Il compositore giapponese morto a 71 anni aveva messo quasi tutto nel suo primo album, Thousand Knives La sua eredità ecologista è in mano ai ragazzi che in giro per il mondo si occupano degli altri e di sé stessi
Riascoltare immediatamente il primo album di Ryuichi Sakamoto: Thousand Knives, anno 1978 (ristampato da noi ancora nel 2019) perché sta quasi tutto lì, come dentro una miniatura medioevale. Il primo minuto e mezzo è la sua voce probabilmente.
Recita una poesia di Mao Tse Tung sulla guerra in montagna e «il nemico scappato di notte» però dentro un vocoder in stile Kraftwerk. Sono passati dieci anni dal ’68 giapponese, gli scontri con la polizia più violenti mai visti in occidente contro la guerra in Vietnam e l’imperialismo americano ai quali Sakamoto da liceale ha partecipato e, aggiunge con tutta onestà, ha perso di brutto. Smetterà di occuparsi di politica, come tanti della sua generazione.
La sua musica non dirà più niente, oltre il puro esistere del suono. Mao resta un’opzione estetica: il completo cinese rosso acceso (e il cappellino con la stella) addosso ai quattro della Yellow Magic Orchestra sulla copertina dell’album Solid State Survivor lo stesso anno. Centinaia di poster e copertine ovunque, il minimalismo della moda di Yoshi Yamamoto e Issey Miyake, un tocco di glamour dentro le immagini distopiche alla 1984, grande testo di riferimento in quegli anni.
I Kraftwerk vagheggiavano Weimar e la storia interrotta della Germania prenazista. Sakamoto e i suoi amici hanno tutto un impero dei segni da sovvertire e ricomporre, come ci raccontava in quel periodo Roland Barthes. E i mille coltelli nel titolo dell’album ricordano gli effetti della mescalina nel racconto di Henry Michaux, i diari del suo viaggio in oriente negli anni Trenta, ispirazione per Barthes.
Sulla copertina, il pianista diplomato in composizione e musica elettronica porta una giacca di Armani, la camicia kaki, cravattina stretta rossa, jeans Levi’s scuri, secondo la divisa della new wave internazionale anni Ottanta, nuovo jet set di teatranti, videoartisti, musicisti. Ha 26 anni, è bellissimo e ci mancherebbe. La foto ha per sfondo le piastrelle bianche di un bagno, altro clichè d’epoca. Tiene in mano una lampada da tavolo accesa chissà perché. Il design salverà il mondo?
Per i successivi 9 minuti del pezzo di apertura (il disco continua a girare sul piatto) suona un tappeto fusion preso di peso dal jazz-rock davisiano di allora. A lungo in primo piano c’è la chitarra elettrica di Kazumi Watanabe, con una certa crescente inquietudine perchè questa musica sembra arrivare da un altro mondo, dalle strade di una metropoli di cui immaginiamo soltanto i contorni e non i confini, la cui artificialità assoluta ci spaventa (per un film visionario come Blade Runner c’è ancora molto da aspettare).
In certe improvvise aperture melodiche, folgoranti, che non ti aspetti, Sakamoto usa le scale pentatoniche e esatoniche, le stesse con le quali Puccini o Debussy avevano accompagnato il nostro sguardo morboso sull’oriente. In quegli anni Settanta e Ottanta con Harumi Hosono, con la Yellow Magic Orchestra, mette per la prima volta uno specchio di fronte al nostro esotismo.
Gioca coi clichè della exotica, con le marcette celibi delle colonne sonore dei nuovissimi videogiochi. Il turista giapponese sbuca dal futuro, ci scruta e ci fotografa, come se fossimo dentro i viaggi di Gulliver. Siamo noi, adesso, a guardare l’orizzonte aspettando il fil di fumo. Turisti. Perduti.
Panorama sonoro odierno
Lo smarrimento è la cifra di quella musica. The end of Asia, in fondo a Thousand Knife. gioca con una tavolozza emotiva che ci appare definitavamente mutante. Rydeen, nel disco della Yellow Magic Orchestra dell’anno dopo, che è già una formula, diventa la sigla di Bis, il quiz quotidiano di Mike Bongiorno su Canale 5. In quel periodo, i sistemi di visione, di riproduzione del suono, gli apparecchi televisivi, gli strumenti musicali elettronici sembrano all’improvviso tutti giapponesi. Sony, Hitachi, Sanyo.
Mettiamo tra parentesi le strane creature degli anime e dei manga che sono già nella nostra testa e in tv, questa è un’altra storia. Come in una nuova Esposizione Universale, Korg e la Roland forniscono in anteprima assoluta gli strumenti a Sakamoto e ai suoi amici.
La nuovissima batteria elettronica Roland 808, per esempio. Per questo Yellow Magic Orchestra sarà una delle band più influenti della musica di fine secolo accanto ai Kraftwerk e Giorgio Moroder, ispirazione riconosciuta per l’hip-hop, l’electropop, la musica techno, per tutto il panorama sonoro nel quale ci troviamo ancora un po’ immersi.
New wave elegantissima, minimale, l’aristocrazia di un gusto ultraraffinato e snob. Harumi Hosuono è capace di usare nella stessa canzone la musica hawaiana e funiculi funiculà; Sakamoto si dedica a decostruire Claude Debussy, già riascoltato nei dischi del maestro di synth Isao Tomita, altra ispirazione del gruppo.
Tornando a Thousand Knives, in Islands of Woods siamo dentro la calotta enorme di una natura di plastica mentre cantano gli uccellini, o forse soltanto i sintetizzatori. Una tastiera bassa attacca quella che sembra una toccata di Bach, però storta, salvata dalle acque, come emersa dal naufragio di tutto in una Natura di cui si è perso il controllo.
A questa idea cageana, aleatoria dei suoni, Sakamoto era tornato negli ultimi anni. Negli album come Async e 12, nella colonna sonora di The Revenant, nella musica composta da solo nella sua casa di New York o in collaborazione con il musicista elettronico Alva Noto, sculture di suono nel tempo. Certo, doveva la sua popolarità internazionale alle colonne sonore: Forbidden Colors da Furyo, Sheltering Sky, il tè nel deserto, L’ultimo imperatore, Oscar 1987. Destino vagamente antiautorale, legarsi alla musica da film. Ossequio al minimalismo, a Erik Satie, ancora a Cage, graffio Zen. Oppure chissà, porta di ingresso ai codici misteriosi di un estetica irrimediabilimente Altra.
Il Sakamoto che conosciamo meglio, e sa farci scendere una lacrima ogni volta che parte il melò gamelan di Forbidden Color, maneggia perfettamente i codici di Morricone, Dmitri Tomkin, ancora Debussy. Lontani parenti della stagione dei melodrammi esotici, Nagisa Oshima e Bernardo Bertolucci, due maestri nouvelle vague arrivati alla maturità, gli danno la possibilità di lavorare a drammoni globali, scontri di civiltà, macchine decadenti.
Internazionale e globale per l’ultima volta è quel cinema, le ultime stagioni prima della rivoluzione della Rete. La musica di Sakamoto è malinconica, rigorosa, lo struggimento trattenuto – geometrico – per la fine di un’epoca.
Occidente indifferente
Infine, dopo aver riportato a casa Debussy e certe trasparenze di Ravel e Faurè, scuola francese, i suoi preferiti, affronta la somma indifferenza dell’occidente nei confronti della diversità del mondo e delle persone che lo abitano. Non c'è niente di eroico nè prometeico nella sua musica. Non vale la pena.
Figlio com'è dell'atomica, una delle più grandi cesure della storia dell'umanità, Sakamoto sa spogliarsi facilmente di tutto ciò che non è suono. Dopo Fukushima, la nuova tragedia nucleare, e attraversando la malattia che lo accompagna negli ultimi anni ritrova la compassione e il senso di solidarietà necessari di fronte ai disastri prossimi venturi.
Li ritrova nella musica di Bach, che aveva studiato da ragazzo e ha ripreso in mano grazie ai film di Tarkowski, come spiegava a chi curioso voleva capire perchè il più impressionista dei musicisti pop abbracciasse il più geometrico dei compositori antichi. Per questo, spiegava: come il kantor che a Lipsia componeva ogni domenica dell'anno qualcosa per la sua comunità, e insegnava musica ai ragazzi. Per dare forza, riflettere, farsi coraggio. La sua ultima lezione è la più struggente. Militante ecologista, Sakamoto lascia in eredità la sua musica ai ragazzi che adesso in giro per il mondo si occupano degli altri e di sé stessi.
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