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Se potete chiamarci vittime è solo perché non eravamo i più forti. La nostra condizione non sgorga da nessun cuore puro, organo di cristallo, ma dalla semplice contingenza
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Siamo tutti da sempre in cerca di capri espiatori, bersagli viventi sui quali scaricare la fatica di andare avanti, il peso dei giorni. La frustrazione e il bisogno di essere visti
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Se potete chiamarci vittime è solo perché non eravamo i più forti.
La nostra condizione non sgorga da nessun cuore puro, organo di cristallo, ma dalla semplice contingenza. Casualità dei rapporti di forza. Il ragazzino preso di mira che sono stato avrebbe volentieri decapitato i suoi aguzzini per un insulto – mille occhi per il mio occhio, fino a diecimila denti nemici per risarcire il graffio al mio sacro dentino. Nessuna commisurazione, proporzionalità, giustizia. E l’impulso non si coniuga solo al passato. Venti, trent’anni dopo, se fossero date le condizioni: andarli a scovare uno a uno, infognati nelle case popolari in cui sicuro saranno rimasti, ignoranti nullafacenti, con le loro tute acetate tarocche, i videogiochi rubati, i figli arrivati a fiotti come conigli, e farli perire sotto i colpi di un ricordo che ancora morde. Michael Sattariva che in prima e seconda media – in terza fu a causa sua che cambiai scuola – mi chiudeva negli angoli del corridoio della Luini e, guance paonazze, procedeva indisturbato a riempirmi di pizzicotti e sberle sulla testa e sul collo. Se mi avessero fornito lo strumento per rimediare una volta per tutte all’inferiorità muscolare, sasso, lama, proiettile, non avrei esitato.
Oggi non esiterei. Lucrezia, l’amica mascolina della mia compagna di classe, che all’uscita mi aspettò vicino alla chiesa, e mi tirò un calcio rotante in pancia perché avevo usato con la sua protetta una delle parole divertenti che a casa mia venivano ripetute per sfottersi tra femmine – mignotta o forse puttana. Se avessi potuto l’avrei data in pasto ai pittbull dello spacciatore del sesto piano, impalata davanti alla statua dell’angelo sotto cui si è celebrata la mia santissima comunione, il corpo di cristo amen.
La danza fatale
Non avrei esitato, esattamente come oggi non esito, non esitiamo, noi tutte vittime intoccabili a unirci compatte, nelle fila serrate dei nostri caroselli digitali, coi nostri livorosi cinguettii, contro il sospettato di turno. Mille, diecimila, un milione, sognando che soccomba: per una parola, storta o di troppo, l’energia che ci stringe in un sol corpo è quella che mira alla soppressione totale. Morte civile – non sarebbe bellissimo se non ne restasse traccia sul pianeta Terra? Accerchiamo il responsabile, e diamo inizio alla danza fatale. Rosa Bazzi che, confessando in video, proclama: più pestavo, più mi sentivo forte. E poi, più avanti: la legge non mi proteggeva, me la sono fatta da me.
Nessuna disponibilità all’evenienza dell’errore (le persone non cambiano), figurarsi il perdono. Restituire al mittente l’offesa, elevata alla potenza della massa. Noi contro loro, e lo schieramento avversario si condensa di volta in volta in un esemplare concreto. Nome e cognome, ucciderne uno, educarne cento. Scopro in me un inesauribile piacere nel provocare, infliggere, giustiziare: ho pensato di correggere la società e ho solo aumentato l’odio che le circola dentro.
Siamo tutti da sempre in cerca di capri espiatori, bersagli viventi sui quali scaricare la fatica di andare avanti, il peso dei giorni. La frustrazione e il bisogno di essere visti. Il cuore reazionario è sempre più simile a quello progressista, dato che anche per noi ora il fine giustifica i mezzi. Questo è il tempo del santo sadismo, la legittimazione del bene ci permette di pestare duro finché il respiro dell’altro svanisce (o che almeno resti senza lavoro, per questo tagghiamo università, case editrici, istituzioni a piacere). Dateci un pretesto morale e vi desertificheremo il mondo.
Ruoli confusi
La verità è che la realtà da vicino confonde, sovrappone i ruoli all’interno di uno stesso individuo: spesso ho avuto la sensazione che mia madre istigasse gli uomini che la picchiavano. La sua furia pari alla loro. Cercava di dire la cosa più cattiva per ottenere la deflagrazione, arrivare allo scontro. Durante pranzi e cene, nella testa del bambino che sono stato: basta, mamma, perché fai così? Perché preferisci la lotta alla pace, o alla fuga. Quanto avrei voluto che per noi fosse prevista la fuga – io e te, mamma, verso l’arcobaleno. Qualcosa in lei spingeva verso il punto di non ritorno, un richiamo irrefrenabile che sentivo attirarci verso lo strapiombo.
Alla fine aveva la meglio quello a cui la natura aveva fornito le mani più forti, ma le intenzioni io le ho sempre percepite sinergiche (nel primo ricordo della mia vita la mano di mio padre stringe quella di mia madre che impugna un paio di forbici di ferro). Uguale il bisogno di farsi male, annullarsi in un magma comune di rabbia e dolore. Suo padre le scaraventava i piatti in faccia se rifiutava il menù del giorno, i suoi uomini l’hanno sollevata per il collo e strappato ciocche di capelli: quando ho iniziato a essere troppo grande per le sole mani, mia madre ha cercato di usare con me il bastone (ricordo della bisnonna, nell’armadio a prendere polvere). Io, bambino innocente perseguitato, poi con Milù, la gatta persiana: scariche elettriche con l’accendigas fino a farla svenire, andandola a prendere sotto i tavoli, i letti, gli armadi. Tutti uniti nella spirale dell’abuso, sacra famiglia del massacro.
Vittime impure
Negli ambienti violenti è raro avere vittime pure, anelli della catena del male che solo subiscono: ognuno replica più in basso, dove può, l’atto oppressivo. Qui la psicologia, l’indagine emotiva, divergono dalla politica, e dalle sue propaggini degradate, opportunistiche. Ci sono verità che non sappiamo più contemplare, perché tracciano similitudini e contiguità, più che schieramenti. Benvenuti a cospetto del tabù massimo per l’attivismo digitale: il drappo calato dell’autopromozione esige di eclissare la natura umana.
Parcellizzarla. Trattieni solo quello che ti serve, gli elementi funzionali alla lotta, e occulta il resto. Come fanno le aziende e i partiti, come hanno fatto per secoli le chiese. I loro santi sono sempre stati dispositivi narrativi utili per creare un condizionamento inespugnabile, organizzare un potere. Le persone reali sono confusione e contraddizione, ambivalenza e ripensamenti. Le persone raccontate per intero sono tentativi di segno misto ai quali seguono tentativi di segno misto, fino alla fine del tempo che ci viene concesso. È l’ideale contemporaneo delle identità paralizzate che può giocare invece questo gioco sclerotizzato: nella realtà ci si muove, e quando ti muovi è facile sbagliare.
Il male non è estirpabile dall’essere umano: può solo essere arginato, stondato, a patto che prima venga prima accettato. Quello che abbiamo sotto gli occhi è uno scenario in cui nessuno lavora su di sé per sciogliere i nodi della violenza e dell’egoismo, addomesticando il tiranno che ci abita dentro. Il male viene circoscritto all’altro, ad un altro. E se il male in noi viene rimosso, facilmente contamina tutto.
Il male proiettato solo all’esterno agisce al di là e contro le nostre intenzioni. Questo è il tempo della prevaricazione praticata trasversalmente, contro l’immigrato o il giornalista sessista, le famiglie omogenitoriali o l’attrice che pronuncia un discorso urticante per i parametri dell’inclusività. Cuore reazionario accanto a cuore progressista: anche per noi ora il fine giustifica i mezzi. Astenersi, sospendere il giudizio, mettere in prospettiva, spendersi nell’autocritica, aiutare chi sbaglia, diversificare registri e contesti: non accade quasi mai. O se accade non si vede: questo l’illusionismo osceno degli algoritmi, la nuova antropologia funzionale alla mercificazione dell’identità personale.
Oggi ci vogliamo sfogare, scaricare sull’altro la pressione del mondo.
Lo schermo e i tagliagole
La separazione data dal mezzo – schermo che non funziona da specchio –, incentiva la frenesia da tagliagole, tutta parole proibite e circuiti di pensieri immodificabili: le persone smettono di essere tali in nome dell’autopromozione che, per esser garantita, ha bisogno si celebrino ogni giorno almeno una manciata di sacrifici rituali. Ogni utente che sputtano, ogni profilo che divoro, nutrirà la barra della mia vitalità, consoliderà la mia presenza agli occhi dell’anfiteatro eccitato. Energie che accrescono, non il bene, il giusto, ma l’enorme ventre affamato che quasi sempre si cela dietro alle nostre azioni, il nutrimento di sé. Patrimonio formato reputazione.
Così avanziamo, di cadavere in cadavere, sempre più opachi e insensibili, bidimensionali e agguerriti, verso cosa non si sa. Meccanici e stolidi, convinti di appartenere a una specie diversa rispetto a quella a cui releghiamo i nostri avversari. Uomo mangia uomo, appiccicandoci addosso maschere orripilanti, che azzerano ogni dignità dell’altro e scatenano pulsioni funeste. Senza vera morale, senza nessuna compassione per la condizione umana, e i suoi punti ciechi.
Ognuno al sicuro, solo finché non toccherà a lui, a lei, diventare la bambola voodoo prescelta per l’esorcismo del giorno. Inciampare nel santo recinto, e smarginare, avvampando senza rimedio tra le aride crepe del territorio proibito.
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