Se Rocco Parondi oggi prendesse il treno per Milano, troverebbe all’arrivo la stessa stazione d’allora, mille novecento sessanta, la stessa promessa che galleggia nell’aria di questa città per il resto assai cambiata, la sensazione di essere finito nel posto giusto dove succedono le cose. Probabilmente non affiderebbe più alla boxe il gettone della sua scalata sociale, ma quello era il tempo della gloria per un paio di Rocky veri – Marciano nei pesi massimi, Graziano nei pesi medi – prima che arrivasse al cinema il Rocky falso, Balboa, alla fine quasi più reale di tutti.

La boxe nel frattempo è diventata invisibile. Ha meno epica, meno campioni, meno illusioni da proporre. Un Rocco Parondi del 2023 forse passerebbe da una scuola calcio, queste nuove batterie di polli d’allevamento nelle quali puoi davvero pensare che un giorno sistemerai te stesso e i tuoi fratelli, anche in modo svogliato, senza trasporto, per dirla come Alain Delon nel film, alla maniera del capomastro che quando comincia a costruire una casa, tira una pietra sull'ombra della prima persona che passa. «Ci vuole un sacrificio perché la casa venga su solida».

Nel 1960 si andava dal sud al nord per fare i manovali, gli spalatori di neve, i guardiani di autorimesse, gli addetti ai distributori di benzina, ogni tanto i più fortunati finivano in una fabbrica. I famosi mestieri che gli italiani d’oggi non vogliono fare più, ma già allora lasciati agli ultimi. La seconda ondata di partenze, fra il ‘68 e il ’70, fu favorita dalle assunzioni in Fiat.

Entrarono in catena di montaggio quindicimila giovani operai, scolarizzati ma senza prospettive di impiego nei luoghi d’origine. Si disse che per loro, per farli sentire a casa, Agnelli avesse iniziato a comprare calciatori meridionali da vestire con la maglia della Juventus, il sardo Cuccureddu, il pugliese Causio, i siciliani Anastasi e Furino.

Ora che il film di Visconti gira sulle piattaforme in versione restaurata, anche l’emigrazione dal sud inizia a vivere in 4K. Le valigie non sono più di cartone, anzi, sempre più spesso il pezzo di carta lo contengono. È di pochi giorni fa l’ultimo dossier della Svimez, secondo cui negli ultimi vent’anni 460mila laureati si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord.

La quota di lavoratori dalle competenze elevate è salita dal 9 al 34 percento. Un terzo dell'investimento meridionale in competenze scientifiche e tecnologiche, dice la Svimez, è andato disperso in favore di sistemi produttivi diversi da quelli insediati al sud. Sarà un giorno meraviglioso quando potremo guardarci dritti negli occhi e chiederci: e allora? Non dovremmo neppure farci caso, se sono nato a Portopalo di Capo Passero e voglio andare a lavorare a Predoi. Perché siamo condannati ancora oggi a ragionare in termini di nord-sud, non unitari, quando Garibaldi ha fatto il suo lavoro da più di un secolo e mezzo?

La domanda è retorica, la risposta è nella politica. Certo, esistono coppie che vivono in regime di separazione dei beni, ma almeno quando vanno a comprare il divano, lo scelgono insieme. Invece tendiamo ancora a leggere il racconto di questo paese come la cronaca di un congresso di partito con le sue correnti. Per dire.

Nell’ultima decina di luglio - ci siamo quasi – con una certa enfasi girano i dati sui 100, i 100 e lode, assegnati nelle scuole, agli esami di maturità. In genere hanno una loro superiore densità nel sud. Non c’è anno in cui nelle sere di mezza estate non si finisca a fare i maliziosi o i sospettosi, come col doping per chi vince il Tour de France.

Un paese lungo

Del resto, nei giorni in cui era al picco della popolarità, lo scrittore filosofo Luciano De Crescenzo diceva che siamo una nazione troppo lunga, uguale a certi tavoli che si vedono nelle pizzerie, dove uno racconta una barzelletta, da un lato si ride e gli altri laggiù non sentono, non capiscono. Se scuotono pure la testa, in genere si chiama stigma, questo virus che tuttora ci attraversa, di cui il milanese Luchino Visconti era consapevole, fino a volerlo neutralizzare per rendere asettico il suo film.

Fece partire allora i Parondi dalla Basilicata, la Lucania come si diceva all’epoca, terra a lui cara per via delle poesie di Rocco Scotellaro, figlio di un calzolaio e di una sarta; la Lucania come unico pezzo di sud che non produce un aggettivo di provenienza con una connotazione negativa. L’altro giorno era buffa la coincidenza tra la diffusione dei dati Svimez e una notizia d’agenzia battuta da Carate Brianza, dove un trentenne è stato arrestato dai carabinieri per aver picchiato una giovane.

Quando alla porta sono arrivate le divise, l’uomo ha provato a spaventarli dall’interno: «Sono metà calabrese e metà siciliano». Una frase che non significa niente, eppure - strato dopo strato – è arrivata a sembrarci una inconfutabile minaccia, mentre calabrese potrebbe essere sinonimo di medico grazie a Renato Dulbecco o di cantautore per Rino Gaetano, per non dire poi della Sicilia di Falcone e Borsellino.

Un film milanese

Siamo così, dolcemente complicati. Ci siamo messi sotto lo stesso tetto e ancora ci guardiamo come estranei. I nostri figli vivono le famiglie allargate, la nostra politica pensa l’autonomia differenziata.

Siamo il paese dei campanili. Quando nel mese di febbraio del 1960 Visconti parlò per la prima volta di Rocco e i suoi fratelli, il Corriere della sera ebbe un moto di orgoglio, un sussulto, scrisse «sta nascendo un film milanese», e nel mese di marzo eravamo dalle parti dell’esultanza: «Non ci sarà più il monopolio di Roma». Era appena uscito La Dolce Vita che celebrava la grande bellezza della capitale. Salvo sporadiche eccezioni, il cinema aveva ignorato Milano.

Il Corriere scrisse: «Non siamo abituati, a Roma i passanti nemmeno si voltano quando si imbattono nei cinematografari, e può darsi che prima o poi accada lo stesso a Milano». La cosa era vissuta con tormento, come un’anomalia.

«Non c'è industria – si leggeva - che qui non abbia sviluppo; dai bottoni alle locomotive, Milano produce tutto, meno le pellicole». Doveva fare allora un certo effetto, e in fondo continua a farlo, come ogni volta che esce una serie di Zerocalcare, ogni volta che Milano si fa domande sulla propria capacità mitopoietica.

Il critico Arturo Lanocita considerava che il cinema avesse emarginato a lungo Milano per colpa della nebbia, alla ricerca della «nitidezza delle immagini», ma che le nuove tecnologie avevano finalmente reso la nebbia addirittura un vantaggio, «per la contentezza dei campanilisti – disse - che ci sono anche da noi, sebbene Milano sia la meno campanilistica città d'Italia (e perciò è davvero città)». Ecco.

A Dino Buzzati comunque il film piacque («di un verismo così duro da riuscire sconcertante») e nei giorni successivi il Corriere tornò a sottolineare che «non esistono a Milano meridionali disposti a struggersi di nostalgia, nessuno tornerebbe volentieri al bellu paese». Giù a sud, dove il lavoro – diceva Troisi – può essere nero, minorile, a cottimo, mai nessuno che ti offre un lavoro e basta.

Ora che si parte da laureati, un po’ si realizza il suo sogno. Si va a prestare un’opera, non si scappa. Emigrante? No. Vai a sapere che un giorno si sarebbero inventati il south working, il lavoro in remoto per le aziende del nord rimanendo a casa.

© Riproduzione riservata