sue imprese tennistiche in tv e sui mezzi di informazione. Quando Rod Laver vinceva i quattro tornei dello Slam nello stesso anno, il 1969, guadagnava come un vigile urbano.
C’è di più: il dies a quo del suo male dell’anima, quella edizione degli Us Open in cui si dimostrò ormai superiore alla regina Williams, coincise con una presa di posizione pressoché unanime della stampa del globo a sua protezione: perché Serena giocò sporco, provò a forzare l’esito di una finale che le stava sfuggendo dalle grinfie facendo casino con il giudice di sedia, riuscendo ad aizzargli contro il pubblico e a rovinare la festa alla giovane campionessa, che fu protagonista di una della premiazioni più grottesche che il tennis ricordi tra lacrime, fischi, urla e imbarazzi assortiti.
Della stampa, seppur a fin di bene – e il proprio tornaconto va con onestà ricompreso nel discorso – Naomi si è legittimamente servita, in questi primi anni di successi e di fama. «Senza i media non saremmo chi siamo», ha sintetizzato Rafa Nadal, dettosi distante dalla protesta della Osaka ma rispettoso delle sue scelte. Ciò non toglie che, se qualcuno lavora male, basterebbe rispondere a tono, o non rispondere proprio: «Next question», «No comment» possono fermare intromissioni indebite nella vita di chi, però, deve accettare che una parte della propria riservatezza sia sacrificata, perché è la pubblicità di un evento ciò che lo alimenta. Senza pubblico, causa pandemia, ci sono tornei che hanno tagliato del 70 per cento i compensi. Senza telecamere, addio sponsor. Ed è apprezzabile che un personaggio così influente abbia posto la questione del rapporto tra gli atleti e i media ma, stavolta, sembrava averlo preso dal verso sbagliato – e succede, pazienza.
Salvo poi, raccolta la protesta generale e le minacce di squalifica dal comitato Slam – parlare ai giornalisti, per quanto possa suonare bizzarro, è obbligo contrattuale e non cortesia – confessare che le barricate nascevano da un profondo malessere personale. Tale da convincerla ad allontanarsi a tempo indeterminato dal suo sport, in un momento nel quale avrebbe potuto dominarlo. «Ci vedremo quando ci vedremo», ha deciso di scrivere Osaka congedandosi dal Roland Garros, nel quale aveva esordito domenica scorsa con una prestazione vittoriosa ma mediocre. Anche questa volta però, al di là delle parole, ci ha messo del suo: è questo che la rende davvero tosta, sebbene nell’atto di esporre la fragilità.
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