Le “drag queen” competono in un reality show che in realtà ha una funzione educativa contro i pregiudizi. Anche se sembra solo un gioco, ha un significato più profondo che mette radici nella società
- Mi pare che l’aspetto più spaventevole (per i bigotti) della legge Zan siano i programmi di educazione contro l’omotransfobia che prevede.
- Qualche giorno fa, sulle pagine di questo giornale, Walter Siti stroncava con rassegnata acribia il ventennale di Amici di Maria De Filippi, piangendone la transizione inesorabile dal formato della scuola a quello della reality tv.
- Il contrario accade qui negli Stati Uniti con uno dei più premiati e pedagogicamente raffinati talent show, RuPaul’s Drag Race. La prima cosa che s’impara guardandolo è che il mestiere di drag queen è un gioco serio: costa esercizio e dedizione, si può valutare come una versione di greco, come uno sport.
Mi pare che l’aspetto più spaventevole (per i bigotti) della legge Zan siano i programmi di educazione contro l’omotransfobia che prevede. Più che il diritto a odiare, si difende un tendenzioso diritto a non capire, a rifiutare di organizzare la sessualità, l’orientamento, l’attrazione, l’identità in categorie separate e comunicanti, fluide ma chiare come l’acqua sorgiva; in dati e costrutti che uno può studiare, smontare e rimontare in classe, spiegare come fossero brani di realtà e non sospette ideologie o misteri della fede. Ma è la scuola, ben più di qualsiasi famiglia, il contesto giusto per misurasi con certi rompicapo, come il gomitolo di esperienze difformi ma accomunate che si arrotola intorno a questo termine foresto, gender, che persino certe filosofie di genere adoperano polemicamente come fosse infausto.
Nella sua rituale solennità la scuola stempera la solennità con cui certi argomenti si trattano a casa e altrove, li sottrae alla contingenza di una novità solo apparente per restituirli a una matassa storica che non ha davvero bandolo, ricordandoci che in fondo, da che mondo è mondo, ragioniamo sempre sulle stesse cose. Cose che magari, come il gender appunto, sono serie, ma dovrebbero essere serie come i giochi arbitrati, o i grandiosi carnevali di Rio, di New Orleans, della Roma dei Borgia.
La cena dopo una pandemia
Quasi esattamente mezzo millennio fa, a un ventennio dalla morte dell’ultimo papa Borgia, nella Roma di Raffaello si tornava a uscire dopo poco meno di due anni di virulenta pandemia. Benvenuto Cellini, che allora di anni ne aveva ventitré e non si era ancora messo a scolpire il formidabile Perseo di piazza della Signoria, ricorda che chi era sopravvissuto alla peste non vedeva l’ora di fare assembramento. Nella sua autobiografia narra della prima cena fuori senza angosce da coprifuoco, organizzata da Michelangelo. Vigeva una sola regola: chi si presenta scompagnato paga da mangiare. Gli illustri invitati (tutti maschi da pinacoteca: il Fattore, il Bacchiacca, Giulio Romano) si preoccuparono dunque di trovare degne accompagnatrici, ma fu Cellini, pur ridottosi all’ultimo, a presentarsi con la più divina delle ragazze. Gli allievi di Raffaello si inginocchiano al suo cospetto, Michelangelo le fa declamare i sonetti appesi per decorare la stanza, i musicisti la invitano a cantare con loro per i commensali, che le riservano il posto d’onore al centro della tavola. Passano diverse ore, insomma, prima che due vicine di sedia si rendano conto che quella giovane maliarda, in realtà, è un ragazzo.
Travestirsi per davvero, al punto da ammaliare chi ha inventato il concetto stesso di bellezza per il moderno occidente, è, come si diceva, una cosa seria, un gioco educativo. Cellini ce lo illustra per filo e per segno: allo zelante garzone (Diego, il figlio di un ottonaio spagnolo venuto a Roma a studiare, l’equivalente di un liceale odierno volendo) infila vestiti favolosi, anelli per le dita e per le orecchie, scialli che non guastino l’acconciatura. Gli impresta, infine, un nome di prorompente femminilità, rubato alla divinità romana dell’abbondanza, Pomona, e Diego si diverte. Tutto lo studiato maquillage, agli occhi più celestialmente ispirati d’Europa, è un divertimento liberatorio: Michelangelo ride, loda Cellini e Diego/Pomona: è un trionfo sociale. Chi teme giochi di gender, da Pillon a J.K. Rowling, non si sa divertire. Né si rende conto che per travestirsi così perfettamente da metterlo davvero in questione il genere, almeno in quegli aspetti performativi che si possono anche dismettere dopo una sera, non serve nemmeno che alla fine si scopra un equivoco.
Non è forse altrettanto divertente la scena delle Nozze di Figaro in cui Susanna e la contessa giocano a travestire da donna Cherubino, che è già una donna che impersona Cherubino? Non era altrettanto studiato il gioco fatale che vedeva Norma Jeane Mortenson impersonare Marilyn Monroe, come ci mostrano le serigrafie di Andy Warhol separando la donna da quel travestimento da donna? E che dire poi delle ragazze il cui potere di streghe, nei cartoni Mediaset d’antan, era quello di trasformarsi ulteriormente in ragazze, dall’incantevole Creamy alla magica Emi? Quando Viola Davis, in Le regole del delitto perfetto, si spoglia di parrucche e belletti superfemminili, non rivela sé stessa. Diventa una sconosciuta.
Educare
Qualche giorno fa, sulle pagine di questo giornale, Walter Siti stroncava con rassegnata acribia il ventennale di Amici di Maria De Filippi, piangendone la transizione inesorabile dal formato della scuola a quello della reality tv. Il contrario accade qui negli Stati Uniti con uno dei più premiati e pedagogicamente raffinati talent show, RuPaul’s Drag Race, una competizione di Pomone professioniste. Da buffo intrattenimento di nicchia, Drag Race si fa, per la performance del genere come arte, quello che il Cortegiano di Castiglione o il Galateo di Della Casa si erano fatti per la civiltà occidentale (che pure è una performance e un’arte, un artificio).
La prima cosa che s’impara guardandolo è che il mestiere di drag queen è un gioco serio: costa esercizio e dedizione, si può valutare come una versione di greco, come uno sport. RuPaul, il geniale ospite, lo esercita da quarant’anni a un livello olimpico e olimpionico: è la più grande drag queen vivente, forse la più grande mai vissuta. Col suo show ha educato un pubblico ormai mainstream a individuare le cifre che distinguono una drag queen qualsiasi da una regina del drag: ha insegnato agli spettatori a formulare un giudizio di valore, a condividere il suo gusto esperto. Non c’è televoto, Ru decide tutto e, dunque, insegna.
Discussioni accademiche
Sono stato iniziato a Drag Race da tre amici accademici, che lo seguono religiosamente da anni e, durante la pandemia, hanno preso a guardare ogni puntata insieme su Zoom. Mi sono aggregato a loro, dal mio salotto, per la pirotecnica finale consumatasi venerdì scorso.
Ava Shirazi, che insegna lettere classiche a Haverford e ha studiato specchi greci e poteri divinatori del fegato a Stanford, ha un approccio essenzialmente visuale: ricorda passerelle, danze, sfide, e le compara a quel che avviene nell’episodio settimanale. Mette l’intera storia di Drag Race in perpetuo dialogo con sé stessa, si domanda quali oggetti (la parrucca di Sasha Velour dalla nona stagione? Un rossetto di Gigi Goode dalla dodicesima?) sarebbero esposti in uno Smithsonian Museum of Drag.
Justin Perez, antropologo dell’Uc Santa Cruz ed etnografo dei saloni di bellezza dell’America Latina, è invece un osservatore formale, speculativo ed ermeneutico: cerca di intuire gli esiti della competizione a partire dal montaggio, ci domanda quale canzone sceglieremmo per il lip-sync che sta per celebrarsi, sonda la ricezione di certi outfit sui social media immaginando che Ru e la produzione tengano il polso del favore del pubblico.
Monica Huerta, professoressa di inglese e studi americani a Princeton, autrice di libri in uscita sulla storia legale della fotografia e sul capitalismo razziale nella ristorazione messicana di Chicago, ha infine uno sguardo strutturale, marxiano; svela le astuzie manageriali e comunicative di Ru, la sua capacità di produrre egemonia.
A ogni pausa pubblicità parte un seminario in dad. I miei colleghi ricorrono a termini tecnici, appresi dallo show, per distinguere le comedy queen dalle fashion queen, un abito iconico da uno banalmente scioccante, un makeup creativamente innaturale (rossetti verdi, caravaggeschi fondotinta quasi azzurri) da tentativi di realismo andati storti. Cercano soprattutto di anticipare le scelte di Ru, papessa e arbitro del gusto, e ci azzeccano sempre. Delle quattro queen in finale avevo subito scartato lo scozzese che tematizza la Scozia nel suo drag (Ross McCorkell, in arte Rosé: istrionica ma scialba) e l’esuberante portoricano afrodiscendente (Kandy Muse, simpatica ma troppo approssimativa). Mi pareva dovesse vincere Gottmik, visagista delle dive (ha truccato Paris Hilton, addirittura Cindy Crawford), coi suoi faraonici look e le parrucche da film in costume. Il suo artefice, al secolo Kade Gottlieb, spariglia le già flessibilissime norme della corte di Ru competendo come primo uomo trans, roba da Mozart. Non capivo perché i miei colleghi puntassero invece tutto su Symone, elegantissima alter ego di Reggie Gavin. Che ovviamente ha vinto.
Per un’ora Ava, Justin e Monica mi hanno spiegato le ragioni del trionfo di Symone attraverso paradigmi che, pur basati su quelli che adottiamo per discutere la fortuna di Pindaro o la rivoluzione haitiana, radicavano invariabilmente nell’autorità aristotelica di Ru. Abbiamo riso, serissimi, fino all’ora di andare a dormire. Mi pare che Maria De Filippi quell’autorità ce l’abbia, ma non la eserciti. Che forse una Maria in impeccabile drag, al timone di un carnevale serio in cui il talento si esprima in misurabili commerci tra le cose da maschio e le cose da femmina, ci vorrebbe anche da noi. Ma prima, leggiamo Cellini (e Paolo Poli) e approviamo il ddl Zan.
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