A Roald Dahl, classico autore di testi “forti” per ragazzi, i suoi eredi e il suo editore inglese hanno giocato un bel tiro, decidendo di comune accordo di ripulire i suoi libri di tutte le parole relative ad ambiti “sensibili”, quali appartenenza etnica, genere, peso, aspetto fisico e simili, per sostituirli con formule più neutre.

La decisione ha fatto scandalo in mezzo mondo, proiettando l’ombra della neolingua orwelliana su testi conosciuti e letti da decenni, e costituendo un truce precedente del fatto che in un’opera èdita si può mettere mano anche dopo la scomparsa dell’autore. Con l’occasione si è anche saputo che i grandi editori hanno un sensitivity reader, che va a caccia di contenuti offensivi e stereotipi spregiativi per bonificarli. La bonifica dei testi di Dahl si è estesa infatti al di là delle parole. Dalle mani di Matilda (protagonista del romanzo omonimo del 1988) sono spariti i libri di Rudyard Kipling (scrittore imperialista) e di Joseph Conrad (visto come razzista), sostituiti da quelli di Jane Austen, considerata scrittrice “neutra” (erroneamente, visto che nei suoi romanzi è ossessiva l’ansia di trovare buoni partiti per le figlie femmine).

Una revisione di lungo corso

La questione non è nuova. Già da anni era in atto l’espurgazione del termine nigger, detestatissima denominazione spregiativa dei neri, dalle versioni non filologiche dei romanzi di Mark Twain. In Francia, due anni fa i Ten Little Niggers di Agatha Christie (1939) è stato ribattezzato Ils étaient dix (in Italia è da sempre Dieci piccoli indiani!) e The Nigger of the Narcissus, una delle opere marinare di Joseph Conrad (1896), circola col titolo Les Enfants de la mer. Il caso Dahl, quindi, non è isolato.

È solo l’ultimo capitolo di una massiccia serie di revisioni di linguaggi, atteggiamenti e opere in corso da almeno vent’anni. A metterla in moto è stata dapprima l’ideologia del politicamente corretto, poi la più drastica cancel culture e oggi la sua versione più aggressiva che è la filosofia woke (“i risvegliati”), che cerca ovunque vittime, discriminazioni, “razzializzazioni” e identità negate. Questo indirizzo deriva forse da un rimpasto della French Theory (miscuglio delle posizioni filosofiche di Derrida, Foucault e Lyotard) operato nelle università degli Stati Uniti, il paese che, avendo più peccati da farsi perdonare (schiavismo, discriminazione razziale, guerre ecc.), ha la coscienza più sporca. Negli anni scorsi, sono state abbattute un po’ dappertutto statue di personaggi un tempo considerati gloriosi, da Cristoforo Colombo fino a Theodor Roosevelt. Analogamente, dai programmi di più università sono stati espulsi testi contenenti elementi sentiti come razzisti (come l’Otello di Shakespeare). Su questa scia, il Metropolitan Museum di New York ha cominciato qualche mese fa a correggere l’impianto di varie sale, perché (come ha spiegato il suo direttore, l’austriaco Max Hollein) «ciò che un tempo era motivo di fierezza, oggi è un marchio d’infamia da cancellare».

La cancellazione è stata avviata in modo singolare: nella sezione dell’antichità classica, accanto a una statua arcaica come il Kouros greco (VI secolo a. C.), è stato posto il Mankaaka, idolo congolese di fattura ottocentesca, per suggerirne subliminalmente affinità profonde.

Il pensiero decoloniale

Dagli Stati Uniti il movimento woke è rimbalzato in Europa, nei paesi più impegnati nel ripensamento del proprio passato coloniale. In prima linea c’è la Francia, dove fiorisce da tempo il pensiero cosiddetto “decoloniale”, l’idea che sotto la patina della decolonizzazione sia ancora operante una postura di sfruttamento e di disprezzo di tutte le diversità. Il pensiero decoloniale ha inventato anche nuove categorie e nuovi termini per indicarle, come genré (più o meno, “basato su stereotipi di genere”) e racisé (“basato su stereotipi di razza”). Mentre la politica cerca, senza ancora trovarle, soluzioni ai dossier ancora aperti, in diversi campi si è cominciato a prendere iniziative, anche se discutibili e spiazzanti. Le favole, rigurgitanti di stereotipi, sono state tra i primi terreni toccati. A fronte dell’immagine della principessa fragile e sottomessa, che aspetta solo il bacio (senza consenso esplicito) del principe azzurro, sono apparsi contro racconti di ragazze intrepide e volitive, capaci di usare la forza e del tutto indifferenti al mondo dei maschi. Perfino il lupo, da sempre il grande cattivo, ha cambiato regime alimentare, e, in una raccolta dello scrittore Pierre Ferrand, è diventato il «Lupo vegetariano». Non sempre però le revisioni sono così spiritose. Nella mostra Miroir du monde, che a fine 2022 presentò al Luxembourg di Parigi i tesori delle raccolte d’arte di Dresda, una sezione era dedicata alla “formazione di stereotipi” (lo schiavo nero, il servo, il prigioniero sottomesso, la schiava lasciva, le ricchezze offerte in dono) e su diverse opere campeggiava un cartello con cui il museo prendeva le distanze da ciò che era in mostra («immagini di persone che portano pesanti fardelli, poco vestite e dalle caricaturali espressioni del volto, destinate a legittimare la dominazione coloniale e lo schiavismo»), assumendosi una curiosa mission di autoflagellazione.

Musei del pentimento

In questi giorni, del resto, si tiene al Beaubourg la mostra Décadrage colonial (più o meno “Reinquadrare le colonie”), che espone immagini scattate nelle colonie da fotografi e fotografe anche notissimi (come Henri Cartier-Bresson) negli anni Venti e Trenta, quando l’apogeo dell’impero coincideva con quello di movimenti artistici come il surrealismo (che gli era avverso). Dall’Africa alle Antille, da Tahiti al Marocco, questi fotografi cercavano popoli da presentare come misteriosi e selvaggi, povere donne svestite da esibire come ammaliatrici, antropofagi e tagliatori di teste, senza nulla dire sulla violenza e lo sfruttamento che quei mondi avevano alle spalle. Erano gli anni della scoperta dell’arte africana nella pittura da parte del primo cubismo, di Joséphine Baker e altre figure di colore (come il ballerino senegalese Féral Benga e Adrienne Fidelin, la compagna antillana di Man Ray) usati senza risparmio come emblemi della “vitalità primitiva” dei corpi neri.

Il più grosso dei rospi da ingoiare, per la Francia, è oggi lo smisurato Museo delle colonie di Vincennes, dedicato nel 1931 alla sua missione «colonizzatrice e civilizzatrice». Il vastissimo bassorilievo che cinge l’edificio e il grande mosaico interno rappresentano con incredibile candore le mille forme di sfruttamento che la Francia esercitò in mezzo mondo sulle risorse naturali come sugli esseri umani. Chiusa da anni per darle un’altra caratterizzazione che non si trova, la struttura ha per ora cambiato nome in “Museo dell’immigrazione”, ma resta chiusa. Analoga storia ha avuto l’ex Museo reale dell’Africa centrale di Bruxelles, che il più spietato dei colonialisti, Leopoldo II del Belgio, volle nel 1898 per esibire migliaia di reperti sottratti al Congo (che era – si stenta a crederlo – una sua proprietà personale). Ribattezzato Palazzo dell’Africa e ristrutturato con grande spesa, è stato riaperto nel 2018 come luogo di simbolico pentimento, in cui quel che è in mostra è anzitutto la storia del museo stesso come strumento di propaganda. Una sorta di "armadio nero" conserva i pezzi più malfamati: il busto di Leopoldo o il gruppo dell'Uomo Leopardo che uccide una delle sue vittime, citato finanche in Tintin nel Congo, un albo della celebre serie di bande dessinée di Hergé.

Rischi e rimedi

Le spinte “decoloniali” e woke servono quindi ad aiutarci a rimediare ai mostruosi danni che il colonialismo ha inflitto al pianeta? È molto probabile, ma suscitano anche non poche preoccupazioni, a cui, soprattutto in Francia, sono dedicati più libri. Anzitutto il rischio che la filosofia woke, estrema sin dall’origine, veda colpevoli anche dove non ce ne sono e diventi un movente di messa in accusa di tutto e tutti. Inoltre, che, agitata soltanto com’è dalle sinistre radicali, faccia apparire come destra ogni tentativo di metterla in discussione e interrogarne razionalmente gli effetti.

 

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