L’ultimo romanzo dell’autore segna uno scarto sostanziale rispetto ai precedenti: al centro del racconto ci sono le convenzioni di una famiglia borghese, non più il desiderio. Annientare è una lunga meditazione sul finire, nostro e del mondo
- Annientare è, rispetto ai precedenti di Houellebecq, un libro molto più affabile, più cordiale, per certi versi più ingenuo. Al centro del suo racconto c’è una famiglia tradizionale.
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Se però Annientare segna uno scarto sostanziale nella meditazione di Houellebecq, non è (soltanto) perché decide qui di dedicarsi alle convenzioni del romanzo borghese e dell’epopea familiare: piuttosto perché Annientare è il primo libro di Houellebecq che non parli di Desiderio.
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La società parla ora un linguaggio incomprensibile. Il mondo procede in un discorso inaccessibile, rimbalza ogni tentativo di decifrarlo. La modernità ha compiuto un salto di specie, e ha bruciato i ponti.
«Certi lunedì di fine novembre, o di inizio dicembre, soprattutto se sei scapolo, hai la sensazione di essere nel braccio della morte. Le vacanze estive non sono che un ricordo sbiadito, l’anno nuovo è ancora lontano; la prossimità del nulla è insolita».
È l’incipit di Annientare, il nuovo romanzo di Michel Houellebecq: probabilmente l’unico autore vivente nei cui libri la prossimità del nulla non è mai stata “insolita”. Anzi: l’autore di Sottomissione ha sempre abituato il suo pubblico a un nichilismo sistematico e quasi virtuosisticamente esibito, nell’ostinata e continua riproduzione di un unico tipo umano: il maschio europeo di mezza età, celibe, frustrato, disincantato, portabandiera di un cinismo che solo il fantasma della sessualità riesce a lenire.
Costellazione borghese
Annientare – lo diciamo da subito – è, rispetto ai precedenti di Houellebecq, un libro molto più affabile, più cordiale, per certi versi più ingenuo.
Al centro del suo racconto c’è una famiglia tradizionale, che funziona da copione come un micromondo classico, una tipica costellazione borghese: il padre funzionario statale, la madre scultrice (che non appare mai), la sorella fervente cattolica, il cognato notaio travet, il fratello in crisi con la moglie che non ha voluto avere un figlio biologico da lui, preferendogli un donatore afroamericano.
Da anni i membri della famiglia si ignorano cordialmente, fino a quando l’ictus del padre non li raduna tutti nella vecchia casa di famiglia a Saint-Joseph. Sembrerebbe la trama della nuova serie tv di Gabriele Muccino, se non ci fosse di mezzo anche un’oscura setta occultista ed ecofascista, impegnata ad attaccare i simboli di una modernità di cui gli stessi protagonisti sono parte integrante: cargo commerciali, video deepfake, banche del seme.
Se però Annientare segna uno scarto sostanziale nella meditazione di Houellebecq, non è (soltanto) perché decide qui di dedicarsi alle convenzioni del romanzo borghese e dell’epopea familiare (convenzioni narrative che del resto maneggia molto male): piuttosto perché Annientare è il primo libro di Houellebecq che non parli di Desiderio. O perlomeno, non nel modo in cui l’ha sempre fatto.
Per quasi vent’anni l’autore francese ha dipinto il meccanismo umano come un congegno suicida basato su una stimolazione esponenziale del desiderio. L’individuo, trasformato in una macchina desiderante al di sopra delle sue possibilità, si ritrova invischiato in un meccanismo tragico che può essere addolcito solo dall’illusione di un erotismo frenetico e appagante.
Ogni suo libro ci ha consegnato un ritratto del desiderio come di un dispositivo inesorabile e autodistruttivo. Questo, qui, manca: Annientare sarebbe, per paradosso, un titolo più adatto a uno qualunque dei suoi romanzi precedenti di quanto lo sia per questo. Il tema di Annientare non è affatto il distruggere o il distruggersi: il suo tema è piuttosto il morire: un lungo, fluviale manuale sulla fine, dove il suo canonico balzachiano tra uomo e società si smorza e viene meno.
È come se qui Houellebecq non sentisse più forza d’attrito rispetto a un mondo che in passato ha detestato fino all’iconoclastia più incendiaria. Manca, in Annientare, la sua formidabile forza d’urto, la terroristica volontà d’aggressione che ha animato ogni altro suo libro.
Gli attentati ecofascisti che punteggiano il romanzo restano vaghi e lontani, non sono che un rumore di fondo, incapace di diventare un tema reale né tantomeno una minaccia. Il romanzo rimane sempre, sino alla fine, il romanzo di una famiglia.
Annientare non è (più) un romanzo di guerra: siamo fuori dal «dominio della lotta». I personaggi di questo romanzo sono tutti reduci, ancora dentro la storia per privilegio d’anagrafe, ma ormai al di là degli eventi: agiscono quando la lotta sociale più sanguinosa, quella per la felicità individuale, è già stata da loro combattuta e persa.
Viene in mente un passaggio della Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth: «Eravamo tornati a casa, disperatamente sterili, coi lombi fiaccati, una generazione votata alla morte, che la morte aveva sdegnato».
Apocalisse generazionale
Viene meno, in Annientare, persino l’illusione dell’erotismo, quella sessualità coattiva e artificiosa a cui Houellebecq aveva abituato i suoi lettori fino alla pantomima. C’è un solo vero episodio di erotismo nel libro: inizia nel solito modo pornosoft un po’ ridicolo, così canonico da sembrare il numero di un cantante costretto dopo vent’anni a rifare sempre lo stesso tormentone.
Stavolta però tutto deflagra: la fellatio, grande topos houellebechiano, deflagra in una clamorosa, consapevole autoparodia, una gag così patetica e pirandelliana da segnalare, oltre ogni ragionevole dubbio, che quel tempo è finito, e anche il sesso è entrato nel novero delle «meravigliose menzogne».
Pochissimi scrittori sanno, a ogni libro, non limitarsi a raccontare una storia, ma inscenare una visione del mondo. Houellebecq ha sempre avuto una folgorante capacità di sintesi: la volontà, tutta illuministica e volterriana, di “dimostrare” gli ingranaggi della società liberista in tutta la loro nuda violenza meccanica. I suoi romanzi sono parabole, dimostrazioni di un teorema feroce ma lucidissimo. In Annientare questa chiarezza non c’è più.
La società parla ora un linguaggio incomprensibile. Non è un caso che il libro sia attraversato da messaggi in codice: graffiti nella metro, frenetiche attività oniriche, comunicati in rete. Il mondo procede in un discorso inaccessibile, rimbalza ogni tentativo di decifrarlo. La modernità ha compiuto un salto di specie, e ha bruciato i ponti.
Il romanzo inizia con un uomo che perde l’uso della parola e finisce con un cancro alla lingua. Se si tratta di una metafora, non potrebbe essere più chiara: se il vecchio mondo aveva una qualche sapienza, questa è malata e non più comunicabile.
La distanza è quindi irrimediabile. Ed è, è importante segnalarlo, soprattutto una distanza generazionale. In Annientare i patriarchi non muoiono più, ma sopravvivono ai propri già invecchiati figli. Il ministero dell’Economia è una piattaforma di retroguardia, guidata da bonari tecnici sessantenni la cui vita mesta e priva di ogni piacere è il manifesto della propria sconfitta. È un mondo dove i giovani non esistono più: sono fantasmi ai margini dell’inquadratura.
Mentre in Serotonina i giovani rappresentavano ancora una disperata possibilità di salute e di salvezza, qui la distanza si è fatta incolmabile. Annientare mette in scena un’apocalisse, sì: ma un’apocalisse generazionale. «Si può anche disprezzare, e perfino odiare la propria generazione e la propria epoca», scrive, «ma piaccia o non piaccia vi si appartiene, e si agisce in maniera conforme alle sue idee; solo grazie a un’eccezionale forza morale è possibile sottrarsi alla sua influenza, e lui quella forza non l’aveva mai avuta».
Annientare è il canto del cigno di una certa idea dell’uomo che tramonta insieme ai suoi ultimi, stanchi e sconfitti interpreti. Non credo sia un caso che il cognome della famiglia dei protagonisti sia Raison: è proprio un certo tipo di Ragione, infatti, che vediamo morire in mille modi: afasia, suicidio, cancro, eutanasia. Un mondo muore, mentre il mondo continua: ma su un’altra frequenza, in un’altra lingua.
La fine
Il tema di Annientare non è più il lottare o il resistere o il fuggire, ma il finire. Che si consideri vinta o persa la battaglia per la felicità, essa è già terminata. Bisogna andare a chiudere. Quello che avviene in queste 740 pagine è cercare la via di quella fine: la domanda disperata di un’educazione al morire. Ed è qui che il radar infallibile di Houellebecq nei confronti della società torna a funzionare.
Qual è infatti il nostro più grande tabù? Non più la sessualità, ma la morte. Il Covid, assente nella trama del libro, è invece molto presente nella temperatura, nel clima psichico: il corpo umano è sempre al centro del romanzo. Un corpo non più erotico, ma un corpo medicalizzato, organico, crudamente fisiologico, una macchina che dall’inizio alla fine è pertinenza non degli umanisti ma dei medici.
Annientare è un libro costellato di medici: geriatri, neurologi, dentisti, otorinolaringoiatri, una squadra di efficienti sacerdoti del corpo. Sono loro, i tecnici, i veri custodi di questa nuova crepuscolare umanità in declino. Il declino del corpo è imbarazzante, e la morte, soprattutto la nostra, intollerabile. È questo che rende le ultime cento pagine del libro uno tra i documenti più dolorosi della letteratura contemporanea, e questo libro, proprio nella sua disperante, quasi goffa nudità, il suo romanzo per certi versi più scandaloso.
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