- Quando, poco meno di vent’anni fa, cominciò la stagione delle serie tv con opere come Lost, I Soprano, Six Feet Under, salutammo come una felice novità l’affermazione di questo formato di arte popolare, commerciale, intuitiva, contemporanea.
- Secondo me, però, l’affermazione della serie tv segnalava pure un passaggio di epoca: il ceto medio istruito voleva sdoganare un’idea di arte – e di discorso pubblico – più serenamente vicino all’intrattenimento.
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Ecco, andare agli eventi di ReF è il contrario dell’esperienza di stare a casa con il tablet in grembo a consumare serie tv. L’esperienza di vedere certi spettacoli è quella di trovarsi immersi in opere, in spettacoli impossibili da consumare, da esaurire con il proprio sguardo.
Quando, poco meno di vent’anni fa, cominciò la stagione delle serie tv con opere come Lost, I Soprano, Six Feet Under, salutammo come una felice novità l’affermazione di questo formato di arte popolare, commerciale, intuitiva, contemporanea. Secondo me, però, l’affermazione della serie tv segnalava pure un passaggio di epoca: il ceto medio istruito voleva sdoganare un’idea di arte – e di discorso pubblico – più serenamente vicino all’intrattenimento. L’espressione “consumi culturali” smetteva di essere usata come espressione critica e diventava un’espressione neutra.
Il Romaeuropa Festival, che ogni anno dà a decine di migliaia di romani una buona ragione per ricominciare a girare per una città ormai proverbialmente faticosa, è un buon posto dove perdersi in qualcosa che assomiglia più all’arte che all’intrattenimento.
Per spiegare cosa intendo voglio citare alcuni degli spettacoli che andrò a vedere in questa edizione, che comincia l’8 settembre con I Want It All di Emio Greco, Pieter Schölten e Ick Das Amsterdam, e andrà avanti fino al 20 novembre, presentando 80 spettacoli e 155 repliche in 18 spazi diversi della città.
Il 17 e il 18 settembre la coreografa e danzatrice tedesca Sasha Waltz porta in scena una coreografia con la musica – eseguita dal vivo dal 12 musicisti dell’Ensemble Casella dell’Aquila – del grande esponente del minimalismo Terry Riley. La composizione scelta è “In C”, ossia “in do”, una partitura “aleatoria” cioè che non dà istruzioni precise al cento percento ma lascia spazio all’interpretazione dei musicisti, che sono liberi di decidere in che numero essere e come ripetere i moduli che compongono l’opera, che quindi risulta radicalmente diversa a ogni interpretazione. Sasha Waltz, che ha attraversato la danza contemporanea e quella sua declinazione, nata come lei in Germania, che si chiama teatrodanza, utilizza questa base folle, pericolante, per far danzare il suo gruppo.
Ecco, vedere cose del genere è il contrario dell’esperienza di stare a casa con il tablet in grembo a consumare serie tv. E il motivo non è che la serie tv come la conosciamo è un prodotto del ventunesimo secolo mentre minimalismo e teatrodanza sono novecenteschi. Il fatto è che queste che vanno in scena al Romaeuropa sono tendenze e grammatiche che hanno avuto modo di svilupparsi lontano dal buco nero aspiratutto della cultura come consumo. L’esperienza di vedere certi spettacoli è quella di trovarsi immersi in opere, in spettacoli impossibili da consumare, da esaurire con il proprio sguardo.
Corsa all’intrattenimento
Ora, queste esperienze non sono il passato, o un modo obsoleto di vivere cultura e arte oltre le dimensioni soffocanti della divulgazione totalizzante e dell’intrattenimento: sono ancora tra noi e molto attive e frequentate. Nel 2019 sono state contate 70mila presenze e l’anno scorso, con ancora le restrizioni della pandemia, 50mila. Il fatto è che nel discorso collettivo sarà almeno dagli anni Ottanta che la cara vecchia borghesia, nel suo insieme, ha deciso che in fondo la Corazzata Potemkin è una cacata pazzesca.
Che una volta arrivati i ruggenti reaganiani-thatcheriani anni Ottanta, la borghesia poteva ormai dire di aver stravinto e dunque smetterla di impegnarsi ad ascoltare noiosi concerti di musica dodecafonica o guardare film russi in bianco e nero. Quindi è proprio il discorso pubblico a non avere più spazio per l’arte ma solo per l’intrattenimento.
Nella corsa all’intrattenimento perfetto, la persona amante dell’arte ha iniziato a vedersi proporre – o a cercare – una quantità sempre maggiore di consumi “alti” ma temperati: il romanzo “ben fatto”, oppure quella che il critico Fabio Severo chiama «la perfetta esperienza home-video»: quella cosa che succedeva negli anni Novanta quando comparivano film un po’ colti un po’ carucci, dall’aria impegnata ma insieme leggera, e la pillola del “guardare arte” andava giù con grandi dosi di sentimentalismo, esotismo, una spruzzata di valori.
Gli spettacoli
Un altro degli spettacoli di punta al ReF di quest’anno presenta una combinazione simile a quella Waltz + Riley. Anne Teresa De Keersmaeker, la fantastica coreografa e danzatrice belga di cui ho già scritto su Domani in vista del suo spettacolo all’ultimo Festival de’ Due Mondi di Spoleto, porta a Roma un suo mitico spettacolo sulle percussioni strabiche del Drumming di Steve Reich (che fu uno dei primi esecutori di In C di Riley ed è la figura più rappresentativa della scena minimalista americana). Il rigore fiammingo di Anne Teresa porta danzatrici e danzatori a muoversi in un modo coinvolgente e pochissimo sentimentale per cui la musica di Steve Reich è una compagna perfetta (a Spoleto tra l’altro la compagnia era vestita da Dries Van Noten, connazionale genio della moda).
Il Romaeuropa Festival è moltissime altre cose, ma per raccontare cosa vuol dire per chi lo aspetta tutta l’estate ho voluto scegliere le mie due cose preferite, e il tipo di combinazione tra linguaggi che indagano, quella tra una musica apparentemente fredda ma ipnoticissima e un tipo di danza capace di raccontarci del corpo umano e della sua capacità di esprimere emozioni e idee tantissime cose che nella vita di tutti giorni ignoriamo.
E ho fatto il confronto con l’era delle serie tv non tanto per dividere la cultura in un prima e un dopo, ma per dire che se a volte ci si sente spiaggiati in un eterno scroll, resi insonni dagli schermi illuminati che ci propongono serie tv fatte con cinismo sempre più androide, o da reel brevissimi che non ci accorgiamo neanche di vedere, è anche perché il nuovo mercato del mondo audio-video-internet è capace di funzionare come un ciuccio che ci distrae da ben altre cose su cui prima eravamo abituati, come dire, a stringere le labbra.
E non è nemmeno una questione di bolla/nicchia contro mainstream. I quattro nomi di cui ho parlato sono affermatissimi e giganteschi. In questo senso il programma è grande e contiene di tutto, performer da tutti i continenti e di tutti i tipi. Io vorrei andare ad ascoltare Ryoji Ikeda (music for percussion n.2), Ólafur Arnalds che suona Some Kind of Peace (con Spring Attitude Festival), e poi l’omaggio per i cento anni dalla nascita di Iannis Xenakis proposto dal PMCE – Parco della Musica Contemporanea Ensemble diretto da Tonino Battista e Thelonius Monk spiegato ai bambini dalla olandese Zonzo Company e al trio jazz De Beren Gieren.
Vorrei andare a vedere e sentire il nuovo allestimento de L’Opera da tre soldi di Kurt Weill suonato proprio dal Berliner Ensemble che fu fondata da Bertolt Brecht, e poi William Kentridge, Milo Rau, la danza dal Sudafrica (Robyn Orlin con Moving Into Dance, una delle prime compagnie di danza non razziali di Johannesburg) e del Brasile (Bruno Beltrão e la compagnia Grupo de Rua, in uno spettacolo, da quanto ho capito, contro l’estrema destra), l’ensemble belga ICTUS che suona Einstein On The Beach di Philip Glass (con la voce narrante di Suzanne Vega). Vorrei vedere come il compositore e regista tedesco Heiner Goebbels fa il suo omaggio a Henri Michaux, e come il coreografo spagnolo Marcos Morau con La Veronal ripensa Opening Night, ossia il capolavoro di Cassavetes La sera della prima.
Ci sono molte combinazioni e trasformazioni e prestiti da un medium all’altro, in programma, forse perché appunto Ref rimane quel tipo di spazio dove, più che vendere prodotti intelligibili, spiegabili, algoritmici, si indagano i linguaggi. Allora la parola “spettacolo” riesce a perdere le connotazioni peggiori, quelle che la portano verso l’avanspettacolo in un piano inclinato inevitabile.
Durante la pandemia ho smesso di guardare serie tv perché mi deprimeva l’idea di poter morire di colpo mentre facevo binge-watching di una serie, sarebbe stata una morte minuscola, da utente. Adesso che si può di nuovo andare in giro, lo penso ancora di più. Siamo vittime di un sistema di intrattenimento totalitario che ci insegue fin dentro le tasche ed è ora di smettere di mangiare le caramelline che ci offre, bisogna ricominciare a nutrirsi.
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